Di fronte all’escalation dell’avanzata politica dell’estrema destra, di quella territoriale delle colonie e della violenza del regime israeliano di Apartheid, noi Palestinesi non possiamo più permetterci di restare divisi. Unità non vuol dire essere gli uni copia dell’altro, abbiamo bisogno delle nostre diversità per tradurle in potenza e non in debolezza. In questa ampia intervista di Pasquale Liguori, illustrata dalle sue splendide foto, Jamal Zakout – uno dei leader della prima Intifada, scrittore e presidente di un importante centro di studi e ricerche politiche a Ramallah – analizza in profondità le ragioni e le complicità che segnano la continuità e la ferocia dell’aggressione israeliana sul suo popolo. Il punto di vista che esprime, tuttavia, non è affatto reticente sulle debolezze politiche e i gravi errori storici che la classe politica palestinese ha compiuto per decenni, e continua a compiere, convinta, nella migliore delle ipotesi, che la perenne subalternità alla potenza occupante e ai suoi alleati e protettori avrebbe portato a una riduzione delle violenze e a un allargamento dei diritti. D’altra parte, l’alternativa politica prospettata da Hamas, con l’accusa di tradimento e la resistenza fino al martirio, non ha mai prodotto risultati migliori. Entrambe le strategie, dice Zakout, hanno marginalizzato la profondità della prima Intifada, il movimento e il potere popolare palestinese, cioè la base collettiva per la costruzione di un futuro. Oggi più che mai, il primo passo è quello di una vera ricostruzione dell’unità di popolo, finalmente libera da interessi di fazione, logiche politiciste di potere e corruzione, ma serve un radicale e profondo cambiamento di rotta e cultura politica
Ho conosciuto Jamal Zakout nel corso di un recente viaggio politico in Cisgiordania organizzato da Assopace Palestina presieduta da Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento Europeo.
Jamal è stato uno dei leader della prima Intifada. Uomo politico e scrittore, è presidente del Centro Studi e Ricerche politologiche ARD in Ramallah. Zakout ha ricoperto il ruolo di consigliere senior dell’ex primo ministro palestinese Fayyad ed è stato protagonista in vari organismi del panorama politico palestinese.
A Beit Sahour, nelle vicinanze di Betlemme, dove per la prima volta ci siamo incontrati, non c’è stata la possibilità di un colloquio più approfondito che decidemmo perciò di rinviare a un momento successivo.
La gravità dei fatti di questi giorni nei Territori Occupati con il massacro di dieci palestinesi a Jenin a opera dell’esercito israeliano seguito poi, a poco più di ventiquattr’ore, dall’uccisione di sette israeliani in un insediamento coloniale ebraico nei pressi di Gerusalemme, ha anticipato i tempi di quella conversazione all’indomani di questi ultimi fatti di sangue.
Non possiamo non partire dall’attualità.
A Jenin c’è stata una vera e propria mattanza di palestinesi e, per attuarla, l’esercito israeliano si è introdotto illecitamente in zona A* cisgiordana. Nei media occidentali non si fa menzione di un massacro seguito a palesi violazioni, viene piuttosto documentata un’operazione di polizia contro terroristi in procinto di commettere attentati. Si tratta degli stessi media che per lo più tacciono sulle demolizioni quotidiane di case palestinesi, sulle violenze perpetrate dai coloni, sugli arresti anche a carico di bambini, sui crimini di ogni genere e gravità conseguenti alla legge marziale vigente nei Territori Occupati: ogni giorno vengono ammazzati uno o più palestinesi e si contano ormai già oltre trenta morti dall’inizio del 2023, dopo che il 2022 è stato già uno degli anni più cruenti di sempre.
In un clima già così incandescente, è avvenuto il grave attentato di Gerusalemme a opera di un giovane palestinese che ha subito generato in tutto il territorio palestinese una raffica di atti repressivi e intimidatori da parte non soltanto del governo presieduto da Netanyahu ma anche di gruppi di coloni ebrei.
I leader mondiali, a partire da Biden, non hanno fatto mancare solidarietà e supporto al governo israeliano per i gravi accadimenti di Gerusalemme. Sono gli stessi leader in larga misura silenziosi sui fatti di Jenin.
Siamo di fronte a una svolta peggiorativa delle tensioni? Cosa è immaginabile prefigurarsi in una situazione così critica, così sproporzionata per i mezzi a disposizione delle parti che si fronteggiano e così complicata dal punto di vista politico?
Quella a cui stiamo assistendo è solo in parte definibile come escalation: non credo che siamo al cospetto di un vero e proprio piano specifico e formale di aggressione di Israele nei confronti dei palestinesi. Almeno, non nel caso di Jenin, né per quanto avvenuto in questi giorni in altre località. Penso che si tratti piuttosto di quel circolo vizioso di violenza che di tanto in tanto esplode. La causa è sempre l’occupazione dei Territori e il continuo negare ai palestinesi il loro diritto all’autodeterminazione. Negazione questa che si unisce all’aggressione da parte di Israele con il coinvolgimento di esercito e coloni, questi ultimi divenuti un corpo armato illegale tutelato da militari e politici israeliani. È questa la radice del conflitto.
Dall’inizio dell’anno sono stati ammazzati già 32 palestinesi ma non posso non ricordare i circa 350 civili palestinesi uccisi nello scorso anno come rilevato da fonti statistiche ufficiali di cui dispongo.
Inizialmente, dagli Stati Uniti sono pervenute parole di condanna per gli attacchi a civili e di monito sia al governo israeliano che all’Autorità Nazionale Palestinese per scongiurare il pericolo di una violenta escalation. Tuttavia, dopo l’attentato avvenuto nell’insediamento di Neve Yaakov a Gerusalemme, le dichiarazioni di Biden e dell’UE mostrano chiaro supporto al governo israeliano. Ciò significa assenso all’operazione militare di rappresaglia che in prospettiva non è difficile immaginare nel suo impatto a danno della popolazione civile palestinese.
Qual è la condizione psicologica del popolo palestinese?
C’è una nazione sotto occupazione. La mancata efficacia del processo di pace ha determinato risultati opposti a quelli invece sperati di intesa, dignità e libertà. I palestinesi della Cisgiordania, oppressi, vivono una vita umiliante con le loro terre e i loro averi confiscati e con risorse vitali progressivamente ridotte. La striscia di Gaza, che rappresenta l’altra porzione di Paese, è sotto assedio da 15 anni. Gerusalemme, poi, è oggetto di piani quotidiani mirati a sequestri ed espropriazioni nei confronti dei palestinesi che lì vivono e abitano da sempre e ai quali viene negata una condizione di civile normalità all’interno del perimetro urbano.
Tutto ciò mentre in Cisgiordania proliferano, illegali e floridi, gli insediamenti coloniali di ebrei nelle terre palestinesi.
Gli accadimenti di cui stiamo parlando ricadono nella piena responsabilità israeliana. Molti leader politici come Bennett prima e adesso Ben Gvir, ma potrei citarne molti altri, non solo non riconoscono tuttora i diritti dei palestinesi ma reputano gli stessi come inesistenti, invisibili, in pratica una presenza ingombrante da estirpare per costruire il futuro coloniale di Israele.
E poi quella la prigione a cielo aperto che è Gaza…
Gaza è sotto assedio da oltre 15 anni, un’area poverissima, con la più elevata densità abitativa al mondo. Asfissiata dalla dura sorveglianza israeliana e illegalmente compressa all’interno di un lembo di terra. Contemporaneamente, la normale vita delle persone e il loro sostentamento è reso difficilissimo con risorse ridotte all’osso: ad esempio, ai pescatori è consentita la pesca per non più di sei mesi all’anno, in uno specchio d’acqua costiero assai delimitato. E questo in aggiunta al fatto che le risorse naturali ed energetiche sono totalmente confiscate da Israele.
Ogni tanto si sente provenire dai Paesi occidentali qualche dichiarazione politica di denuncia riguardante l’emergenza umanitaria a Gaza ma poi gli enormi interessi che li legano a Israele fa cadere nell’oblio qualsiasi concreto provvedimento risolutivo per fronteggiare questa scandalosa situazione. Un quadro ulteriormente complicato dal fallito coinvolgimento amministrativo in quest’area dell’Autorità Palestinese e dalla sostanziale divisione politica tra Gaza controllata dal movimento di Hamas e la Cisgiordania in cui invece è presente l’Autorità sostenuta dal partito Fatah.
In questo contesto, alla fine dello scorso anno, è tornato al potere israeliano il redivivo Netanyahu sul quale pendono indagini giudiziarie per corruzione, frode e altri abusi. Da fine dicembre scorso è alla guida di una compagine di destra, meglio destra estrema, che vede leader sionisti e oltranzisti come Ben Gvir e Smotrich occupare ministeri di rilievo nella gestione della sicurezza e dello “sviluppo” dei Territori Occupati.
L’intero scenario nel suo complesso era già assai deteriorato. Adesso, c’è un fatto nuovo, che poi così nuovo non è: un governo che usa tutte le circostanze possibili per dichiarare che è tempo di smantellare e annientare la parte palestinese.
I coloni, attraverso loro rappresentanti, sono arrivati al governo sostenendo di applicare la giusta politica di uno Stato ebraico proclamando un piano di espansione degli insediamenti in Eretz Yisrael. Ricordiamo che i due ministri Itamar Ben Gvir di Potere Ebreo e Bezalel Smotrich del Partito Religioso Sionista, noti per il loro incitamento all’aggressione colonialista e al ricorso al terrore, sono soggetti messi sotto accusa in passato dalla stessa legge israeliana. In particolare, Ben Gvir era membro del Kach, movimento del sionismo estremista di ispirazione kahanista, a cui aderiva Baruch Goldstein, autore dello sterminio di 29 civili a Hebron nel 1994, e idolo di Ben Gvir. Parliamo di persone in posti di comando determinate ad attivare un processo di annessione dei Territori Occupati Palestinesi. Ebbene, contro la pericolosità e illegalità di tale minaccia, non si è ancora levata un’autorevole, esplicita condanna da parte dei governi del mondo.
Qual è dunque la prospettiva politica emergente da questo scenario?
I comportamenti a cui facevo riferimento non sono soltanto il sintomo dell’esagitazione di leader israeliani ma si inscrivono in un piano quotidiano, non soltanto militare, di progressiva e scientifica riduzione delle condizioni di vita dei palestinesi. A questi vengono tolte case, terre, beni e risorse primarie. Per contro, si procede alla costruzione di nuovi edifici e agglomerati con sconsiderato consumo di suolo, chilometri di muri della segregazione e ripugnanti strade e infrastrutture dell’apartheid vietate ai palestinesi costretti a usare sistemi viari arretrati e a essere sottoposti a continui stop di postazioni militari di controllo disseminate in tutto il territorio della Cisgiordania. Ogni giorno a sud di Hebron si assiste a cospicui sfollamenti di palestinesi. E questo accade non soltanto a Hebron, ma anche a Nablus, nella valle del Giordano, a Gerico, a nord di Gerico. Ovunque!
Di fronte a tale dramma, non c’è reazione significativa. Israele ha le mani libere: incurante delle risoluzioni e delle direttive di diritto internazionale, elimina con tenacia e sistematica progressione ogni possibilità per i palestinesi di vivere in un proprio Stato.
Nel mio viaggio in Palestina, ho potuto constatare l’immagine appannata, l’opacità operativa dell’Autorità Nazionale. Tantissimi palestinesi testimoniano totale mancanza di fiducia verso l’Autorità.
Può analizzare le cause di questo sentimento? Qual è il ruolo dell’Autorità Palestinese?
Ecco il fattore palestinese è una delle ragioni, indirette, di ciò che sta accadendo. Sarò franco: volendo qualificare la condotta dei dirigenti palestinesi, non posso che definirla irresponsabile. In Cisgiordania, l’Autorità emette continue dichiarazioni di condanna contro l’operato israeliano unendole a richieste di intervento internazionale. Si tratta di dichiarazioni quotidiane, ripetitive che non sortiscono alcun effetto sul governo israeliano né godono di credibilità tra gli stessi palestinesi che vivono in prima persona, concretamente, una condizione di puro dolore.
Penso che il divario tra i bisogni pressanti della stragrande maggioranza della popolazione palestinese e la superficialità e arroganza gestionale condotta dall’Autorità in Cisgiordania e da Hamas nella striscia di Gaza costringano i palestinesi a occuparsi in proprio, con le loro mani, della propria difesa. Probabilmente, questo non fermerà l’aggressione di Israele ma almeno è la loro testimonianza di vitalità e volontà tangibile di non soccombere passivamente al futuro promesso da Ben Gvir che esercita pressioni per includerli in un piano di espulsione dalla terra di Palestina.
È quel sentimento che unisce i giovani nell’intraprendere la reazione armata condotta dalle nuove formazioni resistenti come Areen al-Usud (Lions’ Den) che si sono costituite nel nord della Cisgiordania, a Nablus e Jenin?
I giovani palestinesi che si sentono non protetti e isolati nel fronteggiare un futuro così duro cercano di reagire. Sfortunatamente, il mondo li considera terroristi.
Credo sia del tutto indesiderabile la scelta della violenza, ma è bene comprendere che essa si origina in risposta alla sistematica violenza quotidiana perpetrata ai loro danni. È il minimo che loro tentino di fermare la continua aggressione dei militari israeliani contro di essi. Ripeto, è un percorso indesiderabile ma non hanno scelta: avvertono non solo di trovarsi in una situazione di totale insicurezza, ma sono ben consapevoli del fatto che militari e soggetti occupanti godono del pieno appoggio politico e materiale nell’azione che conducono contro la loro stessa vita.
La questione, dunque, del rapporto di forza tra occupante e occupato muta in una questione esistenziale. Come possono questi giovani immaginare di continuare a vivere, costruirsi un futuro a Jenin o nella periferia di Gerusalemme o in qualsiasi altra località dei Territori quando Israele ogni giorno li priva delle risorse necessarie alla loro sussistenza? E molte, troppe volte viene loro tolta la vita.
A tal proposito, si può parlare di nuova Intifada? Se sì, in che rapporto è questa fase di avvenimenti con quelli storici della prima Intifada del 1987 e della seconda del 2000?
L’Intifada è un fenomeno di straordinario significato. Nella storia palestinese, relativamente a quella del 1987, si è trattato di una risposta esplicita di rifiuto dell’occupazione per il raggiungimento della libertà. Non lo dico perché sia stato uno dei promotori e leader del movimento, ma per motivi oggettivi, la prima Intifada fu un evento di importantissimo spessore sociale e politico: ampio, democratico, collettivo, partecipato da persone di ogni condizione sociale, dalle persone attive in affari economici e commerciali che rifiutavano l’iniquo regime di tassazione loro imposto fino a contadini, impiegati, studenti, donne, anziani.
L’Intifada del 2000 ebbe un connotato differente con una prevalente natura militare che andava oltre approcci di tipo popolare o diplomatico e si poneva in frontale contrasto con gli effetti causati dai cosiddetti accordi di Oslo e dal fallimento del processo di pace a Camp David. Si era in un contesto di intollerabile redistribuzione forzata della popolazione nelle varie aree in cui venne suddivisa la Cisgiordania e l’asfissiante presenza di checkpoint territoriali in cui si moltiplicavano le aggressioni militari israeliane con sparatorie.
Oggi, come dicevo, formazioni come Lions’ Den, sono la risposta all’aggressione quotidiana di Israele e, sbagliando o meno, hanno intrapreso la loro autonoma difesa personale.
È una nuova Intifada? Non so se questo fenomeno abbia continuità con le precedenti Intifada. Di primo acchito, mi viene da sottolineare che una vera Intifada per esser tale debba necessariamente fondarsi sull’unità dei palestinesi. Invece, osservo una situazione ancora frammentaria e, in definitiva, ci sono già stati altri, rilevanti episodi di rifiuto negli ultimi otto anni come la cosiddetta Intifada dei coltelli, gli eventi di Sheikh Jarrah, Masafer Yatta, Twani, Bil’in etc.
Ma, se volessi sfidare acutamente me stesso in uno sforzo di identificazione dei fatti, direi sì, quella attuale può definirsi un’Intifada. Ma dal carattere nuovo: quella delle persone depresse, di una nazione politicamente disunita. E, di fatto, rispetto al 1987, le ragioni per un’Intifada sono cento volte ancora più pressanti.
Sì, il clima di regime che si respira a Tel Aviv sembra particolarmente concentrato su questioni interne con la proposta di riforma depotenziante del sistema giudiziario prono al volere politico del nuovo governo e, inutile a dirsi, su una campagna di odio ancora più aggressivo e intollerante nei confronti dei palestinesi.
A Jenin, dieci persone sono state uccise in un giorno. I coloni poi agiscono ormai organizzati e il governo incarica Ben Gvir di istituire una guardia nazionale. Vale a dire, armare i coloni e chiedere loro di uccidere ogni palestinese se dovessero sentirsi in una situazione di pericolo. Il governo israeliano spinge in tal modo il conflitto verso una guerra tra coloni e palestinesi. Andiamo in questa direzione e il mondo deve esserne consapevole.
In tutto ciò, la dirigenza palestinese offre evidenza di totale paralisi. Nella narrativa globale, l’Autorità Palestinese a Ramallah si configura come ente collaborazionista con Israele, mentre Hamas a Gaza rappresenta la fazione terrorista.
Sì, il che fa il paio con gli argomenti preferiti da Israele nella definizione dei palestinesi come corrotti o terroristi. In questo scenario, i palestinesi non sono capaci di amministrare se stessi. Non si riesce a sviluppare un’azione politica determinata per contrastare e porre fine all’occupazione in un tempo ben definito con un reale coordinamento della sicurezza da parte dell’Autorità.
In pratica, ciò che viene attuato oggi è soltanto a supporto della sicurezza degli israeliani nel prevenire ogni proposta dei palestinesi finalizzata alla fine dell’occupazione.
Ho osservato però che in questi giorni Abu Mazen, presidente dell’Autorità, ha interrotto gli accordi di collaborazione sulla sicurezza con Israele. È solo tattica?
In Palestina non piove da tre settimane e siamo nel cuore dell’inverno: non possiamo attenderci la pioggia se non ci sono nuvole. Nel nostro caso, le nuvole sono rappresentate dall’unità palestinese e cioè assumersi responsabilità, prepararsi per nuove elezioni, prendersi cura del proprio popolo. Nuvole non sono di certo quelle decisioni calate dall’alto verso cui si è smarrita la fiducia da parte della gente. Di fronte a una divisione politica e amministrativa tra Gaza e Cisgiordania, si incuneano le propaggini dell’immobilismo internazionale con l’effetto di potenziare l’espansione dello strapotere sionista e l’annichilita possibilità di autodeterminazione del popolo palestinese.
Eppure, non è utopico mettere in pratica condotte differenti. Un’importante esperienza governativa venne introdotta in Palestina con l’amministrazione composta da professionisti esperti e tecnici di varia provenienza culturale e politica, capeggiata dal primo ministro Fayyad: l’Onu, l’Unione Europea apprezzarono la sua capacità gestionale e la trasparenza introdotta nel processo riformatore che conduceva osservando una strategia di stabilità, coesione e autodeterminazione. Del resto, quanto l’instabilità possa determinare crisi viva è testimoniabile anche dagli occidentali con l’impatto nella loro vita quotidiana degli effetti dovuti alla nuova guerra fredda tra Usa e Russia e di quella ucraina con americani e inglesi che stanno spingendo l’Europa in uno stato di debolezza. A Fayyad però non venne consentito di trasformare le riforme in risultati politici e quel disegno unitario e di riforma svanì. Tuttavia, l’unità palestinese resta un fattore chiave e determinante per un percorso di pace e giustizia nella regione e a livello internazionale.
Esiste la possibilità e la volontà di indire nuove elezioni in Palestina che possano chiarire i rapporti di forza e individuare una nuova classe dirigente?
Desidero essere realistico: le elezioni andrebbero indette ma dopo quindici anni di divisione tra Gaza e Cisgiordania, con la scarsa volontà dell’attuale leadership di andare in questa direzione, con l’ostativa interferenza di Israele e la paralisi della comunità internazionale, i palestinesi hanno bisogno di un periodo preparatorio della tornata elettorale. Allo stato delle cose, c’è da domandarsi chi se non un governo di unità nazionale palestinese possa essere investito della costruzione di un percorso democratico, trasparente verso nuove elezioni? Un governo transitorio, in carica uno o due anni, non saprei, ma in grado di accrescere il senso di responsabilità politica dei leader, coinvolgendo tutta la popolazione supportandola con strumenti di resilienza e clima di restituita fiducia verso i propri organi amministrativi. La comunità internazionale dovrebbe usare la sua influenza nei confronti dell’attuale leadership palestinese a intraprendere un simile percorso e allo stesso tempo pressare Israele a non impedire ai palestinesi di indire democratiche elezioni includendo la città di Gerusalemme.
C’è una classe politica con esponenti capaci di coordinarsi e realizzare questa suggestione che viene proposta di unità governativa palestinese in grado di accompagnare il popolo palestinese nel percorso diretto a nuove elezioni?
Certamente, ma sono esponenti neutralizzati dalla polarizzazione delle divisioni politiche palestinesi che non permette loro di organizzarsi. L’attuale classe dirigente controlla tutto: se in Cisgiordania qualcuno critica l’Autorità viene stigmatizzato come colpevolmente affiliato ad Hamas e viceversa.
Invece, si ha bisogno di una fase unitaria governativa che non sia un governo spartitorio Fatah-Hamas che servirebbe soltanto a trasformare le loro divisioni ideologiche in istituzioni divise. È indispensabile un governo di unità con la partecipazione di persone qualificate e non corrotte, non importa se di Hamas o Fatah, ma personalità con esperienza, supporto popolare, non ostacolate dai due partiti e supportate dalla comunità internazionale nel permettere ai palestinesi di raggiungere autonomamente una conformazione unitaria volta alla loro autodeterminazione.
Poniamoci nella condizione che lei prospetta di un miglioramento della stabilità politica palestinese. Si ripresenta poi il crudo confronto con la realtà dell’occupazione israeliana e di una riconsiderazione degli assetti geopolitici. Nella semplificazione talvolta strumentale di una simile complessità, quale ipotesi, a due Stati o un solo Stato, resta in definitiva la più realistica?
Premetto che non trovo per niente produttivo saltare da un obiettivo strategico a un altro solo perché il primo appaia fallito. Se la soluzione a due Stati risulta impossibile perché di fatto non supportata non è poi così automatico che un modello a singolo Stato possa rappresentare una reale soluzione. La cosa è molto più complessa. Mi unii alla piattaforma strategica del Fronte Democratico e dell’OLP dedicata al programma costitutivo di uno Stato palestinese nel contesto dei confini del 1967. Tutto il lavoro era però totalmente inficiato dall’errore strategico compiuto a Oslo dove i palestinesi riconobbero il diritto di Israele a esistere in pace e sicurezza mentre Israele non fece altrettanto: il nostro diritto a uno Stato e all’autodeterminazione non furono riconosciuti.
Israele riconosceva solamente l’OLP come legittimo rappresentante del popolo palestinese. Insomma, tutt’altro che un mutuo riconoscimento, dotando Israele di uno strumento di veto sulla possibilità effettiva e futura di due Stati non avendo formalmente riconosciuto il diritto palestinese a un proprio Stato. Da allora, si è instaurata una sorta di protettorato e, di fatto, legalizzata la sostituzione territoriale dei palestinesi con gli israeliani. Oltretutto, perché la comunità internazionale che sostiene la soluzione a due Stati non si è impegnata a riconoscere lo Stato di Palestina? Ricordo che noi palestinesi sediamo tuttora alle Nazioni Unite come membro osservatore non in quanto Stato.
Il problema è dunque nel comportamento politico palestinese, israeliano e internazionale e nel fallimento evidentissimo del cosiddetto processo di pace. Tutti possono osservare come ogni giorno Israele distrugga la praticabilità di una soluzione a due Stati non venendo nemmeno ritenuto responsabile di ciò e quindi potendo agire indisturbato senza nessuna mossa preventiva.
Di fronte a questo stallo, con l’impedimento posto ai palestinesi di vivere liberi in un proprio Stato, esiste ancora uno spiraglio di confronto percorribile per una concertazione e una via d’uscita?
Dovremmo essere messi in condizione dalla comunità internazionale di attivarci come fattore di pace in qualsiasi scenario futuro sia esso a uno o a due Stati. Non ho preconcetti per un singolo Stato, specie se in un futuro in Israele si formi una diffusa coscienza politica e sociale in cui il carattere sionista risulti minimizzato o sconfitto. Adesso, però, la precondizione di ogni sviluppo permane la fine dell’occupazione dei Territori, quindi l’annullamento del veto sostanziale di Israele all’esistenza di uno Stato palestinese. Fino a quel momento, non possiamo iniziare nessun tipo di negoziato a meno che la comunità internazionale non richieda il ritorno a un tavolo di trattativa solo dopo aver rassicurato la parte palestinese dell’accettazione da parte di Israele circa il diritto dei palestinesi a un proprio Stato e alla loro autodeterminazione.
I negoziati dovrebbero perciò essere dedicati alla discussione sull’organizzazione delle relazioni tra i due Paesi riguardanti sicurezza, economia e non legittimando le violazioni del diritto internazionale prodotte dal colonialismo sionista. L’oggetto del negoziato non dovrebbe quindi indirizzarsi a questioni su come fugare i timori di Israele riguardanti lo smantellamento degli insediamenti in Cisgiordania.
Perché si dovrebbe? Sino a oggi, a nessuno dei profughi palestinesi è stato permesso di ritornare nella propria casa, nella propria terra. Un negoziato tale deve essere, non si tratta di una conferenza per un trattato di pace.
Cambiando angolazione, gli Stati arabi sostengono a parole la Palestina libera. Eppure, la netta sensazione è che i palestinesi restino isolati col peso della loro questione. Quindi, non soltanto dimenticati dall’Occidente, ma anche dallo stesso mondo arabo che invece intraprende intese affaristiche e politiche con Israele promosse nel quadro degli accordi di Abramo sostenuti dall’amministrazione statunitense.
Ci si deve domandare con onestà se le relazioni del mondo arabo con Israele e gli stessi accordi di Abramo non siano frutto della debolezza palestinese. Ecco, penso proprio di sì. Come ho già ribadito, da dieci anni a questa parte l’immagine palestinese nella comunità internazionale è quella che riferisce a corruzione e terrorismo. In particolare, l’Autorità appare un’entità corrotta e che impiega scorrettamente le risorse finanziarie a essa destinate anche agli occhi dei leader arabi. Questo aspetto, che viene strumentalmente sfruttato dai vari leader arabi essi stessi corrotti, si traduce in una minimizzazione del supporto materiale alla causa palestinese.
La mancanza di unità politica, anche qui, è il principale fattore che permette agli arabi di eludere le proprie responsabilità verso la questione palestinese. È una falsa verità? No. È parte della verità? Sì.
Ora io non voglio accusare con pregiudizio gli arabi ma la debolezza politica palestinese è responsabile di non incidere diversamente sull’agenda dei Paesi arabi, attratti dal perseguire gli interessi del business. Dobbiamo massimizzare i nostri sforzi e il nostro lavoro domestico per mettere i leader della regione di fronte alla loro vera responsabilità.
Recentemente, l’Algeria, che ha un approccio piuttosto neutrale verso le varie anime politiche palestinesi, ha organizzato un vertice in cui pur invitando i palestinesi a dialogare su scelte condivise ha dovuto poi rendersi conto di fazioni che hanno soltanto giocato a incolparsi vicendevolmente su tutto.
Dunque, gli Stati arabi sono condizionati: dalla pressione di Israele con cui fanno accordi ed è ostile verso i palestinesi, poi dalle richieste di americani ed europei a sostenere i palestinesi in uno scenario che resti per i loro interessi geopolitici proficuo e vantaggioso e, infine, dal fatto che la leadership palestinese palesa un carattere poco affidabile e serio. Su questo, in quanto palestinesi, possiamo e dobbiamo lavorare autonomamente secondo i principi che prima esponevo per un’urgente inversione di rotta.
Lei ha ricoperto tanti e differenti ruoli ed è testimone di una lunga e complessa storia. Ma, mentre è molto nitido il carattere feroce del colonialismo di insediamento da parte d’Israele e di regime militare e di apartheid che adotta e persegue, vuole indicarci quello che considera l’errore più impattante che sia stato commesso da parte palestinese in tutti questi anni?
La leadership palestinese cercò di sfruttare il cambiamento globale tra la fine degli anni ‘80 e negli anni 90, dopo il collasso dell’ex-Unione Sovietica e l’invasione dell’Iraq, per la costituzione di uno spazio geografico e politico all’interno del nuovo mondo che si andava configurando. L’errore strategico non fu Oslo in quanto tale ma la filosofia che guidò la gestione successiva a Oslo immaginando che un accordo di pace fosse stato concretamente concesso ai palestinesi e che come spontaneo esito di ciò sarebbe nato uno Stato democratico palestinese. Purtroppo, non era stato concesso proprio nulla.
OLP e Autorità avevano creduto che la priorità fosse lo sviluppo dell’accordo tra palestinesi e israeliani perché così si sarebbe ottenuta la creazione dello Stato palestinese. In altre parole, hanno creduto che un buon negoziatore, soddisfacendo il nemico, soddisfacendo la politica degli Stati Uniti, avrebbe portato a casa la conquista dei propri diritti. Un grande errore.
D’altro canto, Hamas considerava traditori i protagonisti del processo contrapponendo alla visione “negoziale” dell’Autorità quella della resistenza armata fino al martirio per la effettiva conquista della libertà.
Entrambe le strategie hanno marginalizzato la profondità della prima Intifada, il movimento nazionale palestinese e il potere popolare palestinese cioè la base collettiva per la costruzione del futuro.
La Nakba del 1948 non può e non deve ripetersi. Siamo sotto occupazione: è un’illusione opporsi coi razzi a una potenza nucleare che dispone di non so quante centinaia di F-16 e F-35 o anche perpetuare con essa rapporti collusi per il privilegio di pochi corrotti.
Noi palestinesi non possiamo permetterci di essere divisi. Unità non vuol dire essere gli uni copia dell’altro, abbiamo bisogno delle nostre diversità per tradurle in potenza e non in debolezza.
*La Cisgiordania è divisa in base agli accordi di Oslo in tre zone sottoposte a diversa giurisdizione. La “zona A” (18% del territorio) è sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. La “zona B” (22% del territorio) è sotto il controllo civile dell’ANP e della sicurezza (militare) israeliana. La “zona C” (60% del territorio) è sotto totale controllo israeliano.
L’intervista che ci ha inviato Pas Liguori, corredata dal suo reportage fotografico, è uscita anche su Dinamopress
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