La guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”
[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]
Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).
Colonialismo di insediamento e insediamento del collaborazionismo
Questo testo è stato scritto a partire dalla più profonda nausea morale e dalla più esausta delle vergogne politiche. Non intende ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari, vuole invece invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo perché non possiamo più sopportare tanta ipocrisia mascherata da moralità, tanto disgusto celato da formalismo e tanta banalità che invoca democrazia. Si sta creando una Rete Universitaria per la Palestina per coordinare l’organizzazione congiunta di eventi accademici nel maggior numero possibile di università, a quattro mesi dall’inizio dell’ultimo e più sanguinoso capitolo dei settantacinque anni di storia della pulizia etnica di una Palestina nelle mani di quel progetto coloniale genocida chiamato sionismo, di quell’alibi chiamato Stato di Israele e del suo papà, l’Asse del Genocidio, ovvero la “comunità internazionale”.
La macchina criminale sionista – che è il prodotto più moderno e impazzito di secoli di suprematismo, massacri e saccheggi perpetrati da e per l’Europa e i suoi figli prediletti in nome dello sviluppo e della prosperità – continua a sparare, radere al suolo, bruciare, amputare, avvelenare, dissanguinare, rubare, demolire, torturare, mentire, gioire dell’immunità, promettere di non fermarsi (Amalek!) e criminalizzare qualsiasi ostacolo sul suo cammino. Il ruolo geopolitico svolto da Israele è solo la punta di lancia di questa macchina criminale e la portata del suo business as usual continua ad essere enorme, anche se la sua salute è sempre più cagionevole.
Davanti a quella macchina, il popolo palestinese resiste da più di un secolo, giorno dopo giorno, generazione dopo generazione, superando l’orrore assoluto. Con ogni minuto di sopravvivenza, con ogni metro di resistenza, si fa strada verso la sua liberazione. L’orrore assoluto non è solo dover seppellire tanti bambini carbonizzati quanti l’arsenale dell’aggressore decide. Orrore assoluto è anche chiudere i pozzi con il cemento, avvelenare le falde acquifere e legiferare sul divieto di raccogliere l’acqua piovana. L’orrore assoluto è che Israele prometta e metta in atto una “seconda Nakba” dopo decenni in cui ha negato l’esistenza della prima. Orrore assoluto è ricevere un messaggio di questo tipo da una persona cara: “La cosa peggiore che ti può capitare è essere arrestato, la morte è molto meglio”. Però gli “animali umani”, quelli che vivono così lontani dal nostro “giardino”, rispondono all’orrore con una poesia sovrumana:
Da sotto le macerie lasciate dal missile estraggono un bambino semi-incosciente che, prima di aprire gli occhi, alza le dita in segno di vittoria.
E i giardinetti della nostra accademia, che fanno? C’è qualche risposta? Un accenno di opposizione? C’è una certa massa critica indignata? C’è qualche disperato non nel mio nome? Per caso noi, più o meno ipocriti, non sapevamo che cosa stava succedendo? Sì, ci sono stati segnali, azioni, gesti, elenchi di aderenti ad appelli meritevoli – nessuno di essi a livello istituzionale – ma le schiaccianti manifestazioni di sostegno, complicità, giustificazione, equidistanza, collaborazionismo e umiliazione intellettuale danno un altro resoconto dello stato della questione. Mentre assistiamo in diretta, con tutti i dettagli richiesti, all’insopportabile verità di un enorme massacro, la reiterata prescrizione di “non mescolare scienza e politica” ci rende così subumani:
Schivando i detriti lasciati da ogni missile cammina un distratto battaglione di accademici che evita di guardare in faccia i testimoni della loro miseria.
Il messaggio che questa distrazione invia è molto chiaro:
Continua a morire, se necessario, mentre qui ci sentiamo al sicuro.
Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni. Il numero di bambine e bambini uccisi a Gaza in quattro mesi supera di gran lunga la somma di tutti gli israeliani uccisi dalla Resistenza palestinese dal 1948 a oggi. C’è qualcosa da esigere di fronte a questa realtà? La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte. Il peculiare (e inesistente) diritto a difendersi di un regime occupante che può sterminare generazioni senza che venga battuto ciglio continua ad essere scrupolosamente rispettato. Se la Corte Internazionale di Giustizia non chiede di fermare quell’emorragia, chi sono io per chiederlo? È il mercato – delle armi, dell’energia, di tutto –, il finanziamento di progetti, il “trasferimento delle conoscenze”, “l’innovazione”, “la collaborazione”… il neolinguaggio e il tono istituzionale adornano la patetica reazione dell’accademia di fronte all’orrore assoluto: condannare ogni forma di violenza come si condanna la forza di gravità, spiegare che le violazioni del diritto internazionale sono una cosa molto brutta, ignorarne però le conseguenze e scrivere articoli soporiferi su concetti come terrorismo o antisemitismo, per citare i due esempi più abusati e redditizi.
A considerare la noia e il torpore che ormai entrambi i termini producono, valgano due brevi cenni. Da un lato, il concetto di terrorismo non rimanda ad alcuna categoria analitica. Resta una parola con cinquecento definizioni che serve solo a capire una cosa: quell’etichetta è distribuita e ridefinita dallo stesso potere che la inventa. Seppelliamo i dibattiti seri accumulando luoghi comuni e sciocchezze ripetute mille volte. Qualcuno può spiegare con il minimo rigore necessario cos’è questo artefatto chiamato terrorismo, a cosa serve, a chi serve, quante versioni ha e come vengono utilizzate? Qual è la radice storica del termine? Il 1789? Gli anni ’70? Il 2001? Il 2023? Mandela ha smesso di essere un terrorista, secondo gli Stati Uniti, nel 2008. Nel 2024 sarà la volta dell’UNRWA. Quando lo Yemen applica la Risoluzione1674 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla responsabilità di proteggere i civili, diventa automaticamente ancora una volta un pericoloso foco terroristico. Quali terrorismi dovremmo condannare, dunque, e quali no? E ancora, quel che è peggio: a qualcuno importa più qualcosa di tutto questo? Ci si dimentica, intanto, che occupare e colonizzare è illegale, accettiamo il fatto che la violazione di decine di risoluzioni ONU faccia di Israele un faro dell’Occidente sviluppato e che settemila cadaveri che marciscono sotto le macerie a Gaza siano un danno collaterale compiuto dell'”unica democrazia del Medio Oriente”. Sono coloro che raccomandano di “non mescolare scienza e politica” – come se ciò fosse possibile! – che hanno perso la vergogna intellettuale necessaria per discutere, analizzare, approfondire le genealogie, porre domande e osare ascoltare le risposte. La critica ci spinge ad approfondire le radici dei processi, e questo è ciò che significa “radicale”.
D’altra parte, ci sono le patetiche lagne sull’antisemitismo. Solo il nostro proverbiale ombelico accademico continuerà a perdere tempo con le invettive presuntuose per giustificare il fatto che non siamo antisemiti. Beh, certo che non lo siamo. E basta. Nel dizionario, discendente di Sem nella tradizione biblica o appartenente a uno dei popoli che compongono la famiglia formata dagli arabi, dagli ebrei e da altri. Gli ultimi quattro mesi hanno dimostrato che la parola in questione è uno strumento rotto nella bocca del sionismo. La maggioranza dei sionisti sul pianeta non sono ebrei. La maggioranza di quel sessanta per cento degli ebrei che vivono fuori da Israele non sono sionisti. A ciò va aggiunto che la stragrande maggioranza dei cittadini ebrei di Israele non è semita. Quanto è tutto assurdo: il sionismo stesso ha trasformato il termine in uno straccio sporco. Il jolly si è rotto proprio per essere stato usato così tanto, ma per alcuni non c’è nessuno che li possa fermare quando arrivano al limite.
Tanto merito e tanti complimenti
Le reazioni a questo genocidio hanno messo in luce tre macchie che permeano la vita quotidiana della nostra fauna e flora accademica.
Uno. Sguazziamo con orgoglio in una pozza di povertà intellettuale imbavagliata dalla colonialità del potere. Uno stupefacente processo di congelamento epistemico ha svuotato il nostro linguaggio, aprendo l’abisso tra la parola e la realtà materiale. Qualcuno ricorda quando abbiamo deciso di trasformare l’uccisione sistematica di migliaia e migliaia di bambini in una “catastrofe umanitaria”? Perché l’Asse del Genocidio “intensifica le sue operazioni” e le migliaia di cadaveri sono persone “morte nel corso del conflitto”? Perché buttiamo nella spazzatura la definizione più elementare della voce “guerra” per giustificare il catalogo canonico dell’aggressione genocida facendo ricorso al “diritto a difendersi” di coloro che per decenni hanno perpetrato quell’aggressione? Siamo arrivati fin qui e il nostro meritevole sforzo ci è costato molto.
Due. Con la colonna sonora dei nostri valori che suona come un disco rotto, dosi selettive di amnesia condiscono montagne di curriculum creati nel calore di una peculiare economia morale. Chi ricorda oggi i primi mesi di guerra in Ucraina? Chi si ricorda di quella definizione di razzismo di cui avete discusso in classe l’altro ieri? Quante carriere accademiche sono state costruite su floride analisi decoloniali o su patinate ricerche sull’uguaglianza, la tolleranza e i diritti fondamentali?
Tre. La somma dei primi due punti, il pasticcio più appiccicoso assegna compiti tra una varietà di soggettività prodotte dall’accademia-mercato coloniale. Uno di quei profili rifiuta di ammettere che l’occupazione coloniale è un crimine (semplice ovvietà) e, di conseguenza, evita di riconoscere che è giusto resistervi, per quanto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “riaffermi la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dalla dominazione coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la lotta armata; […] anche il diritto inalienabile del popolo palestinese e di tutti i popoli sotto occupazione straniera e dominazione coloniale all’autodeterminazione, all’indipendenza nazionale, all’integrità territoriale, all’unità nazionale e alla sovranità senza interferenze straniere…” (Risoluzione 45/130, 68a sessione plenaria, 14-12-1990). In effetti, ogni popolazione occupata ha riconosciuto il proprio diritto a resistere all’occupazione coloniale con tutti i mezzi a sua disposizione. La ratifica di questo diritto è avvenuta 33 anni fa, dopo secoli di massacri evangelizzatori, civilizzatori e democratizzatori, tutti fatti in nome di valori che legittimano, giustificano e naturalizzano l’invasione, l’esproprio e l’umiliazione di intere società, sotto una nozione di “guerra giusta” che nessuno accetta o ammette più nella stragrande maggioranza del pianeta.
Invece di ammettere queste ovvietà, non poche eccellentissime autorità si sforzano di censurare ogni pronunciamento sui diritti umani che faccia appello agli statuti di ciascuna istituzione. Lo fanno, curiosamente, in nome del lustro e dello splendore dell’istituzione stessa. Molti di quei laboriosi censori sono gli stessi rinomati signori che, seduti sulle poltrone da diversi cicli di sei anni, occupano le posizioni gerarchiche più alte nei rispettivi feudi del nostro illustre giardino universitario. Quelli con meno pudore continueranno a ricordarci che “nessuno può battere un democratico” e che “loro sono dovuti scappare di fronte ai grigi” (sic) (grigio era il colore delle uniformi della polizia di Franco, ndt). Oggi sono sempre di più quelli che potranno raccontare di esser dovuti fuggire di fronte alla polizia di coloro che dovevano scappare davanti ai grigi. Alcuni sono impegnati ad abbattere bandiere e striscioni in nome del sacro ordine igienista. Alcuni interrompono le comunicazioni nei canali interni dell’istituzione. Alcuni lavorano su ricerche super interessanti e scrivono articoli fichissimi su postcolonialità, decolonialità e cavolonialità, ma sembrano aver giurato, per la gloria della loro autostima, che non ci sarà alcun conflitto genocida che ostacolerà la loro carriera. Alcuni sanno cosa dire, ma sono sempre “molto occupati”. Altri, praticanti di una miserabile virtù fotosintetica, guardano da entrambe le parti come fa una mucca al passaggio di un treno.
Uno scenario del genere ci colloca nel posto peggiore che la storia riserverà a coloro che, di fronte a un genocidio trasmesso in diretta e in alta definizione, pur potendo fare molto, hanno deciso di godersi il loro margine di manovra privilegiato per non far nulla. A causa del nostro comportamento saremo conosciuti come la maggioranza degli Stati europei che hanno collaborato incondizionatamente con il genocidio, come coloro che si sono mossi in difesa di Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia, come i “guardiani della prosperità” nello Stretto di Mandeb (Mar Rosso, ndt), come la stessa Corte Internazionale di Giustizia mentre dà l’estrema unzione all’idea di giustizia, come il Regno di Spagna che esprime preoccupazione pur continuando a sostenere la macchina genocida, come l’UE che si suicida – un’altra volta – mentre recita la fallacia della “soluzione a due Stati”.
Ecco come andrà a finire. La nozione stessa di giustizia universale, fondata da queste parti e distrutta dai suoi stessi creatori, ci ha già inviato il suo ultimo avvertimento. Congratulazioni ai guardiani della prosperità dell’accademia nel Regno di Spagna, tra i quali irrimediabilmente includiamo tutte e tutti noi.
Rete universitaria per la Palestina
L’obiettivo della Rete Universitaria per la Palestina (#RUxP) è coordinare a livello statale l’organizzazione di eventi accademici di denuncia della Nakba permanente, iniziata nel 1948 con la pulizia etnica della Palestina e che continua con il genocidio in corso, così come appoggiare le mozioni volte a sospendere i rapporti di cooperazione con università e imprese israeliane nei dipartimenti, consigli e senati accademici delle Università dello Stato spagnolo. I dipartimenti di Geografia e Antropologia Sociale dell’Università di Barcellona, insieme al Dipartimento di Educazione Fisica dell’Università di Valencia, hanno già chiesto al rettorato di sospendere le relazioni, e il senato accademico dell’Università Politecnica della Catalogna è stat il primo, lo scorso 31 gennaio, a chiedere che il governo della sua Università faccia lo stesso.
maria luigia quattrociocchi dice
Sono un medico e lavoro con Emergency , oltre che per un coordinamento di associazioni che si occupa di pace e di migrazioni. Siamo , da anni, impegnati a fianco del popolo palestinese con iniziative ed aiuti concreti .
Sono d’accordo con quanto scrivete nel vostro articolo, tutte cose vere ed utili da far conoscere.
Spero non vi offendiate se vi suggerisco, per essere piu’ efficaci , una maggiore sintesi.
Ci teniamo informati sulle iniziative che proponete
maria gianotti dice
Finalmente! Grazie…è un orrore insopportabile
Alfredo Ciano dice
Congratulazioni , Emozionante Articolo – https://t.me/foreverleft