Un’altra conferenza sul clima fallisce tra egoismi e incapacità diplomatica, promesse vuote e speranze (per chi ne aveva) fatte a brandelli da una real politik che alla fine trionfa tutte le volte. Non dobbiamo più affidarci alla diplomazia dei governi: nella migliore delle ipotesi, loro riusciranno ad ammettere che la catastrofe di cui sono ampiamente responsabili è già in atto. È invece tempo di prendere noi la parola e cambiare l’agenda. Prima che sia troppo tardi
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E così la COP26, con 24 ore di ritardo e tra le lacrime del presidente Alok Sharma, si è chiusa sabato pomeriggio con un accordo. È un accordo difficile, che scontenta quasi tutti. Scontenta i paesi ricchi perché l’India (sostenuta dalla Cina) ha fatto un blitz nella plenaria finale, proponendo una modifica dell’ultimo secondo, in cui i riferimenti alla messa al bando del carbone (già indeboliti nella seconda e poi nella terza bozza) sono stati definitivamente svuotati (da “phase out” a “phasedown”). E scontenta anche i paesi “in via di sviluppo” del G77, perché ancora una volta l’Occidente si è messo di traverso alla creazione di un fondo per riparare le perdite e i danni che i più esposti subiscono a causa della crisi climatica. Il gruppo africano dentro il G77, mentre minacciava di far saltare l’accordo finale, ha dovuto cedere alle preghiere dell’AOSIS, l’alleanza dei piccoli stati insulari a rischio di sommersione, che ha spinto gli altri membri del G77 ad adottare una linea meno intransigente.
Le piccole isole volevano almeno tenersi stretta la promessa, nel documento finale, che si sarebbe continuato a lavorare per evitare un riscaldamento globale superiore a 1,5 °C entro fine secolo rispetto al 1850, con l’aggiunta di un’esortazione all’aumento dei finanziamenti per mitigazione e adattamento.
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Il rischio di tornare a casa senza assolutamente niente era alto, e non erano disposti a correrlo. Se ne riparlerà l’anno prossimo in Egitto, ma nella storia di questo paragrafo mancante sui fondi per le perdite e i danni rimarrà il comportamento ipocrita del vice presidente della Commissione UE. Frans Timmermans in plenaria ha mostrato dallo smartphone la foto della nipotina, salvo poi chiedere agli stati più poveri – nelle segrete stanze del negoziato – di eliminare dai testi il riferimento ai fondi dovuti da quelli industrializzati per le responsabilità storiche nella crisi climatica.
I punti considerati “positivi” del “patto di Glasgow” prevedono un invito (sì, un invito, non un obbligo) ai governi di tornare il prossimo anno con piani più ambiziosi al 2030 per ridurre le emissioni che provocano il riscaldamento del pianeta e una sollecitazione (sì, una sollecitazione, non un obbligo) per le nazioni ricche ad “almeno raddoppiare” entro il 2025 i finanziamenti che servono a proteggere le nazioni più vulnerabili dai pericoli di un pianeta più caldo (adattamento). Tra mitigazione e adattamento, questi fondi dovevano ammontare ad almeno 100 miliardi di dollari l’anno a partire dal 2020: quasi due anni dopo l’entrata in vigore, non sono stati raccolti nemmeno i primi 100. Aggiungiamo che, finora, la maggior parte dei pochi progetti approvati dalle Nazioni Unite per trasferire questi aiuti si basa su prestiti e non su donazioni, aumentando così il debito dei paesi più impoveriti e climaticamente invivibili. Ad oggi, ancora molti paesi “in via di sviluppo” sono affogati dal debito e privi dei fondi di cui hanno bisogno per costruire sistemi energetici puliti e far fronte a disastri meteorologici sempre più estremi.
Tuttavia la taccagneria dei paesi ricchi, che cercano di ottenere profitto e posizioni geopolitiche anche tramite i finanziamenti climatici, comincia a ritorcerglisi contro, perché i poteri emergenti, come Cina e India, hanno respinto le richieste europee e statunitensi di mettere al bando il carbone e le fonti fossili. Il presidente USA e i leader europei hanno insistito sul fatto che paesi come l’India, l’Indonesia e il Sudafrica devono accelerare il loro allontanamento dall’energia a carbone e da altri combustibili fossili. Ma quei paesi ribattono che non hanno le risorse finanziarie per farlo perché i paesi ricchi sono stati avari di aiuti. Uno stallo che ben conosciamo e che va avanti da vent’anni.
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Tra i due proverbiali vasi di ferro, il vaso di coccio sono ancora una volta i paesi più impoveriti e le comunità isolane, che cercano alleanze dall’una e dall’altra parte per ottenere sia i fondi necessari per contrastare la crisi climatica, sia la fine dei combustibili fossili. Tra quelli con il bicchiere mezzo pieno e quelli con il bicchiere mezzo vuoto, loro sono quelli senza bicchiere, da una vita.
Questo dimostra che la COP è uno spazio in cui le minoranze e le fragilità non sono messe al centro, mentre l’intero negoziato dovrebbe essere costruito proprio sui loro bisogni e necessità, perché le loro istanze sono più vicine al concetto di giustizia climatica come inteso dalla società civile e dai movimenti sociali. Invece, ancora una volta, sono le potenze economiche a orientare la discussione intorno alle proprie priorità. E in questo quadro è ormai evidente l’emergere della Cina e dell’India rispetto al blocco occidentale UE-USA.
Tutto ciò, al momento significa un aumento di temperature a fine secolo di 2,4-2,7 °C rispetto al periodo preindustriale, con un aumento delle emissioni del 14% nel 2030 rispetto al 2010. Chi parla di Glasgow come di un successo solo perché il documento finale riafferma l’impegno a tagliare i gas serra del 45% in questo decennio (sempre in relazione ai livelli 2010), dovrebbe tenere conto di questo semplice dato di realtà. Un dato che ci racconta come la transizione non sarà una trasformazione rapida e felice: il fallimento di questa COP ci mostra che sarà invece lenta e cronica, e che probabilmente arriverà a compimento quando il pianeta sarà ormai surriscaldato, i ghiacci polari fusi e il livello del mare salito a dismisura. Avremo il solare e l’eolico ma non avremo rimosso le diseguaglianze, e la via sarà punteggiata di vite spezzate e diritti negati.
Il nostro ruolo di ecologisti e reti della società civile è dunque di aumentare ancora il livello delle nostre azioni e delle nostre denunce, perché come dimostrano le due settimane di Glasgow, nessuno ha davvero a cuore una transizione ecologica equa, profonda, rapida ed efficace. Tocca a noi fare un altro passo avanti.
La TERRA morirà per il “senso di responsabilità( = realpolitik) ” di pochi.
Ottimo articolo; dietro queste indecisioni restano i condizionamenti e gli interessi delle lobby dell’energia fossile.