Malgrado sia stato ambientato in un qualche periodo del futuro, il nuovo romanzo distopico di Enzo Scandurra, disegna il profilo di una città estrema ma tragicamente possibile, la città devastata che si sta formando sotto i nostri occhi. Non solo per il paesaggio apocalittico, costellato di nuove rovine e cumuli di rifiuti, ma per gli effetti profondi di una modernizzazione che lascia macerie e disgrega i tessuti sociali. L’umanità stessa ne appare sempre più impoverita. È una dinamica che non caratterizza solo Roma, ma accomuna molte altre città, soprattutto nel mondo occidentale. Scandurra ci obbliga a fare i conti con la realtà, non con un immaginario astratto e fantascientifico. La città è un contesto urbano dove la politica e il governo pubblico sono assenti, o perché inadeguati e fallimentari o perché hanno rinunciato a svolgere la propria parte. I cittadini devono quindi fare da sé. Soltanto l’autorganizzazione e un mondo di relazioni sociali che si fanno guidare dal senso profondo della convivenza e della solidarietà esprimono la capacità di sopravvivenza al disastro. Martedì 14 maggio alle 18 il libro verrà presentato a Roma
di Carlo Cellamare
Enzo Scandurra non smette di sorprenderci e di stimolarci con scritti interessanti e, direi pure, intriganti. Il suo ultimo libro, infatti, pur parlando di città e di Roma in particolare, non è propriamente un saggio, ma un romanzo (Scandurra Enzo, Exit Roma, Castelvecchi, Roma, 2019). Bisogna dire che è proprio un buon modo per riflettere su Roma e sul futuro delle città in generale. Pur se bisogna considerarne profondamente l’aspetto letterario (su cui non ho particolare competenza, perché non sono un critico letterario), ci parla molto della città di oggi e della fase di transizione (di crisi) cui sta andando incontro, o – se vogliamo – in cui è già immersa.
Sebbene sia ambientato in una Capitale proiettata in tempi futuri e quindi del tutto immaginifici se non fantascientifici, più che un contesto inventato e fantastico, in realtà sembra una Roma molto concreta ed attuale, una Roma a venire, la città che si sta formando sotto i nostri occhi. Sembra la città che la Capitale sta diventando, soltanto estrapolata nelle sue dinamiche più estreme. Per questo, agli occhi di un romano, appare una città terribilmente realistica, tragicamente possibile. Non solo per il paesaggio di buche e cumuli di rifiuti (che è un immaginario ormai stereotipato e ridicolizzato), ma per gli effetti profondi di una modernizzazione sterile e inefficace, che lascia macerie e disgrega i tessuti sociali. L’umanità stessa ne appare sempre più impoverita. Ed è questa una dinamica che non caratterizza solo Roma, ma accomuna molte città, soprattutto forse nel mondo occidentale. Scandurra ci obbliga a fare i conti con la realtà, non con un immaginario favolistico.
Dentro questo contesto difficile si dipana la vita del protagonista, in cui inevitabilmente troviamo anche tratti autobiografici. Colpita prima dalla Grande Crisi (la crisi economica che ha già dato le sue avvisaglie nell’epoca presente reale, ma che si sta continuando a perpetuare in modi diversi, e potrebbe esplodere in modi ancora diversi, segnando comunque il declino economico attuale della Capitale), poi dall’Epidemia (nel romanzo probabilmente importata tramite gli immigrati, che in effetti sono l’unico ceppo resistente) che ha decimato la popolazione, e infine dal Grande Freddo (che preannuncia gli effetti dei grandi cambiamenti climatici), Roma appare in uno stato di totale prostrazione e disfacimento. Tale situazione, che nel romanzo risulta simile anche in altre città, a Roma appare più profonda per gli effetti di un governo inadeguato se non assente, incapace di affrontare i grandi problemi che la città pone. Gli annunci televisivi e radiofonici da parte delle istituzioni sono ormai comunemente considerati non credibili da parte di tutti. La città è un contesto dove la politica e il governo pubblico sono assenti, o perché inadeguati e fallimentari o perché hanno rinunciato a svolgere la propria parte. I cittadini devono quindi fare da sé.
Come in una Beirut bombardata, in una distesa di buche (di queste non è difficile oggi pensare il futuro) e rovine (sono forse una versione aggiornata di quelle della Roma antica?) e cumuli di spazzatura (e anche questi non sono difficili da immaginare), dove finalmente le macchine sono inservibili e passano raramente, si susseguono le scene di sopravvivenza nello scorrere ordinario dei giorni, e poi delle stagioni, in una città che è comunque il teatro delle vita delle persone, ed in particolare del suo principale protagonista, un architetto, ex professore universitario. Nonostante tutto questo disfacimento, il protagonista coltiva una serie importante di relazioni, sia con persone che appartengono alla propria storia personale, sia con persone incontrate nella nuova situazione che si è andata progressivamente creando nella città. E’ questo mondo di relazioni che, forse più di ogni altra cosa, caratterizza il dipanarsi del romanzo.
Il libro è pieno, tra l’altro, di simbologie e rimandi a contesti e situazioni reali che, soprattutto per i romani, sono molto significative.
Foto di Pasquale Liguori. Il suo libro fotografico, “Borgate”, viene presentato mercoledì 15 maggio al Macro di Roma, via Nizza 138
In questo scenario ad essere più colpiti dal disfacimento sono i quartieri del centro storico e della città consolidata. La casa del protagonista si trova, non a caso, nel quartiere Parioli, emblema della Roma benestante, ma che risulta incapace di affrontare le difficoltà. Sopravvivono solo alcune isole di collaborazione come quella che fa capo ad un gruppo di anziani residenti mescolati a giovani immigrati che si è rifugiato nella chiesa di San Roberto Bellarmino a piazza Ungheria, luogo simbolico anch’esso per la sua storia di apertura culturale, politica e religiosa.
La periferia è invece più attrezzata, abituata com’è già adesso a doversi arrangiare da sola. In realtà la periferia romana è oggi molto diversificata, sono tante periferie insieme. Si va dalle estese plaghe della città abusiva, espressione di un tradizionale malgoverno della Capitale storicamente consolidato (dobbiamo ricordarci che un terzo della città è di origine abusiva), alle grandi e disastrose “centralità” previste dall’ultimo piano regolatore con l’aggiunta dei nuovi estesi complessi residenziali, per arrivare alla “città del GRA”. E’ vero, però, che tutte queste realtà sono oggi organizzate come una complessa e articolata “città fai-da-te”. Questo è ancor più vero nei quartieri di edilizia residenziale pubblica e nelle periferie più difficili, così come nei luoghi delle occupazioni. Sono, queste ultime, le realtà dove, al contempo, troviamo le maggiori difficoltà, ma anche il maggior impegno di resistenza, forse di sopravvivenza. Sono laboratori sociali, luoghi caratterizzati da grandi energie sociali e da una produzione culturale che non si ritrova più nella città consolidata ed, in particolare, nel centro storico, ormai luogo prevalentemente del consumo. La periferia è oggi la parte più vitale di Roma.
L’autorganizzazione diventa qui premiante, esprime la capacità di sopravvivenza al disastro. Uno dei luoghi simbolo del degrado attuale e della ghettizzazione, il quartiere di Tor Bella Monaca, spesso definito il “Bronx di Roma”, nel libro di Scandurra diventa il “quartiere che ce la fa”. Chiusa da un muro nella finzione del romanzo, costruito per realizzare più fortemente l’isolamento di un quartiere pericoloso, proprio quella ghettizzazione (che, nel romanzo, è fisicamente reale) diventa la propria difesa dal disastro che va in scena all’esterno. L’autonomia nella gestione della depurazione, dello smaltimento dei rifiuti e della produzione di cibo, ed in particolare nella disponibilità di una risorsa idrica pulita (e quasi salvifica), ma soprattutto la capacità di collaborare, di costruire relazioni e solidarietà, di fornire e scambiare le proprie competenze (da quelle mediche a quelle produttive), di accogliere scambievolmente le persone prendendosene cura, costituiscono gli elementi, e se vogliamo gli ingredienti, per costruire una realtà in grado di sopravvivere al disastro di una città che, interessata dalla modernizzazione, ha perso il senso della convivenza (“Nei palazzi la solidarietà tra abitanti diventò lo strumento più efficace per ricostituire comunità dotate dei servizi indispensabili”; “La solidarietà si dimostrò l’arma più efficiente per affrontare la Crisi”).
A Tor Bella Monaca si sviluppa idealmente ma in mezzo ad enormi difficoltà una realtà collaborativa e democratica, profondamente ancorata alle relazioni tra le persone, che realizza una sorta di “comunismo primitivo” (riprendendo indirettamente non solo alcune note affermazioni di Lenin, ma anche alcuni tratti delle prime comunità cristiane), ma applica anche alcuni principi basilari di sostenibilità ambientale. Su questa realtà si fonda la possibilità di futuro della città. Da questo nuovo “centro” si riorienta la prospettiva di ripensare tutta la città.
Anche in questo aspetto l’autore non è ingenuo o favolistico, conosce le ambiguità. Quello stesso muro che isola Tor Bella Monaca, progressivamente difeso da guardie, comincia a diventare nel tempo anche una forma di chiusura selettiva verso l’esterno. Lo stesso quartiere e la sua complessa organizzazione che si viene strutturando nel tempo somiglia sempre più ad un grande falansterio di scala urbana. Questo ci interroga profondamente non solo su quale città sopravviverà, ma anche su quale città possiamo costruire per il futuro, al di fuori di un batesoniano “doppio vincolo”.
Gli interrogativi, le preoccupazioni, i dubbi e le aperture sul futuro della città, e di Roma in particolare, si accavallano e si inseguono, danno prospettive ma non risposte certe.
Il libro è anche un viaggio attraverso i modi con cui ci rapportiamo a questi cambiamenti, spesso più grandi di noi. Dice uno dei personaggi: “Invece la Storia umana è un susseguirsi di avanzate e ritirate, pause ed accelerazioni. L’importante è che non ci siamo mai venduti a nessuno e che siamo riusciti a conservarci liberi di criticare i potenti senza rinunciare all’idea di un possibile mondo diverso”.
Ciò che forse è più importante è la complessa vicenda che interessa il protagonista, ricca di suggestioni e motivi di riflessione, dove non si nascondono – come si è detto – tratti autobiografici. Non sta a me sviluppare una critica letteraria, ma il romanzo ha un suo ritmo e una sua tensione che spingono a inseguire gli eventi, a indagare i passi successivi, a indulgere sui toni affettuosi e attenti alle relazioni che pure traspaiono in un orizzonte di difficoltà ed anche di violenza e di morte; un’umanità che non si lascia sconfiggere dal disastro evidente. E’, in particolare, la relazione del protagonista con la propria compagna che tiene il filo della tensione fino alla fine del libro. Venuti a trovarsi separati nel corso della propria storia personale in contemporanea con i momenti di grande crisi della città che si sono susseguiti nel tempo, cui si aggiunge la probabile nascita di un figlio atteso ma mai visto, i due vivono progressivamente vite separate, il protagonista ai Parioli, la compagna a Tor Bella Monaca. L’attesa del possibile nuovo incontro attraversa tutto il libro e l’esito finale non è proprio scontato.
Il romanzo si pone anche al termine di un percorso di ricerca di Enzo Scandurra sul tema della narrazione e dei linguaggi. E’ veramente notevole come la narrazione, anche fantastica, possa stimolarci a riflettere sul futuro della città, intrecciando il piano umano e personale con quello delle grandi trasformazioni storiche che pure ci sovrastano e ci attraversano, alla ricerca delle vie di uscita che diano senso al nostro abitare, nel significato più profondo del termine.
Al di là, quindi, di una lettura interpretativa critica dei processi di trasformazione delle nostre città e di una giusta preoccupazione per il loro futuro, penso che il libro di Scandurra ci interroghi sul nostro posizionamento, sia come ricercatori che come persone. Tra il disincanto e l’ironia anche un po’ dolorosa, di fronte all’inesorabilità della Storia, le dimensioni relazionali e gli atteggiamenti profondi, a loro modo affettuosi, che attraversano il libro ci sollecitano la riflessione. Nell’orizzonte post-politico disegnato nel romanzo, dove la militanza appare sempre importante, ma rimane sullo sfondo di un orizzonte che appartiene ad un mondo perduto, sono molti i terreni su cui lavorare. In primo luogo, penso che come ricercatori e intellettuali siamo chiamati ad assumere un posizionamento profondamente critico rispetto alle trasformazioni in atto, ma anche a collaborare, a metterci a servizio, nei modi che sapremo coltivare, di quelle realtà che costruiscono una città alternativa, che coltivano un mondo di relazioni significative che vanno al di là del mainstream prevalente e dirompente, che si fanno ancora (di nuovo) guidare dal senso profondo della convivenza e della solidarietà. In secondo luogo, penso che ci sia una dimensione personale, un richiamo semplice e profondo a un re-incantamento in ciò che di più umano e di più significativo c’è nel nostro abitare le città e nel nostro vivere insieme.
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