I media mainstream locali, e ancor più quelli europei, raccontano di una Tunisia molto impegnata nella difficile transizione verso la piena democrazia. Nel Nordafrica, dicono, c’è un gran bisogno di un paese forte, coraggioso e laico, capace di resistere all’integralismo religioso e al terrorismo politico. Peccato che ci sia poco di vero in questa immagine, un’immagine costruita con tanta cura da sembrare più il frutto di un sapiente lavoro di pubbliche relazioni che non una credibile fotografia della realtà. La rivoluzione degli ultimi giorni del 2010 sembra molto lontana, la scena politica è tornata torbida e a Tunisi perfino i giovani cominciano a esser ripiegati su stessi e su certe illusioni che sembrano sfumate per sempre. Difficile immaginare cosa potrebbe fornire oggi una nuova scintilla, un sussulto di indignazione indispensabile a riprendere un cammino che la rivoluzione era riuscita a portare alla luce in modo inatteso quanto dirompente
di Patrizia Mancini
Pochi, sempre di meno, a seguire con attenzione e a denunciare la controrivoluzione in atto. Le élites borghesi, rassicurate dal presidente bourghibista Essebsi e dall’incolore primo ministro Essid, tornano a godersi indisturbate i loro privilegi. C’è la ripresa dei movimenti sociali nel bacino minerario, ci sono gli scioperi della fame di membri dell’Union des diplomés chomeurs di Gabes per il diritto al lavoro, ci sono le proteste degli studenti universitari che non possono accedere all’impiego nella pubblica amministrazione a causa delle condanne subite sotto Ben Alì, e c’è la chiusura di spazi culturali nei quartieri popolari. Sono però argomenti semplicemente assenti dalla maggior parte dei media mainstream, sempre più allineati al nuovo corso della cosiddetta “transizione” che di democratico ha poco o nulla. Lo stesso Facebook, una volta fra gli strumenti più importanti della controinformazione rivoluzionaria, sembra rientrare nella mediocrità e nell’esibizionismo egocentrico, un riflesso della realtà circostante.
L’attentato del Bardo ha poi contribuito a omogenizzare le convinzioni, relegando in un cantuccio le voci dissidenti che si preoccupano della difesa dei diritti umani o della corretta informazione all’epoca del terrorismo. L’incancrenirsi della situazione a Jebel Chaambi, quella che vede ormai da due anni scontri pressoché quotidiani fra militari e gruppi terroristi (una settantina di vittime nei ranghi dell’esercito e delle forze di polizia) contribuisce a far dimenticare il ruolo repressivo che le stesse forze dell’ordine hanno avuto durante la fase rivoluzionaria. La tendenza dilagante all’oblio ha, fra l’altro, dato la legittimità all‘Union nationale des Syndicats des Forces de l’Ordre per costituire un Consiglio di Saggi, formato dai vecchi quadri dirigenti delle forze di polizia di Ben Alì. Secondo le parole della giornalista Henda Channaoui, “avrà come missione l’inquadramento degli agenti di sicurezza, la riforma del Ministero degli Interni, il ristabilimento dell’autorità e del prestigio della polizia e la lotta contro il terrorismo”. Nientedimeno. Ricordiamo velocemente che i “Saggi” di cui stiamo parlando hanno rivestito un ruolo determinante nei ranghi degli apparati securitari della dittatura, favorendo la fuga di Ben Alì e dando l’ordine di sparare sui manifestanti. Emblematica la figura di Alì Seriati, ex capo della Guardia Presidenziale, uscito indenne (e non da solo) dai vari processi militari post-rivoluzione di cui abbiamo già parlato sul nostro sito.
Scrive accorato l’universitario e documentarista Habib Ayeb: “Ero certo che l’arrivo di Essebsi e di Nidaa Tounes al potere avrebbe permesso il ritorno di alti quadri politici ed economici (RCD, uomini d’affari e affari…) ma non avrei mai immaginato un solo istante che questo potere avrebbe permesso ai torturatori del passato (sì, insisto nel definirli tali!) di tornare sulla scena. Il peggio è che Seriati e compagni tornano a gestire la sicurezza pubblica e quindi anche la politica. Mi si dirà che non rivestono qualifiche ufficiali, e io risponderò che non hanno bisogno di qualifiche ufficiali per decidere le politiche e le pratiche securitarie.”
Del resto, il Consiglio dei saggi è solo il più recente segnale dei passi compiuti verso il ritorno“soft” della pratiche dittatoriali, una provocazione che sembra non essere raccolta da quelle forze politiche che, pur avendo resistito alla dittatura e sostenuto il movimento rivoluzionario, sembrano ormai incapaci di opporsi seriamente al nuovo scenario.
La nuova proposta di legge antiterrorismo, ma soprattutto il già famigerato testo di “legge per la repressione delle aggressioni contro le forze armate hanno sollevato diverse critiche da parte di attivisti della società civile tunisina, dall’associazione nazionale dei giornalisti, dal sindacato, dal Fronte Popolare e anche all’interno stesso della compagine governativa, mentre l’organizzazione Human Rights Watch ne ha chiesto il ritiro. A dispetto di questo levarsi di proteste, il governo ha già reso noto che non ritirerà il progetto, ma che eventualmente prevederà degli emendamenti. Ai tempi del governo a maggioranza islamica, lo ripetiamo, ci sarebbero state immediate mobilitazioni nelle piazze contro un testo che neppure sotto la dittatura nessun “governo” aveva osato imporre.
Nel frattempo, è ormai consuetudine da parte dei media usare con disprezzo il termine “rivoluzionario”, affiancandolo sempre più spesso a “islamista” per fare un amalgama arbitrario, teso a screditare ogni voce dissenziente, dopo aver diretto magistralmente il coro dei nostalgici dell’ancien régime a sostegno del “vote utile” a Nidaa Tounes.
Criminalizzazione dei movimenti sociali e rivendicativi, attacchi alla centrale sindacale dell’UGTT, rea di continuare a sostenere le rivendicazioni degli insegnanti che non chiedono solo aumenti dei loro stipendi da fame, ma anche revisione dei vecchi programmi e la ristrutturazione degli edifici scolastici che cadono letteralmente a pezzi: è solo un altro passo in avanti verso la rilettura della rivoluzione in chiave liberista e autoritaria.
Gli stessi feriti della rivoluzione e le famiglie dei martiri vengono ancora una volta umiliati, ma questa volta direttamente dalla nuova segretaria di stato, Majdouline Cherni, che dovrebbe occuparsi proprio dei loro dossiers. Invitandoli a pazientare (a quattro anni dalla rivoluzione, non è ancora pronta la lista ufficiale delle vittime e dei feriti!), ha fatto il giro dei vari canali televisivi e radiofonici per proclamare pubblicamente che lo Stato avrebbe già speso per loro 87 miliardi di dinari (circa 41 milioni di euro), provocando non solo ilarità per l’enormità della menzogna, ma anche indignazione da parte di chi da sempre ha seguito le vicissitudini di questi cittadini, come i membri del Collectif Verité et Justice che le hanno scritto una lettera aperta, in cui chiedono conto delle sue affermazioni. Finora non vi è stata alcuna risposta o reazione da parte della sottosegretaria…
D’altronde lo stesso Presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi non nasconde la volontà del “suo” governo di fare tabula rasa della memoria della rivoluzione, lanciando un progetto di riconciliazione nazionale e ignorando provocatoriamente l’esistenza dell ‘Instance Verité et Dignité, preposta alla ricostruzione storica della repressione sotto le dittature di Bourghiba e Ben Alì e durante gli avvenimenti rivoluzionari. La stessa presidentessa dell’Instance Sihem Ben Sedrine è oggetto di quotidiani attacchi da parte della stampa di regime.
Last but not least, è di ieri la notizia delle dimissioni di due membri dell’Haica (Haute Autorité Independante de la communication audiovisuelle), l’organo preposto alla concessione delle licenze televisive e radiofoniche, ma anche a svolgere attività analoghe alla nostra Autorità per le garanzie delle telecomunicazioni.. Si tratta di Riadh Ferjani e Rachida Ennaifer che lamentano la non trasparenza e oggettività dell’Autorità in alcune recenti concessioni di licenze televisive e accusano lo stesso organo di aver ceduto alle lobbies del denaro, della politica e dello sport. Nel corso del 2014 vi erano state altre dimissioni, quelle della giudice Raja Chaouachi e dell’avvocato Mohsen Riahi, con motivazioni simili, il che toglierebbe legittimità all’Autorità stessa, dato che sui 9 membri previsti ne rimangono solo 5. Possiamo avere il minimo dubbio che a usufruire di questo vuoto regolatore saranno proprio le lobbies succitate?
A completamento del quadro inquietante della transizione tunisina, si aggiungono le diatribe fra avvocati, magistrati e governo a proposito della composizione della Consiglio della Magistratura sul quale la maggioranza parlamentare a guida Nidaa Tounes vorrebbe mantenere il controllo, inficiandone l’indipendenza.
Certo, le rivendicazioni economiche e sociali guidate dall’Ugtt si susseguono a ogni livello, ma le opposizioni sono deboli e disgregate, i giovani sempre più ripiegati su se stessi: cosa deve ancora accadere per provocare un sussulto di rivolta, se non una ripresa della rivoluzione, prima che sia troppo tardi?
Fonte: Tunisia in red
L’adesione di Tunisia in red alla campagna Ribellarsi facendo di Comune-info
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