La vicenda del coronavirus conferma ciò che esiste e ci ostiniamo a rimuovere: la nostra crescente e smisurata ostilità al limite, al rischio, al pericolo. Siamo convinti che ragione e tecnica possano metterci sempre al riparo, così quando la vita inevitabilmente materializza quegli elementi la nostra risposta si fa patologica. Viviamo l’imprevisto e il limite come un’offesa, un’imposizione che ci impedisce di essere liberi e forti. Restiamo però convinti che, una volta abbattuti, la società e la nostra esistenza torneranno sicure. Abbiamo via via espunto quel che non ci piace dal nostro orizzonte, così quanto più ci rendiamo conto che limiti e imprevisti invece esistono tanto più ci sentiamo fragili e poi, in una spirale perversa, impauriti, chiusi, ostili. Quel circolo vizioso ci impedisce di vivere la vita con la sua complessità, che comprende sì la bellezza ma anche la fragilità e il rischio. Solo un’altra idea della politica, però, potrà tirarci fuori dalla superficialità imperante che ci opprime
Nella discussione pubblica sul coronavirus ci si concentra prevalentemente sugli aspetti sanitari o economici. Eppure c’è qualcosa di più profondo che questa vicenda racconta sulla nostra società e su di noi come individui. Del resto è nello stato d’eccezione, come è quello che stiamo vivendo, che si capisce meglio la realtà.
Partiamo da una domanda: perché, come hanno denunciato in tanti, domina oltre ogni misura l’ansia e il panico? Rispondere è essenziale e ancor più importante degli aspetti sanitari ed economici se vogliamo afferrare questo tempo. Si può imputare con qualche ragione al mondo dell’informazione la responsabilità di certe reazioni nevrasteniche, ma è il modo più sbrigativo di spostare l’attenzione fuori.
Invece la vicenda coronavirus ci riguarda direttamente e conferma ciò che esiste da tempo e che costantemente rimuoviamo: la nostra crescente e smisurata ostilità al limite e al rischio. Siamo convinti che ragione e tecnica ci mettano al riparo, così quando si materializzano la nostra risposta è patologica. Un tempo di fronte a eventi imprevisti ci si affidava all’imperscrutabile volontà di Dio coprendo spesso responsabilità umane. Ora siamo passati all’ atteggiamento opposto, cerchiamo subito il colpevole. L’imprevisto, il limite, lo viviamo come un’offesa, un’imposizione che ci impedisce di essere liberi e forti, convinti che una volta abbattuti la società e la nostra esistenza saranno sicure e garantite; o li confiniamo in ambiti ristretti che ci rassicurano: il rischio economico; il limite conseguenza dell’età.
Abbiamo via via espunto dal nostro orizzonte l’idea dell’imprevisto, del limite, del rischio, del pericolo. Un’idea che scontrandosi con la vita, in cui l’imprevisto è dietro l’angolo, l’incidente succede, l’epidemia arriva, si dimostra per quella che è: una moderna superstizione. Ma invece di cambiare atteggiamento la risposta è nella richiesta ansiosa e ansiogena di dosi sempre più massicce di sicurezza. E’ il circolo infernale che vediamo dispiegarsi sotto i nostri occhi: più ci si rende conto di limiti e imprevisti e più ci si sente fragili, più ci si sente fragili e più ci si sente impauriti, più ci si sente impauriti e più si diventa chiusi e ostili.
Il fatto di essere un paese di vecchi non fa che amplificare queste dinamiche. Come ha scritto lo psicanalista Luigi Zoja: “La società occidentale di oggi vive di semplificazioni ottimiste e utilitariste, che rifiutano il sentimento di destino e tragedia perché esso ostacola la ricerca del comfort.” Nasce da qui l’ansia, il panico che abbiamo visto in queste settimane, un fenomeno che è insieme sociale ed antropologico.
C’è qui per la sinistra una sfida culturale da ingaggiare che riguarda l’idea di persona e di società e che fa ritornare di straordinaria attualità una parola d’ordine dei movimenti giovanili e femministi: riprendiamoci la vita. Perché quel circolo vizioso ci impedisce proprio questo: vivere la vita con la sua complessità, bellezza, fragilità, rischio. Per farlo serve una sinistra che ha voglia di uscire dall’acquario per ritornare in mare aperto, che ha l’ambizione di guardare oltre l’immediato ritrovando un orizzonte di senso al proprio agire politico, una sinistra molto diversa da quella che c’è.
Classe dirigente non perché sta al governo ma perché è in grado di svolgere una funzione pedagogica, di indicare una direzione. Solo la politica può farlo perché gli appartiene la dimensione tragica, perchè essendo chiamata a decidere non è mai innocente. Ogni decisione non ha solo vantaggi ma anche costi e prezzi da pagare; le conseguenze spesso non sono né prevedibili né controllabili; decisioni necessarie si scontrano con l’impossibilità di prenderle. E’ la sua drammatica grandezza.
Solo un’altra idea della politica fuori dalla superficialità imperante, solo una sinistra che riprenda il gusto di sfidare il presente può dire qualcosa sul mondo di oggi e tornare a riappassionare. Altrimenti prospera la destra, ma è inutile lamentarsi.
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