Non sono certo poche le credenze e le maschere che questa primavera ha lasciato cadere portando alla luce tracce di verità per chi abbia voglia di seguirle. Una di quelle maschere è la narrazione per cui si arriva soli al traguardo, quella che ci vuole il risultato unico e puro delle nostre azioni e che racconta la povertà come una colpa e non il risultato di un sistema basato sull’accumulazione illimitata e, dunque, sullo spreco e le diseguaglianze. Abbiamo astronauti nello spazio ma siamo costretti a vedere anziani morire soli negli istituti, gente costretta ad andare in fabbrica o a scioperare per difendere il diritto alla salute, schiavi neri sui campi che diventano preoccupazione collettiva solo quando ci dicono che potremmo non avere di che mangiare. Il virus ha smascherato anche, forse solo per un attimo, il grande tabù della nostra mortalità e poi la falsità di una società dove il lavoro di cura non è riconosciuto perché non è retribuito, mentre l’economia della cura ci sta salvando. Poi, il virus ha sussurrato a chi poteva restare in casa che dove il denaro compra la vita, la vita muore o si ribella. La città è il nostro ambiente, e da lì che siamo partiti anche stavolta per disegnare il quadro dei diritti
Da qualche settimana è ormai iniziata la Fase 2. Nonostante il Paese attraverso tutti i suoi media, come in tutto il mondo, rilanci a piena voce il sogno di questo grande “ritorno alla normalità”, ci sono dei flash nella (seppur labile) memoria collettiva che fanno scricchiolare questa “ripartenza” come il pavimento di legno di una vecchia casa in rovina.
Per un attimo lungo mesi, siamo stati tutti e tutte spettatori increduli della nostra vulnerabilità. Abbiamo anche capito che “il virus” non era un’anatema lanciato da Nostradamus, ma il risultato di una situazione quantomeno caotica di diseguaglianza e ingiustizia sociale ed ecologica su tutto il pianeta. La vivono le persone in carne ed ossa come noi, la vivono animali e foreste. Per un attimo in molti luoghi si è visto un cielo “color cielo”, l’aria è tornata respirabile e i fiumi neri sono diventati “color fiume”. Abbiamo visto i video degli animali che ripopolavano le città. Il pianeta dimostra che bastano 3 mesi senza di noi e lui sta una pacchia.
Ora, abbiamo davanti due opzioni: tornare a campare e sopravvivere male, controllati, impauriti e sempre più socialmente e umanamente poveri, oppure cambiare orizzonte e costruire qualcosa di nuovo che parta dal riconoscimento delle nostre necessità essenziali e dalla combinazione fra noi e questo strano ecosistema che sia chiama Terra, e di cui, per quanto possiamo far finta di niente, siamo parte integrante.
C’è un tabù che la nostra società non ha ancora affrontato e il virus ha portato alla luce: la nostra mortalità. È un tema che le nostre società hanno smesso di affrontare, ma rompere questo tabù ci renderebbe più liberi. Quantomeno ci darebbe respiro e orizzonte nel dare un senso – ciascuno il suo – alle nostre vite e alle dimensioni importanti per noi, smettendo di perdere tempo inutile nel replicare sofferenza a tutti i costi. Magari ricordandoci che esistiamo e che siamo di passaggio, ogni tanto potremmo provare l’ebbrezza di sentirci vivi e fare qualcosa per evitare che l’80% della popolazione mondiale continui a vivere in condizioni di sofferenza e povertà (e non immaginate la Cambogia, basta fare un giro sotto casa con gli occhi aperti e lo smartphone spento).
Cose che per alcuni appaiono scontate non lo sono, e magare sono alla base dell’esistenza. Per questo, invece di chiamarle “beni” (acquistabili) potremmo ricominciare a chiamarle “diritti” (fondamentali): casa, cibo, acqua e aria pulite, salute, istruzione, mobilità ma non solo. Non solo il lavoro o il reddito e il pane ma anche le rose, la bellezza, l’arte e la cultura, la spiritualità, la socialità e la partecipazione politica: tutto ciò che ci “nutre” e ci dà la possibilità di immaginare mondi nuovi, dare gambe e concretezza alle nostre aspirazioni.
Pretendere la cultura (qualcosa da “coltivare”) e con essa la bellezza, di un paesaggio, di una città: dovrebbe essere un diritto fondamentale per tutte e tutti poter accedere al piacere, al desiderio e all’immaginazione. Dovrebbe essere diritto di tutt* godere di condizioni minime come base per immaginare e costruire il proprio percorso, assieme agli altri.
Il virus ha smascherato per un attimo la falsità di una narrazione che racconta che si arriva soli al traguardo, che siamo il risultato unico e puro delle nostre azioni, che la povertà è una colpa e un debito e non il risultato di un sistema basato sull’accumulazione illimitata e dunque sullo spreco e le diseguaglianze. La diffusione del virus ha dimostrato che il sistema è folle perché abbiamo astronauti nello spazio ma siamo costretti a vedere anziani morire soli negli istituti, gente costretta ad andare in fabbrica o scioperare per difendere il proprio diritto alla salute, schiavi neri sui campi che diventano preoccupazione collettiva solo quando ci dicono che potremmo non avere di che mangiare. Il virus ha smascherato per un attimo la falsità di una società dove il lavoro di cura non è riconosciuto perché non è retribuito, mentre l’economia della cura ci sta salvando.
Le forme di solidarietà e mutualismo che si sono attivate stanno portando avanti la scialuppa di uno Stato assente. Uno Stato che non ha ancora abrogato l’articolo 5 della Legge Lupi, e che così toglie la residenza e rende volutamente invisibili coloro che non hanno una casa, uno Stato che dimentica di dare sostegno ai milioni di persone che vivono di lavoro nero in questo paese, uno stato che ha erogato la cassa integrazione a 1 su 5 finora, uno Stato che da troppo tempo ha messo al centro l’economia di mercato e che ancora crede nel salvataggio delle banche e delle grandi imprese per salvare un’economia che non produce alcun benessere sociale né ambientale e che per lo più deturpa corpi e territori.
Il virus ha sussurrato a chi poteva restare in casa che dove il denaro compra la vita, la vita muore o si ribella. Dovremmo tirare fuori quel “pensiero spudorato”, uscire dal comfort di una routine che sequestra immaginazione, coraggio e resistenza, smettere di essere impauriti dalla possibilità di riuscire, mutare la nostra irrilevanza in presenza. Ma da dove partire?
Alcuni diritti fondamentali
Come Scup riflettiamo da anni sulla giustizia ecologica come forma di giustizia sociale: è il filo rosso che lega le nostre rivendicazioni e rimodella i contenuti del nostro diritto alla città. La città è il nostro ambiente, e da lì siamo partiti anche stavolta per disegnare il quadro dei diritti, e rendere lo spazio che abitiamo uno spazio inclusivo e di sviluppo personale e sociale.
La casa è un diritto fondamentale: in Italia 52 mila persone erano senza casa già prima di questa pandemia. Non è un problema di “mancanza di case” come sappiamo: solo a Roma l’Istat nel 2011 contava “118.000 appartamenti, oltre 3.000 edifici e complessi di edifici interamente inutilizzati e poi
uffici, botteghe, capannoni desertificati. Un volume edilizio che nel suo insieme sarebbe in grado di accogliere 250.000 persone.” (Alberti, 2020 “Povera Roma – sguardi, graffi, carezze”).
Certo, il dato Istat è precedente all’esplosione di AirBnb, che in questa pandemia dimostra ancora una volta come il tentativo di renderci tutti piccoli imprenditori dell’abitare abbia impoverito ulteriormente le città: il centro vuoto, Trastevere deserta, piccoli esercizi commerciali e miriadi di pub e ristoranti falliti. Così si costruiscono e muoiono le città del turismo e del marketing territoriale. Città affatto accoglienti, e tantomeno “umane”. Le città dove il centro dell’agire collettivo e quotidiano è motivato per necessità o desiderio dal solo denaro, identificato col turista. Le città che spostano fuori “i poveri”, gli stessi che tutte le mattine fra mezzi pubblici e auto vi si riversano a lavorare spesso con paghe da fame e senza contratto proprio in quei ristoranti. Le città dove la possibilità di divenire albergatori è a portata di click, e che poi è un attimo che ci si dimentichi parole come gratuità e ospitalità.
Una casa per tutt* vuole dire ridisegnare la città in uno spazio possibile, ma fuori da quello cui siamo abituati e a cui vorremmo ritornare per sentirci confortati da una normalità – ingiusta, diseguale e che ci sta portando all’estinzione – che già conosciamo.
Il cibo non può essere un optional. Per questo Scup è un luogo di “filiera”: filiera significa il diritto al cibo, per tutt* e nel lungo periodo. In emergenza, vengono al pettine i nodi di un sistema malato e si raccoglie quanto seminato in questi anni. Una direzione di cambiamento. In questa fase ancora lunga che ci aspetta il cibo come merce non può sopravvivere. Il cibo come diritto fondamentale, invece, si.
Il cibo-merce viaggia da un lato all’altro del pianeta, attraverso la filiera del supermercato atterra sui banchi dell’ortofrutticolo e dei trasformati, e puoi trovarti fra le mani un pacco di lenticchie dal Canada. Quel pacco di lenticchie ha fatto il giro del mondo, in aereo o in nave, in camion, ed è stato prodotto da non so chi, non so come. Mentre Vincenzo produce lenticchie nella piana di Rascino, vicino al Lago del Salto e come lui molti altri piccoli produttori attorno a Roma, al momento in ginocchio per la chiusura di mercati rionali e informali mentre la GDO ha registrato un 30% di incassi in più sulla pelle di cassieri alienati ed esposti al contagio.
In una situazione che già vede molte e molti di noi fare file per prendere pacchi alimentari gratuiti nei punti solidali della città, il rapporto sullo spreco alimentare ISPRA del 2018 ci racconta che in Italia il 60% del cibo viene sprecato. Parte dello spreco è generato nelle fasi di produzione da parte dell’industria agroalimentare e degli allevamenti intensivi, un’altra parte si perde fra trasporto e conservazione, poi c’è lo spreco nel consumo. Grande Distribuzione Organizzata e Ristorazione (ma questo lo aggiungo per esperienza) sono anelli fondamentali di della catena dello spreco. Cosa accomuna ristorazione e Gdo? Grandi quantità di cibo venduto come merce. Non per sfamare, né tantomeno per tutelare la salute dei “consumatori” o dei lavoratori della filiera. Cibo-merce per profitto. Denaro che poi diventa per i lavoratori di questa catena, il mezzo che consente di avere accesso ai “diritti” (fondamentali) che da troppo tempo consideriamo “beni” (acquistabili) : casa, cibo, salute, educazione, aria e acqua pulite, mobilità etc etc.
Ma cosa succede quando il cibo è elemento essenziale, e si coltiva il diritto alla sovranità alimentare? Sempre secondo lspra (2018), lo spreco alimentare si riduce di circa 8 volte attraverso i consumi operati tramite le reti e i meccanismi a filiera corta, i gas, i mercati di prossimità. Lo spreco si riduce a monte nel processo di produzione e trasporto per le realtà a filiera corta e biologica, e a valle, attraverso forme di distribuzione e condivisione. Produttori e consumatori trovano poi spesso forme di supporto reciproco (è il caso delle CSA o dei meccanismi di prefinanziamento) e il cibo diventa il risultato di due mezzi essenziali, la terra e il lavoro: la terra non può essere distrutta e depredata per estrarne il maggior profitto possibile, perché come il corpo e la mente di chi la lavora è essenziale che si preservi sana e per lungo tempo. Terra e lavoratori/lavoratrici vanno rispettate, dettano i tempi della produzione in base ai cicli naturali e al clima. C’è un altro dato importante: chi consuma quel cibo sta meglio e si ammala meno.
Il cibo-merce è coltivato sulla terra-merce da lavoratori-merce. Ma cosa avverrebbe se invece di accedere a cibo-merce cominciassimo a sostenere il lavoro di chi tratta se stesso e la terra non come qualcosa da sfruttare per profitto ma come dono per realizzare la sovranità alimentare?
Ma anche respirare è un diritto. Quando il cielo è diventato azzurro e l’aria respirabile, non era solo per il blocco delle industrie, era anche per il traffico aereo, per le auto ferme. Insomma, per un attimo la terra ha respirato. Per un attimo chi aveva casa e poteva rimanerci ha respirato. Sarebbe importante poter difendere quest’attimo e ripensare il tempo trascorso nella nostra vita per costruire ciò che è veramente essenziale per noi: un grande orizzonte collettivo capace di unirci e farci incontrare.
La questione del Coronavirus ci dimostra non solo i nostri limiti, ma quelli di un sistema che ha privatizzato il concetto di salute pubblica, da “diritto essenziale”, per cui siamo disposti a condividere spese pensando che possa generare una tutela per tutti, a “servizio a pagamento” che ci separa fra “chi può” accedervi e chi no, con un danno per l’intera collettività.
Se abbiamo il coraggio di riflettere e immaginare il cambiamento, abbiamo anche modo di costruire qualcosa di meglio di questo medioevo in cui siamo dispersi e spaventati. Per fortuna, in tante e tanti, hanno già cominciato a tracciare pratiche e cammini possibili.
Gianni dice
Grazie
Silvia Sommaruga dice
Grazie bellissimo e totalmente condiviso!
Miriam dice
Parole profonde, x farci riflettere su come possiamo essere artefici di buoni cambiamenti, per evitare ulteriori disastri sulla terra che non ci appartiene…..
Brava Sofia!
Miriam
Federico dice
Penso che rispecchi le riflessioni di molti di noi durante questo periodo…complimenti!