Stralci di un’intervista di Max Rivlin-Nadler al geografo e sociologo David Harvey sui temi del suo ultimo libro «Città ribelli», di prossima pubblicazione in Italia (dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, edizioni Salon). L’articolo è stato scelto e tradotto da Fabrizio Bottini, per essere pubblicato su Eddyburg.
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Il geografo e sociologo David Harvey, docente di antropologia al Graduate Center della City University di New York, ha passato un’intera vita a studiare il modo in cui si organizzano le città. Il suo nuovo libro Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, esamina in profondità gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio pubblico per tutti i cittadini operata dallo sviluppo (…).
Lei parla del “diritto alla città” come di uno slogan vuoto. Cosa intende?
Il diritto alla città può rivendicarlo chiunque. (…) Quando parlo del diritto di ripensare la città più vicina a come la vorremmo, e a cosa invece abbiamo visto qui a New York City negli ultimi 20-30 anni, si tratta di come la vorrebbero i ricchi. Negli anni ’70 pesava molto la famiglia Rockefeller per esempio. Oggi c’è gente come Bloomberg, che sostanzialmente trasforma la città nel modo che più si adatta a sé e ai propri affari. Ma la gran massa della popolazione praticamente non conta nulla in tutto questo. In città c’è quasi un milione di persone che tenta di farcela con diecimila dollari l’anno. E che influenza hanno sul modo in cui si trasforma la città? Nessuna. Il mio interesse principale sulla questione del diritto alla città non è tanto di affermare che esista una specie di diritto etico, ma qualcosa per cui lottare. Il diritto di chi? Per che tipo di città? Penso a quel milione di persone con meno di diecimila dollari l’anno, che dovrebbero pesare almeno tanto quanto l’1% che sta al vertice. (…)
Dagli anni ’80 assistiamo in tutto il mondo all’ondata della privatizzazione di tutto quanto un tempo era pubblico (scuole, ferrovie, acqua). Come ne è stato influenzato il movimento fra i ceti a basso reddito delle città?
In un modo che è una delle domande poste dal libro: Perché non abbiamo fatto nulla? Perché non c’è stato un nostro’68? Perché non ci sono state più proteste, visto l’immenso accrescersi delle diseguaglianze in tante città degli Usa, oltre che de resto del mondo? Oggi stimo cominciando a vederne alcune, di risposte, in Occupy Wall Street, e anche altrove nel mondo segnali più vistosi. In Cile gli studenti occupano le università, come avevamo visto negli anni ’60 contro le diseguaglianze di allora. E non capisco in realtà perché non ce ne siano state di più, di proteste. Credo dipenda dall’incredibile potere del denaro di condizionare gli apparati di repressione. E credo che ci troviamo in una situazione piuttosto pericolosa, perché è possibile che qualunque forma di ribellione possa essere considerate alla stregua del terrorismo, nella scia degli apparati post-11 settembre. Abbiamo visto in casi come la piazza Tahrir Square e altri, con eco anche in Wisconsin l’anno scorso,segnali di resistenza che iniziano ad emergere. C’è qualche parallelo con ciò che avvenne negli anni ‘30. Col crollo del mercato azionario del 1929, le vere proteste poi sono iniziate verso il 1933, ed è emerso un movimento di massa. Potremmo essere ora in quella fase, dato che la depressione, o recessione, chiamiamola come vogliamo, non è certo finita, continuano ad esserci tantissimi disoccupati, gente che perde la casa, i diritti, e si comincia a capire che non si tratta di cosa di un momento. (…)
Perché è tanto importante la Comune di Parigi del 1871 per i movimenti di oggi?
Per due ragioni: la prima è che si tratta di una delle più grandi ribellioni della storia. E di per sé merita studio e discussione. L’altra è che appartiene alle idee che stanno nel pantheon del pensiero di sinistra. Molto interessante che sia Marx e Engels che Lenin o Trotsky tutti considerassero la Comune di Parigi come esempio da cui imparare e in qualche misura seguire, come a Pietroburgo nel 1905 o anche nel corso della Rivoluzione Russa successiva. Si tratta di porsi delle domande e imparare.
In che modo l’urbanizzazione liberista ha distrutto la città in quanto spazio pubblico abitabile, luogo di politica e società?
Senza farci un’immagine romantica di ciò che la città era negli anni ’20 e ’30, si trattava senz’altro di una concentrazione compatta di popolazione, governata da un apparato politico: potere concentrato ed efficace. Col tempo ci siamo dispersi nella suburbanizzazione, abbiamo spalmato la città. (…) Credo che la dispersione della città, la crescita per sobborghi, la costruzione delle gated communities, frammenti la possibilità di un’esistenza politica con qualche coerenza, l’idea di un progetto politico comune. Ci sono tante politiche del tipo Non nel Mio Cortile. Non si vuole abitare vicino a che appare diverso, non si vogliono i migranti, da un punto di vista sociale cambiano le cose. Ho sempre ritenuto che il tipo di soggettività costruito dal suburbio, dalla gated community, sia una soggettività frammentata in cui nessuno coglie il totale come nella città, il tema complessivo dei processi a cui rivolgersi. Si pensa solo al proprio segmento del tutto. Credo che obiettivo della politica sia di ricostruire un corpo di città sulle rovine del processo di capitalizzazione.
Un termine ricorrente delle vicende Occupy Wall Street è la“precarietà” (i lavoratori autonomi o senza contratto regolare). Perché è così importante per un movimento radicale?
Non mi piace troppo il termine “precario”. Da sempre chi lavora alla produzione e riproduzione della città considera la propria situazione non sicura, c’è tanto lavoro temporaneo diverso da quello di fabbrica. Storicamente la sinistra ha guardato al lavoratore della fabbrica coma base della sua politica nei momenti di cambiamento. La stessa sinistra non ha mai pensato che fossero significativi anche coloro che producono e riproducono la vita urbana. Qui entra in campo la Comune di Parigi, perché se osserviamo i suoi protagonisti, non si tratta degli operai di fabbrica. Sono invece artigiani, e i tanti lavoratori precari della Parigi dell’epoca. Oggi, con la scomparsa di tante fabbriche, non c’è più la massa di classe lavoratrice industriale che c’era negli anni ’60 o ‘70. Allora la questione è: che base politica ha la sinistra? Io sostengo che si tratti appunto di chi produce e riproduce la vita urbana. Molti di loro sono precari, si spostano spesso, difficili da organizzare, da sindacalizzare, una popolazione che subisce un continuo ricambio, ma che possiede comunque un enorme potenziale politico. Uso sempre l’esempio del movimento per i diritti dei migranti nel 2006. Furono tantissimi di loro ad astenersi dal lavoro per una giornata, Los Angeles e Chicago restarono del tutto bloccate, dimostrando questa gigantesca forza. Dovremmo pensare a questo segmento di popolazione. Il che non esclude il lavoro organizzato, ma pensiamo che oggi nel settore privato (esclusa la pubblica amministrazione nel suo complesso) siamo al 9% della popolazione. È enorme il lavoro precario. E se troviamo il modo per organizzarlo in qualche modo, di dargli nuovi strumenti di espressione politica, credo sia possibile mobilitarlo con grandiosi risultati sulla vita urbana e le sue relazioni, in città come New York, o Chicago o Los Angeles e tante altre.
Lei afferma che “La rivoluzione del nostri tempi deve essere urbana” Perché la sinistra è tanto refrattaria all’idea?
Credo faccia parte del dibattito sull’interpretazione della Comune di Parigi. Alcuni hanno sostenuto che si trattava di un movimento sociale urbano, e quindi non di un movimento di classe. Un’interpretazione che risale alla sinistra marxista, secondo la quale un movimento rivoluzionario può derivare solo /dagli operai delle fabbriche. Beh, non è che se non ci sono più fabbriche non c’è più la rivoluzione. Sarebbe ridicolo. Io ritengo che si debba guardare al fenomeno della classe urbana. Dopo tutto, è il capitalismo finanziario a costruire oggi la città, coi suoi condomini e uffici. Se vogliamo resistere dobbiamo farlo con una lotta di classe, contro questo potere. (…)
Come è possibile trasformare lo spazio pubblico in qualcosa di più accessibile?
Vediamola in termini semplici: a New York di spazio pubblico ce n’è tanto, ma poco in cui si possa sviluppare una attività collettiva. La democrazia ateniese aveva l’agorà. Ma a New York City dove potremmo andare a cercare un agorà, dove si discute davvero. Ecco di cosa stavano parlando davvero le persone che si riunivano a Zuccotti Park. Costruivano uno spazio per sviluppare dialogo politico. Dobbiamo prendere gli spazi pubblici, che come si scopre pubblici non sono affatto, e trasformarli in un luogo politico, dove prendere decisioni, dove stabilire se è davvero una buona idea costruire ancora, qualche nuovo gruppo di condomini. (…)
Crede che sia in crescita il movimento contro gli aspetti della città liberista?
La cosa che colpisce di più è che se guardiamo a una ipotetica carta mondiale di chi è contro alcuni aspetti di ciò che fa il capitalismo, vediamo una massa di proteste enorme. Ma si tratta di una cosa molto frammentata. Ad esempio, oggi parliamo del debito contratto dagli studenti. Domani potrebbe essere il turno dei pignoramenti, o una protesta perché si chiudono ospedali, o su cosa succede nell’istruzione pubblica. La difficoltà è trovare un modo per collegare il tutto. Ci sono dei tentativi, come The Right to the City Alliance, o Excluded Workers Congress, ciò vuol dire che si riflette su come unirsi, ma siamo ancora alle fasi iniziali. Se funziona, avermo una enorme massa di persone interessate a cambiare il sistema, sin dalle radici, perché oggi non risponde ai bisogni e ai desideri di nessuno.
Occupy Wall Street appare come una convergenza su alcune delle cose di cui ci ha parlato, ma manca ancora qualcuno in grado di unire. Perché la sinistra resiste così tanto all’idea di leadership, di gerarchia?
Credo che a sinistra ci sia sempre stato un problema, un feticismo dell’organizzazione, l’idea che basti a un certo progetto un certo tipo di struttura. Ha funzionato nel progetto comunista, dove si è seguito il modello del centralismo democratico, da cui non ci si allontanava. Aveva dei punti di forza, e altri di debolezza. Oggi vediamo molte componenti della sinistra resistere a qualunque forma di gerarchia. Si ribadisce che tutto debba restare orizzontale, democratico, aperto. Ma in realtà non lo è. (…) Mi ha molto colpito il modello usato a El Alto in Bolivia, in cui si mescolavano strutture orizzontali e verticali, a costruire una forte organizzazione politica. Credo che sia meglio allontanarsi al più presto da certe forme di discussione. Quelle in voga oggi andranno benissimo per piccoli gruppi, che si riuniscono in assemblea. Ma non si può certo riunire in assemblea tutta la popolazione di New York City. E poi pensare alle strutture regionali ecc.. (…)
Alla fine del libro non si hanno molte risposte, ma si indica la necessità di aprire un dialogo per uscire da vistose diseguaglianze e dalle continue crisi del capitalismo. Vede segnali del genere in Occupy?
È possibile. Se il movimento sindacale si sposta verso forme di organizzazione più territoriali, non solo basate sui luoghi di lavoro, allora l’alleanza coi movimenti sociali urbani sarà molto più forte. La cosa interessante è che questo genere di collaborazioni ha una storia di successi. Credo sia possibile piantare un seme, e innescare una grande trasformazione. (…)
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