Luce nell’oscurità di Gloria Anzaldúa, scrittrice e teorica femminista queer, fa parte di quei rari libri che sanno cogliere la luce dentro l’oscurità. Lo fa affiancando concetti lontani tra loro, identità e spiritualità. L’autrice ricorda che l’identità è un processo in continuo divenire, dipendente dalla vita di ogni giorno – ciò che siamo e stiamo divenendo – e da una qualche categoria (linguistica, logica…) di riferimento a cui l’associamo: per questo abbiamo bisogno di andare oltre ogni binarismo e di imparare a vivere nelle terre di mezzo, per quanto questo sia spesso molto complicato. La spiritualità di Anzaldúa si presenta invece come consapevolezza, che prende il via dall’ascolto del corpo, della profonda interdipendenza di ogni cosa, una sorta di spiritualità queer. Identità e spiritualità con cui riscrivere, qui e adesso, la realtà

Sul binarismo

Nelle Lettere a un giovane poeta, precisamente nell’ottava lettera, Rilke riprendendo alcune immagini provenienti dal mondo delle fiabe e delle saghe, si sofferma sui racconti in cui i draghi si tramutano in principesse e, a un certo punto, giunge a chiedersi se tutti i draghi della nostra vita, quelli che abitano dentro di noi, non siano altro che principesse che “attendono solo di vederci un giorno belli e coraggiosi. Forse – conclude Rilke – ogni terrore è nel fondo ultimo l’inermità che vuole aiuto da noi”. Ecco, questo passaggio mi è tornato in mente leggendo Luce nell’oscurità di Gloria Anzaldúa – scrittrice e teorica femminista queer –, recentemente edito da Meltemi, attentamente tradotto, curato e commentato da un affiatato team di studiose. In questo titolo – nel gesto che coglie la luce dentro l’oscurità e non contro (vedi, ad esempio, l’opposizione luce/tenebre nel prologo del Vangelo di Giovanni) – è racchiuso già il senso che attraversa tutto il libro, vale a dire il rifiuto di ogni binarismo. La luce, a meno che non provenga da un impianto elettrico, sorge sempre dall’oscurità; ciò a cui fa riferimento Anzaldúa è proprio questo atto luciferino: non intende illuminare dall’esterno il buio e abbagliare la notte, ma, senza cedere all’oscurantismo, cogliere la luce emergente dentro l’oscurità.
Scorrendo il libro qua e là, come faccio di solito prima di immergermi in una lettura, si resta subito colpiti dal lavoro sulla lingua. Essendo proprio la lingua un potente dispositivo identitario, se vogliamo sottoporre a critica le varie performance identitarie, la sovversione deve iniziare a partire da questo piano, quello linguistico, contaminando gli idiomi, storpiandoli se il caso, alterando e mescolando i registri e le tipologie narrative. Da questo punto di vista tali procedure possono in parte ricordare l’ultima Mary Daly, quella di Quintessenza, ove i generi letterari vengono contaminati, il saggio con il romanzo, la spiritualità con la fantascienza (anche se Anzaldúa non avrebbe condiviso il suo separatismo e il suo essenzialismo). Non solo: tutta la scrittura di Luce nell’oscurità poggia su quel partire da sé, dai propri vissuti e dai messaggi trasmessi dal corpo, che non è mero stile letterario, ma fonte di conoscenza (particolarmente coinvolgenti sono le pagine che l’autrice dedica al rapporto con la sua malattia) e metodologia di ricerca collaudata da anni di pratica femminista. “Per me scrivere è un gesto del corpo”, afferma a un certo punto l’autrice. Così come dense di allusioni sono alcune espressioni che ricorrono, come quella di “geografie dei sé”, di “corpo-territorio”, “corpomente” e, infine, “corpomenteanima”.
Luce nell’oscurità reca come sottotitolo Riscrivere l’identità, la spiritualità, la realtà, per cui le presenti note di lettura riguarderanno questi due temi, l’identità e la spiritualità, provando a far affiorare il contributo originale che questo libro offre alterando i paradigmi che governano sia le nozioni d’identità che di spiritualità e, attraverso ciò, la realtà stessa. La realtà, insiste Anzaldúa, è un mosaico senza fine, è troppo vasta per essere ingabbiata in qualsivoglia sistema di riferimento.
Sull’identità
La mia formazione politica è avvenuta nella metà degli anni Settanta, attraverso due approcci – l’operaismo e il situazionismo – che presentavano sensibili differenze tra loro, corrente eretica in seno al marxismo, la prima, prospettiva saldamente ancorata al pensiero libertario, la seconda. Un tratto che comunque ha accomunato i due indirizzi è il rilievo assegnato alla soggettività, vale a dire all’emergere di un soggetto portatore di bisogni radicali, il cui soddisfacimento richiede una trasformazione altrettanto radicale dell’intera società, una “rivoluzione del modo di vivere”, come diceva sempre in quegli anni Ágnes Heller. Però l’enfasi verso la soggettività costituiva a un tempo la ricchezza e il limite di entrambi gli approcci. Il soggetto doveva apparire come un nucleo duro, non ulteriormente analizzabile e la figura trontiana della “rude razza pagana” lo esemplificava fin troppo bene. Ma le cose non stavano proprio in questi termini, i movimenti di quegli anni, prima ancora degli intellettuali, scoprivano sulla loro pelle che il soggetto è anch’esso una costruzione ingarbugliata, da smontare e rimontare accuratamente se si vuole realizzare, senza perdersi, quella “rivoluzione del modo di vivere” tanto desiderata. C’è qualcosa che sta dentro e sotto, così come c’è qualcosa che sta oltre, al di là di ciò che continuiamo a chiamare soggetto. Com’era prevedibile, seguirono anni di crisi e di rivolgimenti e, per quel che mi riguarda, fu una serie di transiti, passai attraverso i post-strutturalisti francesi (per me soprattutto Deleuze e Guattari), il freudo-marxismo (da Reich a Marcuse e Norman Brown), il pensiero ecologico (Bateson, in primis, con le sue reti d’interconnessione e interdipendenza del vivente), fino agli studi sugli stati di coscienza che mostrano come la stessa realtà (che dovremmo propriamente chiamare “realtà consensuale”) sia il risultato di una costruzione altamente complessa e orientata (penso qui agli studi di Charles Tart, un autore direttamente e indirettamente presente nel testo di Anzaldúa).
Questa lunga premessa per dire come la questione del soggetto e dell’identità sia quanto mai attuale e in linea con una serie di ricerche e di riflessioni che attraversano gli anni e anche le fasi storiche (di cui il mio percorso biografico costituisce solo un piccolo esempio fra i tanti). Comprendiamo così che l’identità è una mappatura cognitiva in continuo divenire tra la nostra esperienza della vita – ciò che siamo e stiamo divenendo – e una qualche categoria (linguistica, logica …) di riferimento a cui l’associamo; avendo sempre in mente che la mappa non è il territorio e che le parole non sono le cose. La questione allora diviene: quale riconoscimento sociale possono ottenere le nostre cartografie?
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L’identità dice Gloria Anzaldúa è una storia senza fine, ibrida, stratificata e fluida, è un processo che muta costantemente e pertanto va rivisitato a ogni tappa. Non solo, l’identità è intimamente relazionale, si forma dalla continua interazione dei nostri corpi con gli ambienti, le persone, gli oggetti interiori ed esteriori. Per questo tutte le categorie identitarie non possono contenerci appieno, in quanto limitano l’evoluzione della nostra vita. Tutto questo non è facile, richiede in certi momenti rotture, passaggi cruciali e drammatici, abitare una terra di mezzo, fisica e psichica, a cavallo di mondi plurali e, a partire da ciò, implica il non sentirsi mai al proprio posto, attraversando negoziazioni delicate e dolorose. Vengono qui in mente la narrazione e i personaggi di Clarice Lispector, quando scelgono di mettere in gioco la propria identità, entrando in una zona di spaesamento, attraverso un contatto poroso con una consistenza materica del reale che si svela come “cosa soprannaturale”, più fertile e sconosciuta rispetto alle maldestre protesi che escogitiamo a mo’ di protezione, quelle che siamo soliti chiamare io, identità, proprietà, corpo rigido e chiuso.
Sulla spiritualità
Il riferimento alle esperienze di un’identità ibrida, fluida e porosa, così come all’ampiamento del proprio stato di coscienza, introduce già all’altro tema presente nel libro, quello sulla spiritualità. In questo caso si tratta dell’irruzione di un rimosso per un movimento sociale e politico che in passato ne negava apertamente l’esistenza, equiparando la spiritualità al clericalismo e alle istituzioni religiose, sostenitrici dello status quo. Con alcune eccezioni, però: penso alle comunità cristiane di base e più in generale all’esperienza della teologia della liberazione, soprattutto in America latina; o alla controcultura nordamericana, sensibile – attraverso la mediazione della beat generation – verso le spiritualità orientali. Fortunatamente oggi lo scenario è mutato o per lo meno è in fase di ridefinizione, in quanto molti ideologismi hanno mostrato i loro limiti. Ad esempio, tornando all’operaismo e al situazionismo, oggi gli scritti di Tronti si situano a pieno titolo nell’ambito della teologia politica; lo stesso Toni Negri, rileggendo Spinoza, non appare del tutto estraneo a certi aspetti della spiritualità, e l’ultimo Vaneigem parla di religio, intesa come rete viva di comunicazione in cui nulla è separato. Certo, si tratta di spiritualità radicalmente rivisitate, in cui immanenza e trascendenza si trovano abbracciate dentro un’ontologia del divenire in cui la materia – una materia viva e intelligente – procede senza sosta a evolvere, trasformarsi, auto-organizzarsi.
Anche la spiritualità di Anzaldúa si presenta come una modalità cognitiva che espande la percezione fino alla consapevolezza dell’intima relazione e interdipendenza di ogni cosa, per coglierne le possibili implicazioni politiche. Nello specifico parla di attivismo spirituale, una pratica che anche qui prende il via dall’ascolto del corpo: a cominciare dal proprio corpo, disposto ad aprirsi a una prospettiva transpersonale, verso il corpo collettivo, il corpo interspecie, il corpo della terra. Una spiritualità queer, insomma. In questo modo l’attivismo spirituale di Anzaldúa descrive un’epistemologia dell’interconnessione e un’etica visionaria su base esperienziale, pertanto non fideistica, che conducono verso una pratica orientata al cambiamento sociale.
Così, partendo dal riconoscimento che i tradizionali legami tribali – etnici, nazionali, familiari, religiosi ecc. – sono gabbie insufficienti a contenere l’esuberante pluralità del vivente, il punto d’approdo sarà un nuovo tribalismo, una politica delle alleanze che parte dal riconoscimento che siamo tutti e tutte parti responsabili, complici degli ecosistemi, “un insieme completo di interrelazioni – come scrive Anzaldúa – tra un reticolo di organismi viventi e i loro habitat fisici”. Si tratta di abbandonare vecchi legami per abbracciarne nuovi, aperti e inclusivi, costruendo nuove parentele, come da tempo insiste Donna Haraway: ciò di cui la vita ha bisogno non è riprodurre l’esistente, ma è la rigenerazione, oltrepassando i legami della parentela “naturale”, avviando un esodo dai luoghi comuni della produzione e riproduzione sociale, per formare nuove alleanze.
Sarebbe interessante approfondire questi punti, esplorando ad esempio il discorso su una spiritualità post-religiosa, fuori dalle istituzioni religiose, ma attenta agli slittamenti autoreferenziali, se non addirittura narcisistici (v. new age); certamente in cammino verso un reincanto del mondo, ma consapevole del rischio di essere risucchiati in quella che Furio Jesi chiamava la “macchina mitologica”. Comunque sia la prospettiva a venire non poggia certo su una pacificante confluenza di visioni, su conseguenze prevedibili o su un nuovo conformismo, ma è confronto, dialogo continuo, instancabile, su vari piani. Solo in questo modo, sarà possibile tracciare, o quanto meno abbozzare, risposte all’altezza delle questioni cruciali che il nostro tempo sta chiedendo con insistenza.
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