La forma urbana, un tempo compatta, dilaga con massicce conurbazioni invadendo la campagna con insediamenti a bassa densità raggiungibili solo con la mobilità privata, che contribuisce a sua volta ad aumentare l’isola di calore urbana già elevata a causa delle attività industriali e del condizionamento degli edifici. Le città rappresentano oggi dei ‘parassiti’ che occupano il 2% della superficie terrestre, assorbono il 75% delle risorse globali e scaricano nell’ambiente il 50% dei rifiuti mondiali
Le aree urbane sono oggi dispositivi fortemente energivori, dissipativi e insicuri, che hanno perduto la capacità di utilizzare i meccanismi di relazione con l’ecosistema e di stabilire valori soglia nell’uso delle risorse: il mito dell’illimitatezza e della globalizzazione ha astratto l’insediamento dal proprio ambiente, mandandolo “fuori scala” e rendendolo sempre più fragile.
Le città rappresentano oggi dei ‘parassiti’ che occupano il 2% della superficie terrestre, assorbono il 75% delle risorse globali e scaricano nell’ambiente il 50% dei rifiuti mondiali.
La forma urbana, un tempo compatta, dilaga con massicce conurbazioni invadendo la campagna con insediamenti a bassa densità raggiungibili solo con la mobilità privata, che contribuisce a sua volta ad aumentare l’isola di calore urbana già elevata a causa delle attività industriali e del condizionamento degli edifici.
Quando alla fine del secolo la temperatura del mondo aumenterà nel migliore dei casi di 2 o più probabilmente di 5 gradi, diffuse ondate di caldo supereranno i 40 gradi e l’afa metterà a serio rischio la salute, è prevedibile un aumento dell’esodo dalle grandi città per trovare condizioni di vita più confortevoli, già oggi presente in molte realtà urbane.
Prima della grande trasformazione industriale la conformazione fisica dei territori e un uso sapiente delle risorse (nella relazione fra flussi e stock) indirizzavano e suggerivano la forma dell’insediamento e delle sue attività economiche.
La città nasce come ‘habitat umano’, habitat particolare di una specie complessa in cui la trasformazione dei luoghi non è guidata solo dal bisogno primario, ma anche dalla cultura, dai valori, dalle aspettative e dalle credenze.
L’insediamento è dunque un prodotto coevolutivo prezioso delle logiche della natura con quelle della cultura dove nel tempo lungo della storia convivono tante forme biologiche (dai microbi, ai primati, alle piante, alle foreste) in ambienti con caratteristiche diversissime in relazione alle quali si è sviluppata una specifica modalità insediativa fatta di saperi, di conoscenze, di tecniche e tecnologie appropriate.
Luoghi complessi dotati di efficienza e resilienza specifici traducono spazialmente la teoria bioeconomica di Georgescu Roegen, gettando un ponte verso l’approccio alla bioregione urbana.
L’insieme di bios, vita, ed economia, formata a sua volta dal termine casa e norma, ci fa intendere infatti la bio-economia come quell’insieme di regole di gestione della casa comune territorio, finalizzate alla salvaguardia e riproduzione delle matrici vitali dell’insediamento.
Misure e relazione sono dunque le parole chiave che stanno alla base della costruzione sapiente del territorio e del suo sistema urbano.
In questo quadro un fiume, ad esempio, si relaziona col suo bacino, con l’ecosistema rivierasco e dei versanti, con la strada che gli sta vicino, con i ponti, con le infrastrutture, in un ininterrotto dialogo di interpretazione e di uso. Senza questo equilibrio dinamico fra dotazione patrimoniale, flussi, uso dello stock di risorse, non c’è civiltà umana, né territorio, né paesaggio.
L’avvento dell’epoca termo-industriale ha stravolto queste dinamiche. Dai 600 milioni di abitanti del XVIII si è passati agli 8 miliardi attuali, riversati soprattutto sulle aree urbane, drenando popolazione dalle campagne.
Con l’aumento della polarizzazione urbana, si assiste a un ulteriore competizione per l’uso del suolo, per l’acqua, per le risorse biologiche, per gli alimenti, cosa che porterà ad aumento dell’insicurezza, delle disuguaglianze, dei conflitti, con il rischio del collasso complessivo di molti sistemi socio-ecologici.
Quando negli anni ‘70 del Novecento, sulla scorta della consapevolezza dell’esauribilità delle risorse, il pensiero ecosistemico ha permeato altri campi del sapere si è verificata una vera rivoluzione cognitiva, di grande potenzialità.
L’ecosistema costringe la popolazione umana a riflettere sulle proprie azioni e a immaginare nuove alleanze col palinsesto ambientale che la ospita, come scrivevano alla fine degli anni 90 del Novecento Ilya Prigogine e Isabelle Stengers.
L’imprinting della recente Strategia di Bioeconomia Europea (2012), che ha trovato attuazione anche in Italia, si basa su un approccio completamente diverso caratterizzato dalla mera sostituzione delle fonti fossili con quelle organiche al fine di sostenere la crescita economica, e assume come riferimento primario ambientale non tanto la complessità dell’ecosistema, ma il “servizio ecosistemico”, il beneficio cioè che l’ecosistema fornisce alla popolazione e all’economia.
L’ecosistema non è però solo dotazione ecologica (quanta acqua è presente in un bacino, quanta legna produce un bosco, etc.), ma è l’interazione sistemica che si crea fra i vari componenti.
Un bosco ad esempio non è una somma di alberi, ma è il sistema di relazioni fra i fattori biotici e abiotici che si è creato nel corso del tempo e la cui alterazione sia pur parziale può creare ripercussioni su tutto il sistema e a caduta anche sulla qualità della vita degli abitanti. È necessario dunque ripensare la città e i sistemi insediativi come parti di un più ampio sistema vivente.
Appare sempre più urgente un serio cambiamento di rotta, che non può limitarsi a risolvere i problemi attuali in maniera ‘tecnica’ riducendo la Bioeconomia alla semplice ricerca di alternative alla materia prima e all’energia fossile.
L’unico approccio strategico sensato è quello di impostare una seria pianificazione locale fondata sul valore del limite e non sulla semplice sostituzione tipologica della materia e della risorsa energetica, magari mantenendo lo stesso approccio estrattivista.
La transizione per essere sostanziale e non solo formale dovrà imparare dalle tante e diffuse pratiche sociali che anche inconsciamente creano economie locali e rafforzano la coesione secondo una nuova responsabilità verso il territorio e tutto il vivente.
*Daniela Poli, urbanista, comitato scientifico e direttivo della Società dei Territorialisti e delle territorialiste, Osservatorio interdisciplinare di Bioeconomia
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