Bahram Acar aveva scelto di vivere a Riace, perché quel luogo gli ricordava il suo villaggio d’origine del Kurdistan turco. Sapeva fare tutto e amava sentirsi utile: alla straordinaria storia di accoglienza di Riace, durata quasi vent’anni, ha creduto come pochi. Se fosse rientrato in Turchia, sarebbe stato condannato a morte, ma sappiamo anche che almeno una volta, nel 2014, era riuscito a tornare per salutare i genitori e i fratelli. Gli ultimi anni di vita li ha trascorsi in Germania. Un ricordo di Bahram Acar: raccontate al mondo chi era questo uomo libero
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Era il primo luglio del 1998 quando un veliero con a bordo circa trecento profughi provenienti dal Kurdistan sbarcò sulla costa ionica calabrese, nel territorio della frazione di Riace Marina. In quell’occasione, in mancanza di un organico intervento statale, la comunità riacese improvvisò una prima accoglienza tramite l’impegno di volontari del luogo, tra cui il futuro sindaco Domenico Lucano. I profughi furono temporaneamente alloggiati presso una struttura ecclesiastica, la Casa del Pellegrino, poco distante dal borgo e normalmente adibita a ospitare i pellegrini che si recavano in visita al santuario. Fu così che nacque il progetto di accoglienza di Riace, noto oggi in tutto il mondo.
In quel periodo furono diverse le navi di curdi che arrivarono sulla costa jonica, forse perché il loro presidente Abdullah Ocalan, leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), stava progettando di chiedere asilo politico in Italia. Il partito era stato dichiarato “organizzazione terroristica” e i rapporti tra Turchia e Siria, che sosteneva il PKK e ospitava Ocalan, si erano per questo molto irrigiditi, tanto da rischiare persino un conflitto armato: le autorità siriane si rifiutarono di consegnare Abdullah Ocalan alla Turchia, ma gli chiesero di lasciare il paese. All’epoca, in Italia il governo era guidato da Massimo D’Alema, che si era insediato nell’ottobre del 1998, dopo la caduta del governo di Romano Prodi. Ocalan arrivò in Italia il 12 novembre dello stesso anno, dimostrando da subito di essere un problema di non facile soluzione. La gestione del caso fu alla fine molto criticata: sia per le modalità dell’arrivo in Italia del leader curdo dalla Russia, sia per la mancata concessione dell’asilo politico da lui richiesto, sia per l’esito finale della vicenda. Ocalan rimase infatti in Italia 65 giorni e il 16 gennaio 1999, fu fatto partire per Nairobi, in Kenya. Pochi giorni dopo, il 15 febbraio 1999, fu catturato dagli agenti dei servizi segreti turchi durante un trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi. Fu poi rinchiuso in un carcere di massima sicurezza in Turchia, nell’isola di İmralı, dove da allora vi risiede completamente isolato.
Questa la storia del contesto nel quale molti curdi sono stati costretti a lasciare il loro Paese e del perché, alcuni di loro, hanno preferito dirottare verso le nostre coste. La maggior parte di loro però, una volta giunti in Italia, alla luce anche dei fatti accaduti, ha ripreso il cammino verso il nord, con l’intenzione di raggiungere la numerosa comunità curda tedesca e a Riace e dintorni non è quasi rimasta traccia di questo passaggio. Ad eccezione di Bahram Acar che ha deciso di fermarsi perché quel posto gli ricordava il suo villaggio d’origine. Veniva da Midyat, provincia di Mardin, nel Kurdistan turco, un paesino sul monte Ararat dove il fiume bianco e il fiume nero confluiscono. Sentiva forte il senso di “essere comunità” dove tutti si conoscono e si aiutano e a Riace allora era proprio così: erano gli anni in cui il paese si stava rianimando dal torpore della rassegnazione, dal senso di degrado e abbandono che colpisce molte realtà dell’entroterra italiano. I profughi avevano rivitalizzato la comunità e il paese si era trasformato in un grande cantiere: impalcature, via vai di muratori, elettricisti, pittori. Si stavano ristrutturando le case abbandonate dai compaesani emigrati in Argentina per ospitare i nuovi emigrati da ogni dove. Il veliero arrivato qualche tempo prima aveva indicato la via per la rinascita e Bahram era nel suo, sapeva fare tutto e soprattutto amava sentirsi utile. Sorrideva poco, al massimo storceva la bocca come una smorfia quando era contento ma i suoi occhi dicevano chiaramente quale fosse il suo stato d’animo. Quella era la sua nuova casa, lì voleva restare. Abitava in un “buco”, un alloggio tra i vicoli del borgo, dove tornava giusto per mangiare e dormire e il resto del giorno era sempre in giro, il primo ad arrivare e l’ultimo a ritirarsi.
L’ho incontrato la prima volta nel 2016 a Riace e da allora, Bahram Acar ed io siamo rimasti sempre in contatto. Non scorderò mai le passeggiate a Camini, tre chilometri soltanto separano i due comuni, tre chilometri tra i calanchi della Calabria aspra e brulla. Bahram parlava male l’italiano, non aveva avuto tempo né voglia di impararlo veramente, ma ci capivamo. Ci piaceva la domenica mattina mentre tutti erano a messa, andare a camminare “a Camini”, prendere un caffè o una birretta e poi ritornare. Erano probabilmente le uniche ore “libere” di quest’uomo devoto alla causa come pochi, senza apparente vita privata ma molta coerenza politica. Riace rappresentava allora un’utopia concreta che andava difesa, la casa di tutti aperta a tutti e Bahram da veterano, sentiva tutto il peso della sua responsabilità. Aveva visto arrivare tanta gente, aveva visto il paese accogliere con la naturalezza delle famiglie numerose di una volta, dove aggiungere un posto a tavola non è un problema perché “dove si mangia in quattro, si mangia anche in cinque”, come da tradizione popolare calabrese.
Nell’anno del nostro incontro erano iniziati i problemi a Riace, i finanziamenti arrivavano a singhiozzo, c’era malessere tra i beneficiari dei progetti di accoglienza. Domenico Lucano era spesso nervoso, diviso tra burocrazia, sempre più complessa e i bisogni delle persone: mentre il ministro Minniti si preoccupava di complicare il lavoro delle rendicontazioni degli Sprar, le persone chiedevano cibo, le bollette e i fornitori andavano pagati. Si lavorava in un clima di forte tensione e Bahram era ovunque ci fossero problemi da risolvere. La speranza di una soluzione comunque era ancora abbastanza accesa anche perché Riace in quel periodo godeva di grande visibilità. Da tutto il mondo venivano a conoscere quest’incredibile realtà e in molti si erano attivati per mandare sostegni di ogni tipo. Poi sappiamo come è andata a finire: prima il ministro Minniti e poi Salvini hanno svuotato il paese di Riace e con i decreti sicurezza, quello che era il simbolo della convivenza pacifica di tante culture e della rinascita dei borghi abbandonati, è precipitato nel baratro dell’abbandono, di quel destino che aveva osato sfidare. Bahram non voleva crederci, ancora una volta stava rivivendo un copione già visto, ancora una volta i valori di solidarietà, cooperazione, comunità, principi cardine della sua vita di uomo e di curdo, venivano negati: la comunità accogliente di Riace come il popolo curdo non avevano diritto di esistere.
Come il destino del suo popolo, costretto alla fuga e alla clandestinità, ora anche Riace, il paese dell’accoglienza, era sotto attacco. Erano trascorsi vent’anni dal suo arrivo, e, fortemente motivato dalla sua convinzione politica, dagli ideali di giustizia sociale e di riscatto degli ultimi, aveva trovato in questo piccolo paesino del Sud Italia il luogo dove sentirsi coerente e vivere in una società più “giusta” ma ora purtroppo i tempi erano cambiati e bisognava prenderne atto. Nel 2019, nel nostro ultimo incontro, mi aveva accennato di un viaggio in Germania dai parenti e da alcuni compagni curdi che si erano radicati lì. “Dove esattamente?” gli chiesi ma non ho avuto risposta. In realtà Bahram è stato sempre molto cauto a dare informazioni di sé e anche gli amici più stretti non conoscevano i particolari della sua vita privata e del suo ruolo nel PKK in Kurdistan. Sappiamo che era un ricercato e che se fosse rientrato in Turchia, sarebbe stato condannato a morte, ma sappiamo anche che almeno una volta, nel 2014, è riuscito a tornare per salutare i genitori e i fratelli. Non aveva riconosciuto quei luoghi, tanto erano cambiati. Ci rendeva partecipi delle tradizioni del suo popolo, abbiamo una nutrita collezione di balli e danze curde, foto di boschi, ruscelli, case in terra cruda… era il suo modo di condividere con noi la nostalgia di casa. Ma da vero militante non ci ha mai fornito elementi che ci avrebbero potuto estorcere, dati sensibili che avrebbero nuociuto alla causa. Paranoico forse, ma sicuramente scrupoloso. Era anche il suo modo di proteggerci e ci dimostrava il suo affetto in altre molteplici maniere, un amico prezioso, raro al giorno d’oggi.
Ha lasciato Riace come un capitano che non vuole lasciare la sua nave che affonda e fino alla fine ha voluto sperare in un miracolo che lo trattenesse. Gli ultimi anni li ha trascorsi in Germania da cui settimanalmente mi scriveva, solo per sapere se stavo bene e poco altro. Non era bravo a scrivere in italiano ma per lui l’essenziale era pensarmi “bene”. E così fino all’ultimo messaggio al quale non ho fatto in tempo a rispondere. Improvvisamente il nostro amico forte e coraggioso ci aveva lasciato. Pur mancando da Riace da quattro anni, il pensiero che Bahram non possa ritornarci e non possa più fare parte di quella comunità è struggente. Bahram incarnava l’essenza di quel meraviglioso progetto che menti perverse hanno voluto stroncare. Bahram era l’anima di Riace.
Ora la sua salma è stata riportata al suo paese d’origine e riposa tra le colline del suo villaggio, di quel villaggio da cui era partito e dove avrebbe voluto un giorno tornare da uomo libero.
La vicenda di Riace, è ancora oggi, una spina nel cuore. Quei governanti, Minniti e Salvini, dovrebbere vergognarsi per il male che hanno fatto. Gli auguro che il karma li paghi con stessa moneta.
Bahram era un esempio. Mi dispiace della sua dipartita. La Sua Anima soffriva molto. Gli auguro di essere nella Luce, e di aver trovato la pace.
… dietro le storie ci sono gli uomini, Bahram Acar sarà ricordato per i suoi valori, la vergogna vive altrove.