In Italia parliamo pochissimo della Tunisia, per lo più a proposito e sproposito di metodi per “contrastare” la libertà di movimento dei migranti o dell’ossessione (da qualche tempo un po’ sopita) della lotta al terrorismo. È una visione oltremodo miope e distorta di un paese tanto vicino che avrebbe molte storie di straordinario interesse da far conoscere qui. Una delle più significative è quella che racconta su Tunisia in Red, uno dei mezzi di comunicazione fratelli di Comune-info sparsi per il mondo, questo gran bel reportage di Patrizia Mancini che, insieme ad Hamadi Zribi, ha percorso in lungo e in largo la Tunisia alla ricerca dei saperi e delle esperienze dei piccoli coltivatori che resistono alle politiche agricole e industriali imposte dall’intervento coloniale francese prima e, in seguito, poi dai governi post-indipendenza, compresi quelli nati dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011
di Patrizia Mancini
C’è una questione in Tunisia che è poco conosciuta e dibattuta al di fuori degli ambienti specializzati, e alla quale scarsa attenzione hanno dedicato le scienze sociali e la stessa politica: la questione agricola con la problematica ad essa connessa della gestione e protezione delle risorse locali e dell’ambiente. Per questo motivo, secondo le parole di Habib Ayeb, geografo e documentarista, è nato l’OSAE, l’Observatoire de la souveranité alimentaire et de l’Environnement.
Fra gli scopi principali dell’associazione vi sono la produzione e accumulazione di conoscenza al fine di aprire il dibattito sulla questione sociale legata all’agricoltura, sia all’interno della sfera accademica che nella società civile e per la difesa del diritto fondamentale di cittadini e delle cittadine alla sovranità alimentare. Tunisia in Red ha già affrontato diffusamente queste tematiche attraverso interviste (“Ambiente e diritti economici e sociali” , “Risorse naturali e sovranità alimentare” , “Jemna , ou la résistance d’une communauté dépossédée de ses terres agricoles”, “Intervista a Habib Ayeb sul documentario Coucous “) e cercando di diffondere il documentario “Couscous- i semi della dignità” di Habib Ayeb nei circuiti italiani, dopo averne curato la traduzione dei sottotitoli in italiano. Abbiamo anche parlato, già nel 2014, del problema ambientale a Gabes con la pubblicazione dell’intervento del professor Bernardo Severgnini ad un convegno organizzato dall’Università locale :“L’agonia chimica di Gabes, sepolta da inquinamento e menzogne”.
Per questo motivo ci è sembrato più che naturale partecipare alle cinque giornate della sovranità alimentare e dell’ambiente che l’associazione ha organizzato dal 25 al 30 settembre 2018, invitando ricercatori, studenti e attivisti della società civile a entrare nel vivo della tematica, attraverso una viaggio a tappe in alcuni luoghi emblematici della Tunisia per quanto riguarda i saperi dei piccoli contadini e la loro resistenza, la loro difficoltà nell’accesso alle risorse, come ad esempio all’acqua, confrontando la loro realtà con quella delle politiche agricole e industriali imposte dall’intervento coloniale francese prima e in seguito, senza soluzione di continuità, da quelle dei governi post-indipendenza, compresi quelli nati dopo la rivoluzione.
Circa cinquanta partecipanti fra cui molte donne sia tunisine che europee, ricercatrici o facenti parte di associazioni locali o ONG straniere, partner di progetti sulle tematiche agricole, insegnanti universitari e giovani agronomi disoccupati e militanti, un paio di giornalisti hanno iniziato questo viaggio con un incontro alla sede della Banca Nazionale dei Geni (BNG), una istituzione creata in Tunisia nel 2007, sotto la tutela del Ministero dell’Ambiente e dello Sviluppo sostenibile, la cui missione è la conservazione delle risorse genetiche vegetali e animali e la coordinazione delle attività atte a promuovere anche l’utilizzazione di tali risorse.
In particolare, presso la Banca Nazionale dei Geni, come ci spiega Amine Slim, assistente presso il dipartimento Cereali e Leguminose alimentari e membro fondatore dell’OSAE, vengono catalogate, preservate e moltiplicate le diverse specie di sementi locali, sia per la ricerca scientifica che per l’agricoltura.
Esse vengono conservate ex situ, in situ e tramite la crio-conservazione, ma anche presso gli agricoltori stessi a cui si propone di dedicare una parte della loro parcella di terreno alla coltivazione delle sementi locali, in modo da confrontarne i risultati con quelli ottenuti dalla coltivazione di varietà importate. Il ruolo della BNG in questo campo è cruciale, dato che moltissime varietà locali sono minacciate, se non del tutto scomparse, a fronte dell’importazione massiccia di ibridi come il karim che ha bisogno di molta più acqua rispetto alle specie di grano autoctone ed è molto meno resistente alle malattie.
“Tutti i giorni subiamo pressioni esterne per scoraggiare il nostro lavoro” ammette Amine Slim” ma noi continuiamo ad agire controcorrente e, seppure la parte di sementi locali utilizzate sia molto inferiore rispetto a quelle importate, il nostro è un progetto a lungo termine, per le generazioni future e per la sovranità alimentare”.
Al termine dell’incontro proiezione del documentario “Couscous- i semi della dignità” a cui è seguito un dibattito.
La seconda giornata dedicata alla tematica dei cereali e all’incontro con le formidabili donne del “Groupe Féminine du Développement Agricole”(GFDA) di Oued Sbaihya nella regione di Zaghouan, nel nord est . La responsabile Alya Akil ci ha presentato le attività di questo gruppo, a metà fra associazione e privato che conta sessanta aderenti. Le attività sono incentrate sulle pratiche tradizionali di distillazione dell’acqua di geranio e di arancio, nella raccolta e successivo essiccamento di erbe medicinali e aromatiche, nello stoccaggio di prodotti per l’alimentazione (in tunisino la ‘oula), ma soprattutto nella lavorazione dell‘antica varietà locale di grano, il mahmoudi, originaria proprio della zona di Oued Sbaihya.
“E’ il tipo di grano che meglio si adatta alle condizioni del clima e del suolo di questa zona”, ci spiega Alya”molti contadini che in precedenza avevano coltivato il karim sono tornati al mahmoudi”.
Una cellula della a Banca Tunisina dei Geni collabora del resto da tempo con l’associazione e recentemente ha cominciato ad aiutare le donne del GFDA a migliorare il packaging del prodotto (indicazione del contenuto e data di scadenza). Il loro brand prende il nome dalla montagna di Sidi Salem sulla quale fanno raccolta di erbe aromatiche, ma purtroppo, non avendo sovvenzioni statali, hanno un solo punto vendita a Zaghouan e periodicamente fanno il giro delle fiere. Il gruppo del GFDA, così come i piccoli agricoltori della zona, non hanno accesso all’irrigazione e possono solo sperare in stagioni pluviali. Ciò ci riporta a uno dei problemi maggiori dei piccoli contadini in Tunisia che pagano in prima persona le scelte governative di dare priorità ai grandi investitori agricoli che producono per l’esportazione.
Il discorso viene ripreso nell’incontro con Fathi Rouis, agricoltore a M’Saken nel governatorato di Susa che molti di noi hanno già conosciuto per i suoi incisivi interventi nel documentario di Habib Ayeb “Coucous”: “Fellah (contadino), figlio di fellah e fiero di esserlo”. Fathi coltiva ulivi e cereali di varietà locali, senza pesticidi. Insieme alla sorella e a due fratelli gestisce una piccola azienda per la vendita d’olio d’oliva certificato BIO.
In tarda serata giungiamo a Gabes, sotto una pioggia torrenziale che, nei giorni precedenti, ha fatto enormi danni specialmente nella zona di Nabeul.
La mattina successiva, invece, splende un sole magnifico in un cielo completamente sgombro da nuvole e iniziamo la visita all’oasi di Chenini, che appartiene al sistema di Gabes, l’unica oasi litorale al mondo. Un ecosistema unico e fragile che è durato 3000 anni e che dagli anni ’70, con l’installazione del Gruppo Chimico Tunisino (GCT) ha cominciato a deteriorarsi con rapidità impressionante.
La porzione coltivata che tradizionalmente veniva irrigata tramite pozzi artesiani ha perso quasi la metà della sua superficie (da 1250 ettari nel 1990 si è passati oggi a circa 650 ). Il lavaggio dei fosfati da parte del GCT infatti richiede una quantità enorme di acqua che è stata sottratta ai contadini dell’oasi, provocando l’abbandono delle terre e la fuga verso la città. Il concetto e il principio dell’autogestione comunitaria dell’acqua come risorsa gratuita, secondo diritti inalienabili e regole stabilite e rispettate da tutti, hanno lasciato il posto a una gestione organizzata e influenzata dall’amministrazione centrale. In questo modo i sistemi di produzione delle oasi che rappresentavano essi stessi un vero esempio di sovranità alimentare (nella parte steppica si coltivavano cereali e ulivi e si allevavano gli animali, nell’oasi si coltivavano legumi e verdure, “ e si otteneva tutto quello che serviva per un perfetto couscous, piatto principale in Tunisia” ci dice Habib Ayeb) vanno ormai scomparendo e le politiche agricole statali si orientano sempre di più verso le colture intensive, le monoculture e la speculazione. Del resto non è da oggi che tale orientamento ha influenzato l’agricoltura in Tunisia: tutto è cominciato con la liberalizzazione economica del settore agricolo introdotta dai piani di aggiustamento strutturale nel 1988.
Mabrouk Jabri, presidente dell’ Association Formes et Couleurs Oasiennes ci introduce alle attività di questa associazione che si sta concentrando proprio sulla problematica della gestione delle risorse idriche dell’oasi.
“Invece di difendere il sistema tradizionale di drenaggio dell’acqua nelle oasi” ci informa Jabri” si continua a perforare in profondità. Anche dopo la rivoluzione i permessi per la perforazione dipendono dal Ministero dell’Agricoltura, ma nello stesso tempo è aumentato lo sfruttamento illecito della nappa con risultati catastrofici perché, ad un certo punto statico della nappa, l’acqua diventa salata.”
L’associazione si occupa inoltre della valorizzazione dei prodotti dell’oasi : trasformazione dei datteri con i metodi ancestrali e sensibilizzazione degli alunni delle scuole ai problemi dell’ambiente. Jabri ci presenta Amm (zio) Salah, un anziano contadino che coltiva la sua parcella ancora con i metodi tradizionali: palme e melograni ai bordi del terreno, verdure nella parte centrale. Zio Salah produce lui stesso le sementi che gli occorrono e riesce anche a venderne una parte. Entriamo nella sua caverna di Ali Babà dove troviamo ogni sorta di piante e verdure messe a seccare per produrre i semi.
La giornata prosegue con un incontro al porto di Gabes con alcuni rappresentanti del sindacato dei pescatori e Khayreddine Debaya, rappresentante dell’associazione “Stop Pollution”. Ci conducono sul luogo “del delitto”, fra Bouchema e Chatt Essalam.
Ci troviamo in prossimità delle installazioni del Gruppo Chimico Tunisino che ha devastato il golfo di Gabes versando a mare ventimila tonnellate al giorno di rifiuti, anche radioattivi. E’ così che uno dei più importanti vivai di specie marine del Mediterraneo è diventato un vero cimitero.
Ascoltiamo i pescatori lamentarsi dei disturbi respiratori che affliggono la popolazione che vive in prossimità del GCT e delle morti sospette avvenute negli ultimi anni. Alcuni medici, non si sa se al soldo del CGT, emettono solo certificati generici alle persone che si presentano negli ospedali con sintomi di disturbi ai polmoni e agli occhi e quindi nessuno è in grado di sporgere una denuncia presso le autorità giudiziarie. Una volta questi pescatori potevano pescare con una semplice fluka (una piccola barca) senza addentrarsi troppo in lontananza.
Ora chi può acquista un grosso peschereccio ed è costretto a spingersi sempre più lontano, fino a Malta o alla Sicilia, per poter trovare pesce sano. Lasciamo il paesaggio desolante di Chatt Essalam con gli occhi e la gola che bruciano per le esalazioni della fabbrica e il cuore serrato dalle terribili immagini della spiaggia e del mare, con le loro infinite e distruttive sfumature di grigio e marrone. Al termine dell’incontro proiezione del documentario di Habib Ayeb “Gabes Labess” (A Gabes va tutto bene”). Il documentario può essere visionato gratuitamente qui.
Il giorno dopo si va nella regione di Limaoua dove la steppa si estende a perdita d’occhio, ma è ormai sfruttata al massimo da colture intensive. Gli ulivi, ma anche gli alberi da frutto che nella tradizionale coltura estensiva veniva piantati a circa 25 metri uno dall’altro, qui li troviamo a 8 metri di distanza, il che implica un grande consumo d’acqua.
Per capire come si è arrivati a ciò, Habib Ayeb ci spiega che originariamente la terra non era “privata”, anche la steppa rientrava nel sistema oasiano che era gestito secondo uno schema condiviso: la terra in comune, gli ulivi privati e diritto di passaggio per il bestiame. La parte coltivata era di chi la usava in quel momento, successivamente era il turno di un altro contadino. L’acqua veniva utilizzata con turni precisi con una regolazione dei conflitti anche tramite sanzioni. La colonizzazione francese introdusse nel 1896 il sistema catastale e la conseguente privatizzazione delle terre. Le politiche agricole post-coloniali, a cui abbiano accennato in precedenza, hanno fatto il resto. (1)
Per continuare il discorso sulla espropriazione delle terre, in serata il documentario della ricercatrice marocchina Soraya El Kahlaoui, dottoranda in sociologia, “Landless Moroccans” ha rappresentato un momento di grande commozione e partecipazione: la storia delle lotte delle famiglie della tribù di Guich Loudaya (Rabat) all’indomani dell’espulsione dalle terre che da sempre appartenevano loro, trasmesse dagli avi, di generazione in generazione.
Con le donne in prima linea, le famiglie hanno continuato a manifestare per il loro diritto alla terra o almeno ad un alloggio da parte dello Stato, come compensazione all’esproprio che hanno subito (con la forza) e sono rimaste a vivere sotto le tende, ai margini del nuovo quartiere ultramoderno e di lusso che vi è stato costruito.
La giovane sociologa non trattiene le lacrime quando ci racconta come Yassine, tre anni, che appare nel suo film, sia morto recentemente a causa delle difficili condizioni di vita all’aperto.
Tiriamo il fiato e il giorno dopo attraversiamo la regione di Matmata, un “paesaggio” idraulico nel paese della siccità, come è scritto nel programma della 5° Journée de la Souveranité alimentaire et de l’environnement. Questa area è caratterizzata dell’altopiano del Dahar che scende a picco sulla pianura della Jeffara: ovunque resistono i jessour, piccoli argini di terra che si estendono lungo i canyon e consentono di conservare le acque pluviali, aumentando in questo modo l’umidità del terreno. Questo sistema ancestrale permette la coltivazione dei cerali e del foraggio, ma anche dell’ulivo, dei fichi e delle palme da dattero. Fin da piccolo ogni abitante sa che non deve spostare nessuna pietra perché essa delimita la proprietà…dell’acqua!
Proseguendo verso Medenine e dopo aver ammirato dall’alto di un belvedere il villaggio berbero di Toujane,
arriviamo a Demmer dove Habib Ayeb ci dice regni praticamente una sapiente anarchia: lo Stato non esiste e neanche il catasto delle terre, tutto è gestito dalla tribù con le leggi ancestrali. Le culture sono esclusivamente estensive e alla fine della primavera già si possono mangiare i primi meloni.
Le case venivano scavate sotto terra per proteggersi dall’elevata temperatura in estate (si arriva anche a 50 gradi) e dal freddo in inverno. Ogni attività economica è rimasta locale.
Poi approdo a Ksar Joumaa, villaggio berbero ricostruito, una volta patrimonio comune delle famiglie del luogo, poi diventato “privato” tramite la corruzione all’epoca di Ben Alì e così rimasto. Tuttavia, esso rimane un esempio di come le popolazioni berbere, in fuga dall’avanzata degli Arabi, si rifugiassero sulle montagne e riuscissero a stoccare enormi quantità di derrate alimentari che rivendevano anche ai carovanieri provenienti dalle regioni subsahariane.
Domenica 30 settembre, prima di rientrare a Tunisi, ci si riunisce per dare le proprie valutazioni su queste cinque, intensissime giornate.
Tutti e tutte, pur rilevando alcune lacune minori nell’organizzazione, abbiamo appreso moltissimo, ma soprattutto avremo molto da riflettere per come proporre un nuovo modello di sviluppo e di difesa dell’ambiente e del territorio, salvaguardando esperienza e savoir faire delle popolazioni locali. Del resto è anche questo uno degli obiettivi de l’Observatoire de la Souveranité alimentaire e de l’Envirronnement. In attesa delle giornate della sovranità alimentare e dell’ambiente 2019!
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