Gustavo Esteva lo ricordava nei giorni scorsi citando il grande poeta spagnolo Antonio Machado: per poter dialogare bisogna prima ascoltare, e poi ascoltare ancora. Le ragioni sono diverse e tutte di grande rilevanza ma è in primo luogo per questo che pensiamo sia importante sostenere Women in between, un progetto multimediale bello e appassionante che il collettivo Maboula ha lanciato in questi giorni. Si propone di incrociare gli sguardi, le voci e i percorsi di donne che vivono nei paesi toccati dal Mediterraneo. Al centro c’è l’amore, guardato da ogni angolazione, anche quando diventa lacerante, quando incontra la violenza oppure viene avvolto dalla mistificazione e dalla vergogna. Francesca Oggiano, fotografa italiana migrante a Tunisi, lo racconta in questa ampia intervista con Patrizia Mancini di Tunisia in Red, che da tempo cura le nostre corripondenze da un paese che al circo mediatico interessa solo se subisce attentati e che invece custodisce giovani resistenze, complessità, speranze e piccole straordinarie esperienze come quella di Twiza
di Patrizia Mancini
Women in between è un progetto multimediale del collettivo Maboula che in questi giorni ha lanciato un’operazione di crowdfunding. Servirà a completare il lavoro e per continuare a viaggiare nell’area mediterranea all’ascolto delle voci di donne “in mezzo”, fra amore, onore e vergogna, come recita il titolo del video lanciato in rete in questi giorni.
Ma dietro il progetto ci sono giovani, per lo più donne, di varie nazionalità e un paese, la Tunisia, dove spesso si sono incrociati gli sguardi e i percorsi che hanno dato vita al collettivo Maboula e ad altre realtà come Twiza, il centro artistico e culturale installatosi al centro della Medina.
Di questo progetto e di altro, noi di Tunisia in Red abbiamo parlato con Francesca Oggiano che, insieme alla videomaker greca Jeorgia Tsismetzoglou, ha fondato il collettivo Maboula nel 2014 in Italia.
Francesca, romana, fotografa freelance, vive a Tunisi dal 2013 nel quartiere popolare di Bab El Khadra.
Quando e perché sei venuta in Tunisia?
Ero già venuta nel marzo 2011, dopo il termine del sit-in della Kasbah 2, in pieno clima rivoluzionario. All’effervescenza delle manifestazioni sull’avenue Bourghiba, si univa l’incredibile voglia di riprendersi la parola da parte del popolo tunisino, ma vi erano ancora i partigiani dell’ex dittatore Ben Alì che attaccavano i cortei. Nel febbraio 2013 sono ritornata, anche per rinfrescare la conoscenza della lingua araba che avevo scoperto nel 2006 durante il mio soggiorno in Palestina. La vita professionale in Italia non mi aveva permesso di praticarla. Essendo arrivata durante la settimana successiva all’assassinio di Choukri Belaid, mi sono trovata di fronte un paese cambiato, impaurito, con il terrore di reagire di fronte a quello che era il primo omicidio politico, qualcosa di cui non si aveva esperienza, a differenza dell’Italia che, purtroppo, è passata attraverso la stagione degli anni di piombo e tuttora convive con la mafia. Ho cominciato a seguire la cronaca e ho elaborato un portfolio fotografico sulle manifestazioni e gli avvenimenti. In particolare ho seguito tutto il sit-in del Bardo, ho vissuto in prima persona il furto da parte dei partiti di quel movimento che era inizialmente era composto solo dalla società civile. E tuttora questo è il mio lavoro.
Poi è venuta l’esperienza di Twiza …
Le attività di Twiza sono partite nel maggio 2014. Alla base del progetto vi era l’idea di allestire uno spazio aperto dove si facesse cultura, una cultura accessibile a tutti/e, e di riunire tutte le persone straniere che vivevano a Tunisi (e naturalmente anche i tunisini) in un collettivo. Ad esempio, corsi di lingua italiana e attività con i bambini del quartiere. Infatti non abbiamo aperto il centro a La Marsa, o in un altro quartiere dove vivono persone che si possono permettere di pagarsi i corsi di lingua dove vogliono, ma a Bab Jadid, nella Medina. Bab Jadid è un quartiere difficile, molto chiuso e dove è molto alta la percentuale di abbandono scolare. Inoltre è un luogo dove si assiste sovente, di sera, a risse e atti di violenza per strada, dove c’è tanta disoccupazione e si spaccia il “fumo” per sbarcare il lunario. Ci siamo rimboccate le maniche affrontando molti problemi, innanzitutto quello dei fondi: abbiamo lanciato due crowdfunding, uno all’inizio per equipaggiare lo spazio, in maniera da poter avviare i corsi di lingua (lavagna, banchi, sedie, ecc.) e altre attività, il secondo è recente ed è servito a finanziare il Lamat Al Medina Film Festival che è in corso di svolgimento.
Di che si tratta?
Abbiamo chiesto a videomakers sia tunisini che di altre nazionalità di partecipare a una competizione: ognuno di loro, in 5 giorni, deve trovare delle storie e girare il suo video esclusivamente all’interno della Medina. Alla competizione si sono iscritti dodici videomakers, tra cui un italiano che è venuto da Bergamo. Hanno cominciato a girare il 9 novembre e i video devono essere consegnati venerdì 13 novembre entro le 19, non devono durare più di 10 minuti e avere i sottotitoli in inglese o francese perché siano fruibili anche da un pubblico non arabofono. Il sabato ci sarà la proiezione pubblica di tutti i lavori e domenica la premiazione. Nella giuria ci saranno, fra gli altri, due registi dell’associazione FTCA di Kelibia, che si occupa di cinema e ci ha aiutato nell’organizzazione dell’evento e Saber del collettivo Twiza. I vincitori saranno due, al primo andranno 1500 dinari, il secondo, che verrà premiato dal pubblico, riceverà 500 dinari. Noi ci auguriamo che questa sia la prima edizione di un festival che potrà ripetersi regolarmente.
Torniamo a Women in between, il progetto a cui pensi e lavori da molto tempo.
Io e Jeorgia ne abbiamo discusso per tre anni, l’idea è quella di un file rouge che leghi, attraverso le storie, le esperienze di donne del Mediterraneo a proposito dell’amore. Una narrazione che metta in luce quelle costanti delle esperienze femminili che riescono a metterci tutte sullo stesso piano, al di là delle differenze culturali, sociali o economiche. Amore inteso, però, in tutte le sue possibile sfaccettature, comprese le più negative come la violenza o la vergogna. Ti faccio alcuni esempi: l’amore lesbico che in buona parte dei nostri paesi è ancora un tabù, oppure il rapporto madre-figlia in cui spesso le scelte di quest’ultima creano dolorose lacerazioni. E poi le difficoltà delle madri nubili che, con diverse sfumature, accomunano le esperienza femminili in tutto il bacino mediterraneo.
Avete incontrato madri nubili in Tunisia?
Sì, abbiamo girato un primo trailer su una storia a El Kef, la storia di Chiraz che ha incontrato un uomo che le ha fatto continue promesse, lasciandola poi con due bambini, uno di un anno e mezzo e l’altro di 6 mesi. Vivere al Kef non è semplice dato che è un ambiente rurale, fra le montagne, in cui certamente le madri single non sono accettate. Infatti la famiglia di Chiraz l’ha ripudiata. Ma lei ha trovato delle amiche in un quartiere del Kef che si chiama Chrichi, in cui vivono le donne che vengono dalle campagne nella città di El Kef per trovare più opportunità di lavoro. Si tratta in gran parte di donne che hanno storie di vita sofferte, fughe d’amore oppure ribellioni contro matrimoni imposti e che hanno formato una loro comunità fondata sulla solidarietà al femminile: i loro bambini crescono insieme e loro dormono tutte insieme. Chiraz, come molte altre, lavora saltuariamente, nei mesi estivi. soprattutto nelle pizzerie.
Quindi avete già raccolto delle storie qui in Tunisia?
Sì, in questi tre anni siamo entrati in contatto con il Cospe Italia che ha molti progetti in corso in Tunisia, specialmente fuori dalla capitale, in regioni come Jendouba e Kasserine, quest’ultima diventata tristemente celebre per gli scontri armati con i terroristi su monte Chambi. A Jendouba è stata aperta una casa delle donne, uno spazio polivalente che è allo stesso tempo luogo d’incontro per le donne, ma dove c’è anche una cucina e le donne si autofinanziano con una attività di catering. A Kasserine invece si sta lavorando con le ostetriche, les “sages femmes”, che nella zona rappresentano, per le tante donne che vivono nelle zone isolate delle campagne, l’unico rapporto con la problematica sessuale e ginecologica, data la lontananza delle strutture ospedaliere. In mancanza di medici specialisti, si consulta la sage femme per conoscere i metodi anticoncezionali. Il Cospe in questo momento sta facendo formazione a queste ostetriche di Kasserine attraverso l’Organizzazione Mondiale della Sanità, aggiornandole sugli ultimi metodi per prevenire gravidanze indesiderate. In questo modo la sage femme sarà in grado, a seconda del quadro clinico della donna, di consigliarle il metodo migliore.
In Tunisia come si presenta la situazione per quanto riguarda mezzi anticoncezionali e aborto?
Qui si ricorre all’aborto come “metodo anticoncezionale” perché non vi è educazione alla prevenzione. Ho conosciuto donne a Tunisi che hanno fatto anche tre aborti in un anno. Ciò è paradossale se si pensa che la pillola del giorno dopo si può comprare direttamente in farmacia senza ricetta medica e la RU486 (pillola abortiva) è stata introdotta da moltissimo tempo, perché è meno invasiva rispetto all’aborto e costi di degenza ospedaliera più ridotti. Ma mancano ancora strumenti efficaci per la divulgazione di questi mezzi di contraccezione. In Italia il dibattito sull’utilizzo della Ru486 è iniziato solo da 10 anni e il suo utilizzo è relegato a quelle regioni italiane che hanno fatto una scelta autonoma, nel Lazio ancora non è disponibile, mentre la Toscana è stata fra le prime a distribuirla. Il confronto fra la Tunisia e l’Italia, da questo punto di vista, è paradigmatico per quello che concerne una serie di pregiudizi che si hanno nei confronti dei paesi dell’altra sponda del Mediterraneo.
Quali storie pensi di andare a cercare in altri paesi?
La prima cosa che mi viene in mente per l’Italia, ad esempio, sono le storie di violenza, a fronte delle terribili statistiche che tutti i giorni possiamo leggere sui giornali. Oppure i diritti lesi: in Marocco ancora le donne non hanno diritto ad abortire, in Spagna recentemente il governo di Rajoy ha tentato di cancellare la legge sull’aborto, mentre in Italia, pur essendoci una buona legge come la 194, la sua applicazione viene spesso vanificata dalla presenza massiccia di medici obiettori di coscienza negli ospedali pubblici. Il progetto vuole mettere in risalto proprio queste contraddizioni, cioè il fatto che si guarda spesso ai paesi del Nord Africa per confrontare la propria civiltà, la propria superiorità, quando invece, in molti casi, si tratta di realtà più simili di quanto si creda. Da noi le contraddizioni sono nascoste da un’apparenza di normalità e ordine. E’ vero che dal punto di vista dei diritti umani e delle donne, almeno sulla carta, siamo più avanzati, ma poi le falle del sistema rivelano storie di vita che dipanano quel file rouge di cui parlavo prima che unisce le donne in tutta l’area mediterranea.
In Grecia ho trascorso un mese durante il quale abbiamo incontrato diverse associazioni come Generazione 2.0, formata da giovani nati in Grecia da genitori immigrati che lottano per i loro diritti e naturalmente ci siamo imbattute nei profughi e nelle innumerevoli storie di donne in fuga dalle guerre e dalla repressione, insieme ai loro figli. Le donne migranti, qualunque sia il motivo della loro partenza, sono molto più vulnerabili degli uomini perciò ci interessa questo tipo di narrazione al femminile che ci sembra trascurata.
Ad Atene l’associazione Praxis ha aperto delle case per le donne migranti che in maggior parte sono nigeriane o subsahariane che spesso finiscono nei giri di prostituzione che in Grecia sono gestiti da russi. Le giovani nigeriane dell’associazione Generazione 2.0, dato che parlano la lingua di origine, riescono ad avvicinare le ragazze cadute nella rete di trafficking per cercare di recuperarle.
Quante persone lavorano al progetto?
Io mi occupo della fotografia, Jeorjia Tsismetzoglou dei video, poi ci sono il web developper Christian Bettini e la grafica catalana Ester Viñales. Infine, Vassilys Chrissos si occupa della campagna web e della Ushaidi Map. Questa mappa interattiva, continuamente aggiornata, individua tutte le associazioni che si occupano dei diritti delle donne nella zona mediterranea. La mappa è consultabile online e può essere aggiornata da chiunque voglia aggiungervi i riferimenti a nuove associazioni. Serve a far conoscere tra le loro le varie associazioni affinché cooperino e integrino le loro conoscenze e i loro interventi, ma allo stesso tempo può essere utile per le donne stesse, ad esempio una donna vittima di violenza, consultando la mappa, può individuare l’associazione più vicina a cui chiedere supporto. Si tratta della stessa formula che è stata usata a Il Cairo: in quel caso si trattava di mappare i luoghi dove più frequentemente avvenivano aggressioni alle donne in strada, divenendo una specie di mappa di sopravvivenza per le donne che si informavano sui luoghi dove era meglio non passare. In Grecia, invece, è stata usata durante l’escalation di violenza da parte di Alba Dorata: i militanti aggrediti inserivano data, luogo e orario delle aggressioni dei fascisti. La nostra mappa Ushaidi è al cuore stesso del progetto, qualcosa che resterà e sarà utilizzabile per sempre.
La campagna di crowdfundig per Women in Between…
È ancora in corso tramite la piattaforma libanese Zoomal, durerà fino al 30 novembre 2015. E’ possibile versare il proprio contributo anche offline, cioè chi non ha un conto corrente bancario o una carta di credito potrà ugualmente contribuire. Bisognerà inserire il proprio numero di carta di identità e poi indicare a chi si consegna la somma: chi vive a Tunisi, ad esempio, scriverà che da la somma a me e così via. Finora abbiamo raccolto circa 3,000 dollari i quali vengono raddoppiati tramite il meccanismo dell’accelerateur, quindi abbiamo raggiunto il primo milestone di 6000 dollari che ci permetteranno di fare una buona pagina web, e di lavorare per tre mesi alla raccolta delle storie qui in Tunisia. L’obiettivo finale dei 18.000 dollari certamente sarebbe il massimo per realizzare tutta una serie di piccoli progetti, come la realizzazione di video di animazione per illustrare la violenza domestica. In questo senso abbiamo già contattato la disegnatrice Nadia Khiari, più conosciuta con lo pseudonimo Willis from Tunis. Il progetto, che sarà assolutamente Creative Commons, potrà essere utilizzato dalle associazioni sia nelle scuole che nella campagne contro la violenza sulle donne. Il materiale che raccogliamo sarà messo online a disposizione di tutti/e per qualunque tipo di attività dalle mostre fotografiche alle rassegne di video, ma soprattutto, ripeto, puntiamo a fornire strumenti per campagne di sensibilizzazione per i diritti delle donne perché ancora nel 2015, solo perché siamo donne, continuiamo a subire atti di violenza sia fisica che psicologica, in ogni parte del mondo.
Mi piace concludere con la frase di una donna di Kasserine: “Non dite di me che sono una vittima, io sono una sopravvissuta”. In questa definizione c’è tutta la speranza e la voglia di reagire che ho scoperto nei mie viaggi alla scoperta di storie femminili.
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Potete contribuire al progetto Women in between da questo link:
http://www.zoomaal.com/projects/womeninbetween/49287?ref=43393139
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