Sul caso di Dylann si schierano i due fronti: chi invoca la pena di morte e di chi vi si oppone. È una battaglia inevitabile per quanto datata. Ma un passo in avanti sarebbe possibile se si aprisse una riflessione collettiva sul senso della pena
di Mario Spada
La strage di Charleston ad opera di un giovane bianco che somiglia tanto al ragazzo che la mitologia statunitense potrebbe descrivere come “il ragazzo della porta accanto”, “il ragazzo che consegna il latte e i giornali”, ha scatenato prevedibili invocazioni della pena di morte per l’assassino.
Impegnato per anni sul fronte delle periferie e dell’emarginazione sociale sono entrato in contatto con la realtà delle carceri che ha messo me, come chiunque si avvicini a quella realtà, di fronte all’interrogativo ontologico sul senso della pena, e in questo caso, sul senso della pena di morte. La presidente della North Carolina, repubblicana, ha immediatamente dichiarato che l’omicida deve morire, anticipando una sentenza che comunque spetta ai giudici. Una potente lobby delle armi ha rovesciato la logica dell’evento dichiarando che la colpa è del reverendo ucciso: se avesse autorizzato i fedeli a portare le armi in chiesa almeno otto delle nove vittime sarebbero vive perché l’assassino sarebbe stato freddato dopo il primo colpo di pistola.
Ogni volta che accade un fatto come questo riemerge l’adagio feroce dei gladiatori del Colosseo o del soldato di trincea che partiva all’assalto con la baionetta: “mors tua vita mea”.
La situazione del mondo non aiuta la ragione, esalta gli istinti: crisi geopolitiche, migrazioni bibliche, crisi economiche e nuove povertà, scatenano egoismi, rabbia, frustrazioni che suggeriscono a qualcuno salvifiche soluzioni radicali: per Dylann Roof la soluzione era quella di “scatenare una guerra razziale”, obiettivo non tanto diverso dalla ”guerra santa contro l’Occidente blasfemo” dei due fratelli marocchini responsabili della strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi (leggi anche Siamo i genitori dei tre assassini, ndr).
Nei “Bar Sport” e nelle radio locali si ascoltano tanti improvvisati esperti di calcio che rimproverano gli allenatori di non adottare le loro strategie semplici ed efficaci; in termini simili la bulimia mediatica offre tribune a coloro che ritengono di avere soluzioni semplici e radicali per risolvere le complesse, intricate questioni del mondo. Tant’è.
Ma torniamo ai fatti: il nome dell’omicida è Dylann, nome che evoca altri personaggi come il poeta Dylan Thomas o Bob Dylan. Quest’ultimo si chiamava Zimmermann e sembra che si sia dato il nome d’arte di Dylan in omaggio al poeta. Ebbene, mettiamo il caso che i genitori di Dylann fossero amanti del rock ed avessero dato quel nome al figlio in omaggio a Bob, menestrello di libertà, pacifismo e tolleranza. Sarebbe una sorprendente eterogenesi dei fini e, a dire il vero, la ritengo improbabile, anche per via di quella n in più. Ma è un’ipotesi che prendo in considerazione per entrare un po’ di più nella complessa personalità dell’omicida, dalla quale non si può prescindere quando si esprime un giudizio sulla sua azione. Lo vediamo in una foto con un giaccone che riporta i simboli del suprematismo bianco dell’apartheid del Sudafrica e della Rhodesia. Era disoccupato e divideva una stanza con un amico il quale ha dichiarato che da mesi Dylann stava studiando un’azione eclatante di questo tipo che si sarebbe dovuta concludere con il suo suicidio. Dalle sue ultime dichiarazioni dopo l’arresto apprendiamo che stava per rinunciare alla strage, meditata da mesi, perché le sue vittime, con le quali aveva conversato per un’ora attorno ai temi biblici, si erano rivelate “gentili con lui”.
Le perizie psichiatriche accerteranno se era sano di mente quando ha compiuto la strage. Di sicuro sembra molto confuso, depresso e infelice. Tant’è che voleva concludere la sua azione dimostrativa e “storica” (scatenare la guerra razziale) con il suo suicidio. A questo punto sorge una domanda: ma se voleva la morte per sé coloro che invocano la pena di morte non si candidano a essere esecutori finali del suo progetto nichilista? E perché il suo desiderio di morte, per sé e per gli altri, si è orientato verso la guerra al popolo afro-americano? Un ragazzo bianco di ventuno anni, disoccupato, naviga in quella zona melmosa di precarietà sociale che acutizza la guerra tra poveri e scatena odi razziali, a Charleston come a Londra o a Parigi o nelle periferie delle nostre città. Ma la sua giovane età suggerisce di indagare anche nelle prove dell’affettività e della sessualità: delusione amorosa, impotenza sessuale, omosessualità repressa? La storia ci ha insegnato che non pochi sostenitori del nazismo avevano sublimato i loro complessi di inferiorità aderendo all’ideologia del suprematismo.
Insomma l’enormità dell’evento e l’intenzione stragista/nichilista non può prendere il sopravvento sull’accertamento della personalità quando il tribunale che dovrà giudicarlo dovrà decretare la pena che gli verrà inflitta. I vari tribunali mediatici, che somigliano tanto ai bar sport dove le ricette più semplici sono quelle di più sicuro successo, dovrebbero aiutare a capire prima di emettere sbrigative sentenze di morte. Già alcuni parenti delle vittime, quelli che dovrebbero essere i giudici più severi, si sono espressi con parole di perdono. Loro non vendono armi o non aspirano alla rielezione, come la presidente repubblicana del North Carolina. Sono consapevoli che la condanna a morte dell’assassino non li risarcirà della perdita dei loro cari. E sono consapevoli, più delle istituzioni, che la condanna a morte di Dylann potrebbe essere altra benzina sul fuoco degli odi razziali.
I giornali ci informano che sta in una cella adiacente a quella dove è rinchiuso il poliziotto bianco che ha ucciso un nero sparandogli alle spalle. La comunità nera chiede giustizia, gli assassini dovranno essere condannati. È probabile che alla fine ci sarà un giudizio che commina l’ergastolo al giovane Dylann e trovi attenuanti per il polizotto che dopo qualche anno uscirà dal carcere. Ma per quanto riguarda il destino di Dylann non sarebbe più utile seguire la via indicata dai parenti delle vittime? Volevi morire in un’azione eclatante e non sarà così, dovrai vivere, contro la tua volontà di morte, e capire e far capire al consorzio umano che errori di questo natura non possono avere alcuna giustificazione ideale. Sei perdonato, in parte, dicono i familiari delle vittime, perché il tuo gesto è frutto di una grande confusione mentale, ma per te si apre un percorso di maturazione che dovrà portarti a capire il grande errore commesso.
I parenti delle vittime potrebbero quindi essere i protagonisti di quella “giustizia riparativa” fondata su sofferte e costruttive relazioni umane che dovrebbe soppiantare l’ordinaria “giustizia retributiva”, arida ed impersonale, che commina le pene in base ad elementari calcoli aritmetici.
È prevedibile che sul caso di Dylann si schierino negli Stati uniti i due fronti contrapposti di chi invoca la pena di morte e di chi vi si oppone. Sarà una battaglia inevitabile per quanto datata. Ma un passo in avanti è possibile se si apre una riflessione collettiva sul senso della pena. Un grande contributo può venire dai media che potrebbero abbandonare, almeno su casi delicati come questo, la consuetudine comunicativa fondata sul principio “un albero che cade fa più rumore di cento alberi che crescono”. Dopo aver “urlato” l’enormità dell’evento provino a seguire con attenzione l’evolversi della vicenda cercando di promuovere una riflessione sociale sul senso della pena.
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