I movimenti universitari sono stati gli unici capaci di aprire una crepa nei terrificanti nove mesi di massacro in Palestina: la loro protesta è emersa fortissima negli Stati Uniti, poi anche in Europa, Australia, Canada, Giappone, e ancora in Libano e in India. I loro campi, definiti “spazi liberati”, hanno tenuto viva l’attenzione sulla guerra a Gaza e contrastato le narrazioni semplicistiche e la deumanizzazione del popolo palestinese; hanno promosso la solidarietà, decostruito le accuse di antisemitismo, indotto molte università a riconsiderare le loro decisioni finanziarie e a riconoscere le proprie responsabilità rispetto alla violazione dei diritti. Ispirandosi all’esperienza sudafricana e alla tradizione della nonviolenza, studenti e studentesse hanno scritto dichiarazioni e lettere, coinvolto docenti, cercato il sostegno della società civile, stretto legami con organizzazioni per la giustizia sociale; hanno promosso seminari e corsi sulla storia della Palestina e del sionismo e svelato coinvolgimenti di istituzioni e ricercatori nell’industria di armi. Hanno condiviso molta vita quotidiana vivendo gli spazi delle università in maniera nuova. Ma soprattutto hanno dimostrato che è possibile fare politica in modo diverso. Alcune voci di studenti e studentesse che hanno partecipato ai campi
“Quando si vedono gli studenti insorgere, allora si comprende che qualcosa deve cambiare e le cose cambieranno” (Rania Amine, McGill University)
Con la pubblicazione in traduzione italiana del reportage di Priyanka Borpujari sul campo studentesco al Trinity College di Dublino che compare in appendice a queste note introduttive, Voci di pace si propone di raccogliere le esperienze di studenti e studentesse nel corso delle proteste che si sono diffuse in tutto il modo a partire dal mese di aprile: le motivazioni che le hanno animate, le attività che si sono svolte nei campi, la risonanza e gli esiti dell’attivismo.
“Ancora una volta i giovani sono la coscienza del mondo”. Così hanno scritto Omar Barghouti (tra i fondatori del movimento per il disinvestimento, il boicottaggio e le sanzioni BDS), Tanaquil Jones e Barbara Ransby (leader della Coalition for a Free South Africa) ricordando storia della mobilitazione studentesca a partire dagli anni Settanta. Il movimento di solidarietà con la Palestina che si è sviluppato negli ultimi mesi, infatti, si inserisce in una lunga storia di attivismo ed è stato definito il più grande movimento studentesco contro la guerra dal 1968. Allora studenti e studentesse affrontarono questioni politiche nazionali e internazionali, diedero vita a vasti movimenti sociali; le loro idee e il loro agire hanno ispirato intere generazioni e influito sull’opinione pubblica e sugli orientamenti della politica (Boren, Student Resistance 2013); oggi l’estensione della protesta e lo slancio etico che la anima hanno già infuso la speranza di possibili esiti dirompenti nella società.
Iniziata nell’ottobre 2023 con marce e veglie, la protesta studentesca per il BDS, un movimento promosso nel 2005 da associazioni palestinesi, è dilagata dall’aprile 2024 e ha coinvolto almeno 160 Università in 17 paesi. I campi sorti negli Stati Uniti, in Europa, in Australia, in Canada, in Giappone, in Libano e in India hanno coinvolto centinaia di migliaia di giovani. Negli Stati Uniti sono stati organizzati 50 campi in 45 stati, 36 in Gran Bretagna, 18 in Canada, ma questi dati potrebbero essere sottostimati. Nella sola regione dell’Ontario La Federation of Students, la più antica e più vasta organizzazione studentesca della provincia che rappresenta 350.000 studenti, ha promosso e sostenuto la protesta.
L’indignazione profonda e un doloroso senso di complicità nel genocidio sono stati all’origine della rivolta morale, in particolare in quegli atenei che investono massicciamente in Israele, e sono stati esacerbati dalle irruzioni della polizia e dagli arresti. Ha scritto Grey Battle, una giovane studentessa della Yale:
Sono distesa nella mia stanza del dormitorio […]. Piango perché ogni ora che passa, 42 bombe vengono sganciate su Gaza. Yale non rivelerà quante di queste bombe ho finanziato con i soldi della mia retta. Gridiamo: “Yale, vergogna” e per essere ammessi a questa istituzione abbiamo lottato con le unghie e con i denti. Gridiamo: “Vergognatevi” agli amministratori che hanno contribuito a selezionare ciascuno di noi. Abbiamo scelto Yale e lei ha scelto noi, ma noi siamo stati traditi […]. Sto scrivendo del fallimento etico di un potente centro di istruzione occidentale.
L’epicentro della protesta è stata la Columbia University, tra le Università che maggiormente investono in imprese e istituti di ricerca coinvolti nella guerra e nell’occupazione della Palestina. Il campo alla Columbia è stato organizzato dalla Columbia University Apartheid Divest (CUAD) istituita nel 2016 proprio per il disinvestimento da Israele. Come molte altre Università statunitensi, la Columbia ha una lunga storia di attivismo studentesco. I collettivi studenteschi di quella Università furono i primi, tra il 1979 e il 1985, a impegnarsi per il disinvestimento dalle aziende che operavano in Sud Africa; tra il 2013 e il 2014 essi lanciarono la campagna Columbia Prison Divest costringendo l’Università a ritirare gli investimenti da società carcerarie a scopo di lucro e tra il 2016 e il 2017 il gruppo Sunrise Columbia ha ottenuto l’impegno a disinvestire dalle imprese di estrazione di combustibili fossili, una protesta che nei mesi scorsi si è riaccesa anche in altre Università (Tulane, Virginia) intrecciandosi con quella per il disinvestimento da Israele.
Guerra, razzismo, clima. La lunga lotta per il disinvestimento
A partire dagli anni Settanta nel movimento studentesco per il disinvestimento si è andata affermando la consapevolezza della connessione tra guerra, colonialismo e clima. Ha scritto Omar Barghouti:
La lotta per smantellare il decennale regime israeliano di colonialismo e apartheid in Palestina va di pari passo con le lotte globali per la giustizia, compresa la giustizia climatica. La catastrofica crisi climatica è esacerbata dalla disuguaglianza e dall’oppressione globali e causata principalmente da governi e aziende complici che mettono il profitto prima delle persone e del pianeta.
L’esperienza della protesta contro l’apartheid in Sud Africa, quando 150 college e università statunitensi cessarono di investire in compagnie impegnate nel paese, è ancora oggi un punto di riferimento fondamentale, fonte di ispirazione e di speranza non solo per il movimento studentesco statunitense. Allora Nelson Mandela riconobbe il ruolo della mobilitazione giovanile nel porre fine ad anni di ingiustizia e nel 2013 l’arcivescovo sudafricano e premio Nobel per la pace, Desmond Tutu, incoraggiò gli studenti statunitensi a perseverare nella loro opera di pressione contro tutte le forme di giustizia, inclusa quella climatica.
Dal 2010 la campagna per il clima ha coinvolto i giovani di oltre 300 college e Università Usa affinché le rispettive Università cessassero di finanziare le compagnie impegnate nell’estrazione di combustibili fossili. Il movimento ha preso avvio dagli studenti dello Swarthmore College in Pennsylvania e si è diffuso rapidamente all’Europa, alla Scandinavia e all’Australia (nel complesso 560 campagne dal 2011 al 2014). Anche allora gli studenti adottarono metodi di lotta nonviolenta praticati nella protesta contro l’apartheid: sit-ins, occupazioni, blocchi. Dopo una battuta d’arresto intorno al 2016, dal 2019 il movimento ha ripreso vigore, è diventato più radicale e più creativo, ha riacquistato la sensazione di essere parte di un movimento vasto, nazionale e internazionale. Pochi mesi prima che si accendesse la protesta pro-Palestina, nel febbraio 2023, in Canada la MacGill University, dopo 12 anni di mobilitazione studentesca, ha accettato di disinvestire dai combustibili fossili. In Canada, inoltre, gli studenti hanno saputo unire la loro protesta a quella dei nativi contro il gasdotto per i prodotti del fracking. L’affermazione la sovranità delle popolazioni indigene sulla terra è stata al centro della protesta che si è levata dai campi in solidarietà con la Palestina per la fine del regime coloniale.
I campi
La costruzione uno spazio pubblico di protesta e dialogo in cui immaginare nuove visioni sociali ed elaborare nuove pratiche politiche ha una lunga tradizione. Anna Feigenbaum, studiosa dei campi di protesta, l’ha fatta risalire al XVII secolo, ovvero all’esperienza dei “Livellatori e Zappatori” che rifiutavano l’idea della proprietà privata della terra. Ritroviamo la volontà di affermare l’antico principio del diritto all’accesso e alla gestione collettiva della terra e degli spazi pubblici nei campi dell’organizzazione “Food Not Bombs”, in quelli creati dalle popolazioni native contro il land grabbing, in quelli che sono sorti presso le basi militari o le centrali nucleari, in quello delle donne a Greenham Common, epicentro della protesta contro il nucleare, in quelli in difesa di boschi e aree naturali, in quelli organizzati dal movimento Occupy e molti altri. Idee e strutture sono state continuamente “adottate e adattate”.
Come le “baraccopoli” costruite in più di cento Università statunitensi durante le campagne di disinvestimento dal Sud Africa per rendere visibili le condizioni abitative della popolazione di colore durante l’apartheid, così i campi sorti tra aprile e maggio 2024 hanno voluto rappresentare visivamente e concretamente l’esperienza palestinese dello sradicamento. In molti campi studenti e studentesse hanno fatto ricorso allo sciopero della fame: a Princeton, Yale, MacGill, alla Brown University (Rhode Island) a Parigi, all’Università di Maastricht, a Edimburgo. Rania Amine, studentessa della MacGill, dopo 33 giorni di sciopero perché “le cose non andavano avanti”, ha così espresso le ragioni della sua determinazione: La McGill alla fine ci ha spinto a intraprendere questa forma estrema di azione e a mettere in gioco i nostri corpi, la nostra salute e le nostre vite per far loro sapere che è assolutamente inaccettabile che utilizzino i soldi delle nostre tasse scolastiche per investire in questo modo. Rania è stata ospedalizzata il giorno successivo, ma altri studenti e studentesse continuano nella consapevolezza della grande pressione necessaria per indurre il cambiamento; lo ha sostenuto anche una studentessa della Brown, Ariela Rosenzweig, 23 anni, membra del gruppo Brown’s Jewish for Ceasefire, che ha partecipato allo sciopero della fame.
Abbiamo visto che storicamente è stata necessaria molta pressione da parte dell’attivismo studentesco per indurre l’Università a fare la cosa giusta. Lo abbiamo visto con l’apartheid in Sud Africa, proprio in questo campus; abbiamo visto che [la Brown] ha disinvestito dal Sudan, dal tabacco – e tutte queste proteste hanno richiesto questa maggiore pressione studentesca.
Molti sono stati i segni di solidarietà e di sostegno: diverse associazioni, semplici cittadini e cittadine hanno inondato i campi di strutture e provviste; importante è stato il sostegno della American Friends Service Committee, l’organizzazione quacchera che dagli anni Settanta è impegnata nelle campagne nonviolente di boicottaggio e disinvestimento contro il nucleare, per la difesa dell’ambiente e dei diritti umani e contro l’occupazione della Palestina a cui dal 1948 offre aiuti umanitari. L’organizzazione pacifista femminista Codepink ha lanciato una campagna di disinvestimento e ha invitato ad amplificare la protesta studentesca. Né sono mancate le manifestazioni di gratitudine da parte degli studenti di Gaza. A Rafah i bambini hanno tenuto tra le mani cartelli e striscioni di ringraziamento e sulle tende che ora funzionano da scuole sono apparse frasi di riconoscenza. Ha detto Takfeer Abu-Yousuf, uno studente sfollato dal nord di Gaza: “Ci hanno sostenuto con la loro umanità. [Scriviamo] messaggi di ringraziamento sulle nostre tende, quelle tende che non ci proteggono dal caldo o dal freddo. Il minimo che possiamo fare è ringraziarli”.
Questi messaggi da campo a campo, da tenda a tenda sono stati tra le fonti di incoraggiamento più importanti.
Nel complesso, i campi, definiti “spazi liberati”, luoghi di resistenza attiva, di scambi culturali e apprendimento, hanno tenuto viva l’attenzione sulla guerra a Gaza, contrastato le narrazioni semplicistiche e la deumanizzazione del popolo palestinese; hanno promosso la solidarietà, decostruito le accuse di antisemitismo, indotto molte università a riconsiderare le loro decisioni finanziarie e a riconoscere le proprie responsabilità rispetto alla violazione dei diritti umani.
[Alla Brown], ha detto Ariela Rosenzweig lo spazio era davvero pieno ogni giorno di persone che stavano onestamente e sinceramente imparando molto – persone che non erano il solito gruppo dei cento irriducibili e hanno partecipato a tutto, ma davvero come l’intera comunità universitaria che unisce e si impegna davvero.
Ispirandosi all’esperienza sudafricana e alla tradizione della nonviolenza, studenti e studentesse hanno scritto dichiarazioni, inviato lettere, appelli, coinvolto docenti, cercato il sostegno della società civile, stretto legami con organizzazioni religiose e per la giustizia sociale; hanno organizzato seminari e corsi sulla storia della Palestina e del sionismo, svelato coinvolgimenti di istituzioni e ricercatori nell’industria di armi.
A differenza di marce e manifestazioni, i campi si sono configurati come basi per l’azione politica, momenti di riproduzione sociale e di produzione artistica. Poster, striscioni, distintivi, pannelli comunicano efficacemente le motivazioni e gli obiettivi della protesta, promuovono il cambiamento sociale, promuovono un uso alternativo dello spazio pubblico. Come si legge nel sito di Codepink, a proposito del campo alla DePaul University:
Il campo è praticamente un villaggio, completo di tenda medica, tenda artistica, forniture gratuite, cibo e acqua, interamente forniti dalla comunità e con personale volontario. Qui la comunità è ciò che ci tiene al sicuro, stiamo dimostrando di avere tutto ciò di cui abbiamo bisogno senza dover investire in armi e guerra.
Guardare ai campi da un punto di vista femminista, ha scritto Catherine Eschle (Feminism and Protest Camps, 2023), rivela come essi prefigurino modi di vita alternativi portando la vita domestica nella protesta politica e rompendo la divisione tra sfera pubblica e privata. Le giovani donne hanno avuto un ruolo di rilievo nella protesta: lo rivelano le immagini e i video diffusi attraverso la rete in cui esse appaiono numerose e attive e le interviste da cui emerge la loro prontezza a prendere la parola, la loro determinazione e radicalità.
Gli esiti dell’attivismo
Nonostante il carattere nonviolento della protesta contro un crimine che la Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto compatibile con il genocidio, negli Stati Uniti, ci sono stati 2900 arresti e decine di irruzioni violente nei campi: alla Columbia, a Yale, all’Università di Emory ad Atlanta, a Chicago, all’Università del Michigan, solo per citare alcuni casi. A studenti e studentessese sono state inflitte varie forme di punizione umilianti, espulsioni dalle case dello studente, sospensione da esami e dei visti. Sgomberi e altre forme di repressione amministrative si sono verificate ovunque.
In alcuni casi gli studenti hanno spostato i campi e hanno continuato la protesta.
Tuttavia, sono anche le Università che si sono impegnate a rivedere la propria politica di investimento sono state numerose, almeno 15 secondo le rilevazioni della ASFC, al 21 maggio 2024, che tuttavia riguardano prevalentemente gli Stati Uniti. Gli esiti si conosceranno solo a partire dall’inizio del nuovo anno accademico, ma fin da ora si può affermare che il solo fatto di aver portato alla luce quanto sia diffusa la convinzione dell’immoralità degli investimenti in Israele potrà scoraggiare le Università dallo stringere legami economici che potrebbero portare loro discredito.
Di grande rilievo è il caso della Spagna dove il 9 maggio la Conferenza dei rettori di 76 università – 50 università pubbliche e 26 private – ha annunciato la decisione di sospendere le collaborazioni con le università israeliane “che non abbiano espresso un fermo impegno per la pace e il rispetto delle Convenzioni internazionali per i diritti umani”. La decisione, hanno dichiarato i rettori, è avvenuta a seguito della consapevolezza di quelli che sono “i sentimenti dei nostri campus”.
In Italia, dove è stata lanciata una campagna per la revoca degli accordi con l’istituto israeliano di tecnologia, merita una menzione la scelta dell’Università di Torino di non collaborare con Israele per nuove ricerche nel campo dell’elettronica “dual use”, ovvero utile a scopi sia civili che militari.
Una delle esperienze più significative è quella del Trinity College a Dublino dove gli studenti hanno bloccato con le panchine l’entrata del frequentatissimo Book of Kells Museum. “Le panche possono tornare alla loro posizione originale, ma le migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi assassinati da Israele no. Loro non ci sono più. Il Trinity College deve tagliare ogni relazione con lo Stato d’Israele” ha detto László Molnárfi, presidente del sindacato studentesco. È quanto sarebbe accaduto pochi giorni dopo.
Nelle pagine che seguono, Priyanka Borpujari, autrice di numerosi reportage su questioni relative diritti umani, ha raccolto le voci di studenti e studentesse che hanno partecipato al campo universitario nella capitale irlandese, ricostruito gli eventi, le modalità, le motivazioni che hanno portato alla vittoria della loro mobilitazione. Dai loro racconti emerge l’orgoglio per la propria capacità di agire, l’importanza dell’esperienza del movimento anti-apartheid in Sud Africa, la condivisione della vita quotidiana, di timori, incertezze, ma anche l’entusiasmo per l’azione collettiva.
L’articolo è stato pubblicato il 17 maggio all’interno del sito WagingNonviolence.
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Dentro il movimento studentesco che ha costretto il Trinity College irlandese a disinvestire da Israele
[Priyanka Borpujari*]
Quando si è diffusa la notizia della repressione delle proteste nei campus statunitensi, gli studenti irlandesi ne hanno tratto ispirazione e pianificato un percorso strategico che ha portato alla vittoria.
Subito dopo aver compiuto 16 anni, Ben, nato a Dublino, ha trascorso le vacanze estive lavorando presso alcune società di eventi che organizzavano concerti e commedie. Non sapeva che tre anni dopo quell’esperienza lo avrebbe aiutato a organizzare, insieme a un centinaio di suoi coetanei, una grande protesta contro i legami del Trinity College di Dublino con Israele.
Dopo cinque notti passate in tenda sul prato di fronte al visitatissimo Book of Kells Museum, il Trinity accolse le richieste degli attivisti ed è passata alla storia come una delle prime università ad aver accettato di disinvestire dalle aziende israeliane. “Ho sempre voluto partecipare al cambiamento e questa era un’opportunità”, ha detto lo studente di filosofia e politica cinque giorni dopo la fine del campo. L’annuncio di disinvestimento del Trinity affermava che i legami commerciali con le società israeliane previste dal contratto in scadenza nel marzo 2025 non sarebbero stati rinnovati. Il fatto che si tratti di un disinvestimento totale, anche se graduale, è significativo della strategia di protesta pianificata dagli studenti.
Da quando è iniziata l’aggressione israeliana a Gaza in ottobre 2023, il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni del Trinity, o BDS, ha iniziato a organizzare marce di protesta settimanali di concerto con il sindacato studentesco che era anche nel bel mezzo di una protesta contro l’aumento delle tasse per i programmi di master. Quando la notizia degli accampamenti alla Columbia University di New York si diffuse a Dublino, gli studenti del Trinity erano pronti a fare qualcosa di simile.
“Le informazioni ottenute attraverso una richiesta di libertà d’informazione hanno rivelato i legami di Trinity con aziende in Israele” – ha detto il ventitreenne presidente del sindacato studentesco László Molnárfi durante un incontro online per celebrare la vittoria del disinvestimento il 9 maggio. “Abbiamo tenuto diversi incontri per discutere di questo; abbiamo creato un documento sulle regole dell’accampamento basato sulle linee guida stabilite dagli studenti della Columbia. Abbiamo anche redatto un documento con le nostre richieste di disinvestimento”.
Molnárfi ha osservato che, benché all’inizio l’azione diretta non sembrasse incoraggiante, era qualcosa che l’Università non poteva ignorare. “Ad essere cambiato è il modo in cui l’Università interagisce con gli studenti, perché ha un impatto sulla sua reputazione e sulle sue finanze – e questo è ciò a cui le istituzioni tengono davvero”. La decisione del Trinity di disinvestire avrà un impatto anche sul governo irlandese. Ci sono momenti nella storia in cui ciò che sembra piccolo ha in realtà un grande impatto storico, e questo è uno di quei momenti”.
Un blocco strategico e il campo
L’impatto finanziario che Molnárfi e altri studenti sapevano che l’Università non poteva ignorare era la perdita di dollari dei turisti. Così, il 30 aprile, gli studenti hanno bloccato l’ingresso del Book of Kells Museum, che ospita un antico manoscritto celtico e una biblioteca costruita nel 1700. Il sindacato degli studenti è stato rapidamente condannato a pagare una multa di 232.585 dollari per la perdita di entrate turistiche; il rettore del Trinity – secondo Molnárfi – ha affermato che l’università perdeva oltre 10.000 dollari per ogni ora in cui il museo rimaneva bloccato. Nonostante la dura sanzione – e il fatto che fosse la settimana degli esami – gli studenti e le studentesse del Trinity hanno continuato la loro protesta, alimentata dalle notizie che arrivavano dalle università degli Stati Uniti. La studentessa di Scienze politiche Elisa Zito, che è stata tra le organizzatrici dell’azione diretta, ha raccontato che gli incontri a partire dal 29 aprile avevano raccolto abbastanza consenso da procedere con un campo. La data è stata decisa per la mattina di sabato 4 maggio. “Abbiamo inviato un documento a quasi 500 membri e, poiché è difficile controllare un numero così elevato di persone, la notizia dell’imminente apertura del campo è arrivata al servizio di sicurezza dell’Università. Per questo motivo abbiamo deciso di accamparci a partire da venerdì sera, per paura di una punizione preventiva”, ha detto Zito, aggiungendo che si trattava di un compromesso tra l’obiettivo di un campo con il maggior numero di persone e quello di controllare la diffusione delle notizie. Un gruppo per le infrastrutture ben coordinato ha assicurato le tende a tutti. Nel frattempo, le panchine con i nomi degli ex alunni storici del Trinity sono state posizionate come barriera all’esterno del museo.
La mattina dopo le porte dell’Università sono state chiuse. Si annunciò che sarebbero state riaperte al pubblico lunedì. Gli studenti hanno iniziato ad aspettarsi uno sgombero, o peggio: che la Gardaí (la polizia irlandese) venisse chiamata per arrestarli. Una squadra di sicurezza che lavorava in tre turni, ciascuno composto da tre studenti, era incaricata di fare il giro del campus, tenendo orecchie e gli occhi aperti per raccogliere qualsiasi informazione che potesse rappresentare una minaccia. Sabato sono iniziate le donazioni di cibo e altre forniture e domenica era già stato creato un sistema funzionante. Le riunioni mattutine al campo servivano per la logistica e Ben si impegnava a compilare un elenco di generi alimentari e di articoli per l’igiene necessari, che veniva condiviso in un gruppo e sulla loro pagina Instagram. Gli studenti o il personale portavano gli articoli al cancello e Ben andava a raccoglierli. I pasti venivano cucinati negli alloggi degli studenti e delle studentesse che già avevano conseguito la laurea.
Durante le riunioni che hanno preceduto l’allestimento del campo, gli studenti sono stati sottoposti a esercitazioni in caso di arresto. Secondo Ben, essi hanno creato una valutazione del rischio a tre livelli: chi si identificava come “verde” avrebbe rischiato l’arresto, il “giallo” era per chi era pronto a formare barricate umane e “rosso” per chi non voleva rischiare alcun arresto. Non si trattava di indicatori rigidi, il codice poteva essere cambiato in qualsiasi momento, in base alla propria disposizione. Agli studenti è stato anche consigliato di indossare maschere per proteggere la loro identità e per tutelarsi da eventuali punizioni da parte dell’Università. Le regole erano di non fotografare senza consenso e di non postare foto sui social media se qualcuno era riconoscibile. Di conseguenza, la maggior parte degli studenti ha indossato una maschera chirurgica o una kefiah. Ben indossava una bandana e non usa ancora il suo vero nome. “Ho bisogno di rimanere anonimo perché c’è una minaccia reale da parte dei gruppi di estrema destra. Non ho paura, sono semplicemente cauto”, ha detto, aggiungendo che la sua famiglia, pur sostenendo la sua causa, aveva delle riserve su un’azione tanto diretta.
Gli studenti hanno avuto anche il sostegno del personale. Secondo la professoressa assistente di Logopedia e Linguistica Caroline Jagoe, la sezione del Trinity di Academia for Palestine, o AfP, è stata coinvolta in diverse attività al fine di affrontare il silenzio dell’Università su Gaza.
“Abbiamo scritto lettere, incontrato il rettore, organizzato incontri didattici e manifestazioni – ha raccontato – Alcuni di noi erano coinvolti in iniziative parallele; nel mio caso, con Irish Healthcare Workers for Palestine. Il nostro ruolo era quello di sostenere gli studenti nella loro azione diretta: offrire sostegno materiale, lezioni su richiesta e secondo il programma stabilito dagli studenti organizzatori, e solidarietà generale attraverso la presenza più assidua possibile nel campo, portando gli oggetti necessari e lavorando ad uno dei tavoli da picnic nell’area del campo”.
Le riunioni serali del campo erano spazi democratici di discussione in cui si dibatteva e si votava sui termini delle trattative con l’Università. Ben ha detto che c’era un’aria di incertezza. “Saremo sfrattati? Saremo arrestati? Negozieranno e accetteranno le nostre condizioni? Solo dopo il primo incontro con la direzione dell’Università, lunedì, abbiamo provato un senso di sollievo, quando ci è stato comunicato che la questione sarebbe stata trattata come una questione interna e che la Gardaí non sarebbe stata chiamata. Se da un lato ci ha fatto piacere che il Trinity abbia riconosciuto la sentenza della Corte internazionale di giustizia sul genocidio dei palestinesi, dall’altro non eravamo molto soddisfatti della formulazione della dichiarazione di disinvestimento dell’Università. Volevamo assicurarci che non fosse solo un documento vuoto, di pure parole”.
La docente di scienze politiche Eman Abboud, anch’essa palestinese, ha ritenuto importante che il personale fosse presente durante l’accampamento per vigilare sulla sicurezza di studenti e studentesse. “È stato travolgente vedere quanti colleghi di tutta l’Irlanda ci hanno raggiunto. Abbiamo organizzato una serata con cena palestinese e una serata con pizza, per mantenere alto il morale degli studenti”, ha detto, aggiungendo che durante i cinque giorni sono entrati e usciti quasi 30 membri dello staff, compreso il personale non docente.
Mercoledì, l’accordo di disinvestimento si è concretizzato e gli studenti hanno concluso l’accampamento la sera stessa. “È stata un’esperienza extracorporea, euforica. È una grande vittoria, ma è solo il primo passo per mettere in moto cambiamenti simili in diverse università irlandesi”, ha spiegato Ben mentre correva tra vari enti di beneficenza per donare le eccedenze di cibo e articoli per l’igiene.
Mentre l’accordo di disinvestimento ha chiarito che i legami commerciali con le aziende israeliane non saranno rinnovati, i termini per porre fine ai legami accademici con le istituzioni educative israeliane rimangono complicati. La decisione presa di comune accordo è stata quella di creare un gruppo che comprende due studenti del Trinity BDS, due studenti dell’unione studentesca e un accademico dell’AfP.
Un nuovo modello di impegno delle Università nei confronti degli studenti
Il rapido successo dell’azione diretta studentesca è stato inaspettato alla luce delle forti ritorsioni subite dalle Università statunitensi. Cosa ha reso questo accampamento – e la decisione del Trinity di disinvestire – così diverso? “Gli studenti non partivano da zero. Hanno dimostrato di avere una buona leadership e di saper essere dirompenti, bloccando l’accesso al Book of Kells Museum, con un forte impatto sulle entrate dell’università”, ha detto il docente di Risoluzione dei conflitti e riconciliazione Brendan Ciaran Browne, autore di Transitional (in)Justice and Enforcing the Peace on Palestine. Browne ha anche affermato che la direzione dell’Università deve essere lodata per essersi impegnata in modo ragionevole con gli studenti: “Le richieste erano realizzabili in linea con il BDS. Considerando la violenza esercitata sugli studenti e le studentesse nelle università degli Stati Uniti e in alcune parti dell’Unione Europea, il risultato del Trinity è stato un buon esempio. L’Università è stata lucida e attenta; sapeva che la repressione del movimento studentesco e del campo non sarebbe andata a genio alla popolazione irlandese”.
Grazie alla sua esperienza sulle risposte non conflittuali alle proteste etniche e alle esclusioni etnopolitiche, Abboud ha compreso che questa azione collettiva aveva tutte le carte in regola per avere successo: “Era mirata, strategica e ha riunito la comunità universitaria. Quando si è armati di conoscenza e si vuole essere dalla parte giusta della storia, la battaglia è facile. Il resto consiste nel portare l’amministrazione dalla propria parte”.
Al sentimento di Abboud ha fatto eco Jagoe che ha osservato che “quando l’attività ordinaria è stata interrotta da un’azione radicale, l’Università ha scelto di impegnarsi in modo costruttivo e non aggressivo”. Originaria del Sudafrica, Jagoe conosce fin troppo bene l’azione radicale: aveva nove anni quando Nelson Mandela fu rilasciato dal carcere.
“Da bambina sapevo che il Sudafrica era sottoposto a sanzioni. Sapevo che il governo dell’apartheid stava facendo cose spregevoli e che il mondo le disapprovava – ha detto – Ma ero anche una bambina sudafricana bianca, protetta e privilegiata. All’età di quindici anni la mia insegnante di inglese ci portò per un paio di giorni ad ascoltare le udienze della Commissione per la verità e la riconciliazione che si svolgevano nel municipio vicino alla nostra scuola. È stato allora che ciò che ho sentito sull’impatto umano e comunitario dell’apartheid e delle sistematiche violazioni dei diritti umani ha provocato in me il cambiamento”.
Jagoe si è chiesta spesso se sarebbe stata abbastanza coraggiosa da marciare contro l’apartheid nel 1976. “Il mio coinvolgimento nelle proteste per Gaza richiede ben poco coraggio. Ma questa volta ho la voce per unirmi al movimento di solidarietà e stare dalla parte del popolo palestinese e dei miei colleghi operatori sanitari a Gaza. Nelson Mandela ci ha ricordato che la nostra libertà è sempre legata a quella degli altri, e ha parlato in particolare della liberazione della Palestina”.
Nei sedici anni in cui ha vissuto in Irlanda Jagoe ha notato una certa cautela nel sostenere la Palestina, per timore di ripercussioni sulla progressione di carriera o sulla sicurezza del posto di lavoro se si trattava di contratti precari. Alcuni colleghi l’hanno sostenuta in modo più moderato. Alla domanda sull’umore all’interno del suo dipartimento dopo l’ottobre 2023 il campo studentesco, Browne ha scherzato: “Mi appello al quinto emendamento”.
Riconoscendo il privilegio di essere una dipendente a tempo indeterminato, Jagoe ha sentito la responsabilità di parlare contro le ingiustizie. “Sono sempre stata orgogliosa di lavorare al Trinity. Ma se i nostri investimenti sono una maglia di una recinzione progettata per impedire la libera circolazione, una pietra del muro del blocco di Gaza, allora è una maglia o una pietra di troppo. Se i nostri investimenti permettono che un altro bambino venga ucciso, che un’altra persona venga ferita, che un altro operatore sanitario venga torturato o ucciso, come possiamo continuare a insegnare i diritti, l’uguaglianza o la protezione dei servizi sanitari? È troppo facile considerare gli investimenti o gli acquisti dai fornitori come astrazioni, c’è una realtà concreta per ogni euro che spendiamo o investiamo, e per ogni impegno che legittima un regime intento a minare i diritti e le dignità di altri esseri umani”.
Abboud – che ha famiglia e proprietà in Palestina – ha trovato conforto nel far parte dell’AfP. Come palestinese che vive in Irlanda da otto anni, è rimasta amareggiata nell’apprendere che il suo datore di lavoro si diceva neutrale rispetto a un genocidio contro il suo stesso popolo. “Significava che avrei potuto essere messa in una situazione in cui avrei dovuto giustificare l’umanità dei palestinesi. Mi sono vergognata di lavorare lì. Non mi andava giù, ed è questo che mi ha spinto ad agire: se si fosse trattato di un qualsiasi altro Paese, avrei parlato e sostenuto il loro diritto di esistere”.
Ispirato dagli studenti e dai colleghi di tutta l’Irlanda che fanno parte dell’AfP, Abboud ha sentito che c’era una motivazione unitaria per rendere il Trinity un posto migliore e renderlo responsabile degli standard che si era prefissato. “Abbiamo continuato ad attingere alla dichiarazione di missione e agli obiettivi dell’Università, perché la missione dell’Università è allineata con il BDS – è ciò che hanno giustamente fatto alla Russia. Sebbene possa non essere d’accordo con il modo in cui il Trinity ha gestito la vicenda in ogni sua fase, ora sono orgoglioso del fatto che il Trinity stia presentando un nuovo modello sul modo in cui le Università dovrebbero impegnarsi con gli studenti e le studentesse: permettendo loro di avere il diritto all’azione collettiva. Quando un movimento è così grande, vale sicuramente la pena di ascoltarlo”.
La solidarietà dell’Irlanda con la Palestina non è nuova: Browne ha ricordato che l’Irlanda è stato il primo paese dell’Ue a riconoscere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina quando è stata fondata nel 1964. “La solidarietà è avvenuta in gran parte attraverso gli attivisti di base, a partire dal nostro passato coloniale e dalla violenza. Tuttavia, non possiamo considerarla solo una risposta post-coloniale, perché l’Irlanda è ancora molto divisa. Il processo di pace irlandese è lodato a livello internazionale, ma non è visto nel contesto della realtà quotidiana”.
Il boicottaggio come concetto e strumento di azione diretta affonda le sue radici nell’Irlanda colonizzata, quando un agente fondiario inglese di nome Charles Cunningham Boycott – che lavorava per conto di un proprietario terriero nella contea di Mayo, nell’Irlanda nord-occidentale – estorceva agli affittuari ingenti canoni di locazione; chi non era in grado di pagare veniva affrontato con la violenza. Nel 1880 nacque un movimento per cui i dipendenti di Boycott smisero di lavorare e iniziarono a isolarlo, dando vita a un potente concetto politico che oggi conosciamo come boicottaggio. Esattamente un secolo dopo, nel 1984, la cassiera ventunenne Mary Manning si rifiutò di maneggiare un pompelmo sudafricano al Dunnes Store di Dublino, non lontano dal Trinity, aprendo la strada all’attivismo irlandese contro l’apartheid.
Il governo irlandese ha annunciato che riconoscerà lo Stato di Palestina il 21 maggio. Mentre Abboud ritiene che questa mossa sia insufficiente e arrivi troppo tardi, Browne è più cinico: “Il governo irlandese è bravo a parole ma piuttosto lento nel fornire solidarietà e sostegno tangibili. L’attuale Taoiseach Simon Harris ha detto di essere “disgustato” dalle azioni del governo israeliano, ma il suo governo non sta esaminando da vicino i suoi accordi commerciali con Israele”.
Ciononostante, le azioni degli studenti del Trinity hanno provocato delle ripercussioni in tutto il mondo accademico dell’isola atlantica, visto che alcune altre università hanno allestito accampamenti nei loro campus. Nel frattempo, il sindacato degli studenti del Trinity sta ancora combattendo contro la multa di 232.585 dollari che gli è stata imposta, rifiutandosi finora di pagarla o di impegnarsi in negoziati.
Secondo Molnárfi, “non dobbiamo avere paura di usare il nostro potere di studenti. Le richieste di libertà di informazione hanno dimostrato che l’Università era neutrale rispetto al genocidio. Abbiamo condiviso queste informazioni e siamo riusciti a mobilitare l’ovvia rabbia, usandola come opportunità per organizzare un’azione diretta”.
Ben, nel frattempo, attraversa il campus universitario in modo diverso: “C’è un cambiamento nel modo in cui vedo il nostro campus. Non è più solo un’università e un monolite, ma è uno spazio attivo dove abbiamo influenzato il cambiamento e fatto la storia”.
* Premiata giornalista, Priyanka Borpujari ha scritto diffusamente su questioni relative ai diritti umani in Giappone, Bosnia.Erzegovina, El Salvador, Indonesia e India, is an award-winning journalist currently based in Dublin. Twitter/X @Pri_Borpujari.
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di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
Bruna Bianchi ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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