Ma insomma com’è possibile che a settant’anni da quell’esodo, i nipoti e i pronipoti dei 700 mila palestinesi scacciati nel 1948 aspirino ancora con tanta ostinazione a tornarvi? Ma siamo sicuri che sia così? Con tutto il sangue versato e quello che scorre ancora a fiumi, non sarà giunto il momento di guardare al futuro senza voltarsi indietro e mettere finalmente su quella Nakba, come la chiamano loro, una bella pietra sopra? “Se chiedi a un bambino dell’asilo da dove viene”, racconta Jamila, nata e cresciuta tra i profughi, “lui ti risponderà che è palestinese, non libanese, e ti dirà anche il nome del villaggio d’origine della sua famiglia. Noi viviamo qui con i nostri corpi, ma le nostre menti sono ancora nella nostra terra”. Il giorno della catastrofe dei palestinesi raccontato dal campo libanese dei rifugiati di Chatila. Il bel reportage di Giovanni D’Ambrosio, con le immagini di Raffaello Rossini, aiuta davvero a comprendere, guardandone le radici, perché l’occupazione coloniale israeliana non è riuscita a cancellare la speranza che vive nel cuore di tante persone senza passaporto
testo di Giovanni D’Ambrosio, foto di Raffaello Rossini/ Nena News*
“Benvenuto in Palestina”, mi dice Kamal mentre mi fa strada tra il labirinto di minuscole vie, spesso così strette da lasciar passare solo una persona alla volta, che compongono il centro del campo di Chatila. “Per noi tutto questo”, indicando con un gesto delle mani gli alti edifici che ci circondano, “è come essere in Palestina, una Palestina temporanea”. In effetti, superato il posto di blocco dell’esercito fisso nelle vicinanze del campo, ovunque si posi lo sguardo si incontrano simboli che rimandano alla Palestina.
Il murales di un giovane Arafat sorridente sembra salutarci mentre ci avviciniamo all’entrata del campo. Bandiere palestinesi sono sparse un po’ ovunque, sui tetti degli edifici o sui balconi, insieme a quelle gialle di Fatah e a quelle rosse del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Il campo si estende su circa un chilometro quadrato ed è rimasto tale dall’anno della sua fondazione nel 1949. Allora gli abitanti non erano più di 4mila e molti ricordano i decenni passati richiamandosi curiosamente all’altezza degli edifici. Spesso mi è capitato di ascoltare, “dovevano essere gli anni ’60, quando Chatila era ancora alta due piani”.
Oggi di persone ce ne sono tra le 20 e le 30mila, di cui circa la metà sono palestinesi e gli edifici sono talmente alti e ravvicinati da non permettere alla luce del sole di raggiungere il suolo. Siamo alla vigilia dell’anniversario della Nakba, la “catastrofe”, ovvero l’istituzione dello Stato d’Israele e l’occupazione della Palestina storica. La guerra del 1948 e le azioni delle milizie sioniste hanno causato l’esodo e l’espulsione di più di 700mila palestinesi nei paesi circostanti. Convinti di poter tornare nelle loro terre finita la guerra, da settant’anni i rifugiati palestinesi e i loro discendenti, divenuti col tempo circa cinque milioni, lottano generazione dopo generazione per vedere riconosciuto il loro diritto al ritorno stabilito anche dal diritto internazionale (e ribadito a varie riprese) dall’articolo 11 della risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, approvata l’11 dicembre 1948.
Jamila fa parte della seconda generazione di rifugiati, ovvero la prima ad essere nata e cresciuta in un campo rifugiati in Libano. È la direttrice del centro di Chatila di Beit Atfal Assumoud, un’associazione palestinese nata nel 1976 in seguito al massacro del campo di Tel al-Zaatar per opera dei falangisti, partito cristiano di estrema destra famoso in seguito per il massacro di Sabra e Chatila del 1982, con lo scopo di dare soccorso ai bambini palestinesi rimasti orfani.
Oggi l’associazione si è estesa e lavora in tutti i campi del Libano, una decina, e ha diversificato le sue attività incentrandole sul sostegno alle famiglie e sull’educazione. Alla domanda che le pongo sul significato di questo giorno a settant’anni dalla Nakba mi risponde: “Se tu chiedi a un bambino dell’asilo – dice indicandomi i piani superiori – da dove viene, lui ti risponderà che è palestinese, non libanese, e ti dirà anche il villaggio d’origine della sua famiglia. Noi viviamo qui con i nostri corpi, ma le nostre menti sono ancora nella nostra terra. Io, per esempio, sono di Yajur. Un piccolo villaggio nel nord della Palestina, vicino a Haifa, accanto a una montagna che si chiama Karmel, verde tutte le stagioni dell’anno. In primavera il villaggio è invaso dal profumo dei fiori e il mare dista solo quindici minuti a piedi. Il fiume Muqatta porta acqua fresca e dolce al villaggio; non come qui”, riferendosi alle condizioni di vita insalubri del campo,“che l’acqua è salata e non esistono spazi verdi. Per questo è difficile dimenticare, capisci? Sono giorni difficili ma dobbiamo continuare a mantenere viva la speranza che un giorno torneremo nella nostra terra”.
Jamila non ha mai visto il suo villaggio, che dal 1948 è rimasto disabitato, ma si sente comunque fortunata poiché i suoi genitori le hanno trasmesso i ricordi e il sentimento di appartenenza a quella terra. “La prima generazione di rifugiati sta scomparendo – mi dice – per questo noi abbiamo una responsabilità ancora maggiore rispetto al passato di raccontare ai più giovani queste storie e di non fargli dimenticare la nostra cultura. Da qui l’importanza della commemorazione della Nakba e del lavoro che facciamo ogni giorno a Beit Atfal Assumoud”
Il giorno dopo l’intervista sono invitato al campo di Bourj el Barajneh per assistere alle attività organizzate dall’associazione in vista del 15 maggio. Due pullman, uno dal campo di Mar Elias e l’altro da quello di Chatila, portano bambini e famiglie dei tre campi di Beirut a incontrarsi nel centro di Bourj el Barajneh dove una sala è stata addobbata per l’occasione con le bandiere e i colori palestinesi. L’atmosfera è quella di una chiassosa festa popolare. Bambini e ragazzi si esibiscono, indossando vestiti tradizionali, in canti e balli che ricordano la loro terra e rivendicano il diritto al ritorno dei rifugiati. I discorsi dal palco improvvisato ripetono ciò che Jamila mi aveva già spiegato il giorno prima. La trasmissione della memoria e l’accento posto sull’identità e sulla cultura palestinese sono forme di resistenza pacifica all’occupazione.
In tutto il Libano associazioni palestinesi e solidali si sono mobilitate con varie attività per l’anniversario della Nakba e per riportare l’attenzione della comunità libanese e internazionale sulla mancanza di giustizia sociale e di diritti civili dei rifugiati residenti nel paese. È proprio lo scopo, ad esempio, di una passeggiata in bicicletta organizzata da Heartbeats to Palestine e appoggiata dalla campagna BDS che, attraversando il Libano da nord a sud nel fine settimana dell’11 e 12 maggio, ha percorso 200 chilometri fino a raggiungere il confine israeliano, in aperta polemica con il Giro d’Italia fatto partire da Israele.
I palestinesi in Libano vivono in uno stato di estrema marginalizzazione. Come mi racconta Kassem Aine, direttore generale di Beit Atfal Assumoud, “i palestinesi pagano le contraddizioni e le divisioni confessionali interne della società libanese. Non abbiamo la cittadinanza, poiché avercela significherebbe cambiare gli equilibri religiosi del paese incidendo sul sistema politico confessionale presente, né abbiamo alcun tipo di riconoscimento politico e la maggior parte di noi è soggetta a costanti discriminazioni. Al di fuori dei campi sono più di una trentina i lavori che non possiamo praticare, come fare il medico, l’ingegnere, o addirittura il tassista. Per poter lavorare al di fuori dei campi serve un permesso che è molto difficile da ottenere, per cui tanti palestinesi rinunciano a farne domanda. Non ci è inoltre possibile passare le nostre proprietà legalmente acquistate in eredità ai nostri famigliari. La stessa terra dov’è costruito il campo di Chatila non ci appartiene ma è affittato dall’UNRWA e l’affitto scadrà tra una ventina d’anni”.
“Noi non vogliamo la nazionalità”, mi ripetono alcuni collaboratori dell’associazione, “noi vogliamo diritti. In Libano ci lasciano vivere, o sopravvivere, e nessuno ci obbliga ad andarcene. Ma questa non è casa nostra, non abbiamo bisogno del passaporto, abbiamo bisogno di lavoro e di poter vivere in pace”.
Mentre mi risuonano in mente i versi finali di una poesia di Mahmoud Darwish, […]Tutti i cuori degli uomini sono la mia nazione, ritiratemi pure questo passaporto; in tutti i campi palestinesi le persone si preparano alle manifestazioni che domani mattina, 15 maggio, avranno luogo nei vari campi per poi muoversi nel pomeriggio verso il confine israeliano e ricordare così a loro stessi e agli altri che dopo settant’anni dalla “catastrofe”, il popolo palestinese è ancora pronto a lottare per il riconoscimento del proprio diritto a esistere.
* Tratto da Nena News
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