La chiusura delle scuole ha reso più pesante alcune disuguaglianze. Quello che invece è meno noto è ciò che sta accadendo, tra inevitabili limiti e contraddizioni, ora: una lotta quotidiana per rintracciare alunne e alunni che si perdono, una riappropriazione dal basso di strumenti tecnologici, la ricerca di orari per poter individualizzare l’insegnamento o incontrarsi per piccoli gruppi, l’avvio di esperimenti da fare in cucina e di ricerche di storia “domestiche” quanto rigorose e perfino, in alcuni casi, la messa in discussione dell’ossessione valutativa. La scuola non può essere come prima. Deve essere meglio di prima
Forse, come scrive Roberto Saviano da New York, “il Covid-19 rischia di stare al capitalismo come la caduta del Muro al comunismo: qui finirà il tempo che abbiamo vissuto, da qui nascerà qualcosa di nuovo”. Forse, tirando per la giacca Slavoj Zikek, (“è più facile vedere la fine del mondo che la fine del capitalismo”), la fine del mondo comincerà con la catastrofe del capitalismo. Una cosa però è certa: ci sono luoghi anche virtuali, in questi giorni, in cui non ci si arrende, ma si combatte casa per casa, video per video, voce per voce, non solo contro il virus ma contro le disuguaglianze che il virus amplifica e contro l’apparato ideologico e culturale che le sottende e le amplifica. Sono luoghi di relazione in cui non esiste confine tra il qui e l’altrove, tra il prima e il dopo, tra il noi e l’io. Sono luoghi in cui tra vecchi e nuovi insegnanti si riaccendono passioni, si riscopre e si rafforza la necessità di “mettere e mettersi in comune”, si trascinano i colleghi più pigri, si intraprendono, anticipando, correggendo o rimodellando gli stimoli istituzionali, ricerche su contenuti, stili e modi del comunicare che la neolingua tecnocratica e aziendalista aveva mortificato o di cui si era appropriata svuotandoli di senso.
Spesso in questa lotta contro il virus si evocano nei media e nelle dichiarazioni politiche scenari di guerra, si fa appello al patriottismo o alla bandiera, si cercano le parole più altisonanti o si elencano gesta eroiche e si assegnano medaglie, ma credo che una metafora più adatta per raccontare ciò che succede attorno al mondo della scuola in questi giorni sia quella di un moto popolare che senza clamore avanza di barricata in barricata, superando ostacoli che anche prima del virus sembravano insormontabili, ostacoli imposti, indotti e perfino introiettati.
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La chiusura delle scuole, come sappiamo, ha reso più pesante la disuguaglianza. Non penso solo a quello che accadeva anche prima in ogni periodo in cui la scuola, quando “riposava”, concedeva una tregua da cui alcuni sarebbero tornati con un diario di viaggio e altri con la noia di giornate passate tra un’immagine sul telefono o il retrobottega di un negozio. Anche in condizioni normali bambine e bambini, come le ragazze e i ragazzi più grandi si portano in classe i vissuti sociali e familiari più diversi e la vita di classe, le esperienze fatte a scuola sono, o ambiscono a essere, un terreno di crescita comune, dove è possibile sperimentare l’antica lezione che ognuno ha bisogno dell’altro per crescere. Ricordo ancora lo sguardo, i pugni stretti e le mascelle serrate con cui una mia alunna entrava in classe, portandosi dietro conflitti etnici epocali, litigi familiari e qualche livido collezionato in un cortile. “Adesso basta, sei nel paese dei balocchi ora…”, le dicevo, ma passò del tempo prima che potessi vederla sorridere della battuta. Ma al tempo del virus “il paese dei balocchi” è chiuso. Certo molte ragazzi e ragazzi potrebbero obiettare che non si erano nemmeno accorti di viverci in quel paese, persi tra interrogazioni, compiti a crocette, prove di verifica e anche un po’ di noia, ma chiedo perdono, sono sicuro molte o molti insegnanti impegnati in questi giorni avranno l’occasione di ragionare molto anche su quel prima che non era propriamente descrivibile come l’età dell’oro.
Al tempo del virus la stessa percezione della crisi è profondamente diversa, perché nell’infanzia e nell’adolescenza è frutto di proprie “letture” e sensibilità ma è al tempo stesso tramandata o filtrata dagli adulti di casa, persone per cui la crisi sanitaria e le restrizioni che impone possono essere ragione di imbarazzo o reale fastidio, ma anche di difficoltà concreta, di disagio profondo, di angoscia, di dolore, di disperazione. E la scuola è chiusa, serrata, sarà l’ultima a riaprire in tutto il mondo. Ma ci sono loro, le ragazze e i ragazzi che la abitano a distanza, ci sono donne e uomini adulti che normalmente insegnano e che sono saliti su quella barricata di cui si parlava.
C’è una consapevolezza diffusa che bisogna costruire un ambiente in cui le storie, i volti, le voci e le lingue di tutte e tutti si incontrino, un campo tutt’altro che neutro dove intraprendere la missione impossibile ma non rinviabile di avvicinare quello che la crisi sanitaria e la devastante crisi sociale che l’accompagna separa.
Per questo ci sono un apprendimento e una riappropriazione dal basso di strumenti tecnologici che prima erano spesso serviti per ridurre, semplificare, spogliare e gerarchizzare. C’è una vera lotta quotidiana per rintracciare alunne e alunni che si perdono o si allontanano. C’è l’urgenza di mantenere quel legame tra i “più bravi” e i meno fortunati, visto che nel lavoro in comune si era scoperto quanto ognuno, aiutante o aiutato, deve all’altro, perché ognuno ha un occhio o una parola speciale che ti fa scoprire il mondo. C’è la necessità, a cui tante e tanti docenti stanno rispondendo, di trovare orari e disponibilità per poter individualizzare l’insegnamento o incontrarsi per piccoli gruppi. C’è la possibilità di inventarsi esperimenti da fare in cucina, o intraprendere ricerche storiche “domestiche” ma rigorose, come suggerisce il maestro Gianluca Gabrielli. C’è un ripensamento della collegialità, spesso subita in funzione di una visione burocratica e organizzativistica dell’insegnare, stavolta come momento necessario per trovare una lingua comune tra diversi. C’è la necessità di trovare una modalità nuova della relazione con i genitori, di cui per anni, spesso con fondamento, si erano temute le “invasioni di campo”. C’è finalmente, finalmente, finalmente, la necessità di ragionare sull’ossessione valutativa/misurativa che ha accompagnato la scuola (in tutto il mondo) in questi ultimi decenni. C’è l’esigenza, senza bisogno di rincorrere l’ultima sparata di un presunto esperto o le conferenze stampa di qualche ministro, di mettere in discussione non solo le modalità del voto e le pagelle di quest’anno (a quelle probabilmente ci penserà il virus) ma il significato intrinseco della valutazione sommativa, il concetto stesso di meritocrazia, la riduzione a numero della complessità dell’apprendimento e della persona che apprende.
Sono questioni in realtà che affioravano, a volte quasi “clandestinamente”, anche prima, ma che la scuola a distanza, nel paradossale ma indispensabile tentativo di colmare le distanze, può arricchire o addirittura ribaltare di senso. E a proposito di valutazione, di emergenza, e della lotta continua con il presente che un numero incalcolabile di insegnanti, educatrici ed educatori stanno conducendo in questi giorni, permettetemi un semplice auspicio. Vorrei che anche le “persone normali”, come a volte noi chiamiamo quelli che della scuola non sanno nulla o hanno solo ricordi sfocati e selezionati dal tempo, potessero assistere a quello a cui ho potuto assistere io attraverso la voce, gli sguardi, le parole che si sovrappongono nello schermo del computer. E scoprire che perfino un momento formale come quello dell’appello, nell’elenco dei nomi, nella voce che si incrina dell’insegnante e in quei “presente!” urlato o sussurrato, ha una dimensione per certi versi epica. “Allora ci siamo tutti!”. Ci sono finalmente tutte e tutti, e dove non sono tutti continueranno a cercarsi.
Non è la guerra, è la scuola pubblica. E a scuola torneranno, ma non sarà come prima. Non può essere come prima. Non deve essere come prima. Deve essere meglio di prima.
Mirco Pieralisi, insegnante
Fabio dice
Bello,
Trovare la descrizione della quotidianita di casa mia dove vivo questo come genitore e come marito di una insegnante.
Allora non siamo soli, siamo umani perche pensiamo e facciamo le stesse cose, crediamo negli stessi valori.
Anche se nessuno ha detto di farle, anche se qualcuno ha provato a proibire di farle, con la disumanità della burocrazia, minacce di sanzioni disciplinari per presunte/possibili violazioni di una privacy che bambini e genitori urlavano di voler superare.
Grazie di averci fatto sentire appartenenti alla razza umana!
Stefania dice
Condivido ogni parola di ciò che ha scritto Mirco.
Spero che davvero questo trauma porti a riconsiderare dalle fondamenta ciò che la scuola era diventata con la complicità o la rassegnazione di troppi docenti, e ciò che invece deve essere, nei valori e nelle pratiche didattiche
Mirca Casella dice
Condivido, come ormai sono solita fare da decenni, il pensiero di Mirco. Un pensiero che porta il seme della democrazia. Anche ora, anche quando torneremo a scuola. Soprattutto allora.