Cosa hanno mostrato i dodici mesi trascorsi dal primo lockdown? Che la crescita infinita è un mito: poche settimane di arresto e tutto si è paralizzato perché non abbiamo riserve, non abbiamo il senso del limite. Che la socialità è già impoverita da tempo, schiacciata dalla comunicazione digitale. Che le trasformazioni del lavoro avviate accentuano le disuguaglianze. Scrive Marco Aime: “Il virus ci ha colpiti come specie, ma non lo abbiamo capito. Condizionati dai nostri identitarismi prima abbiamo puntato il dito contro i cinesi, poi gli untori siamo divenuti noi italiani, fino a che tutti sono caduti vittime del contagio. Allora c’è stato un momento di apparente solidarietà, ma non è durato molto: subito è partita la corsa a chi si accaparra più vaccini… Siamo passeggeri di uno stesso treno, che improvvisamente si è arrestato e a questo punto dobbiamo scegliere cosa fare…”
Un anniversario che forse non vorremmo ricordare, questo del lockdown, o forse che speravamo di ricordare al passato e invece, dopo un anno di chiusure e aperture alterne, il virus è ancora tra di noi. Niente da festeggiare, quindi, ma le ricorrenze possono essere un’occasione per fare i conti e trarre qualche conclusione. Cosa ci ha insegnato (se qualcosa ci ha insegnato) questa esperienza?
Prima di tutto che quello della crescita continua e irrefrenabile altro non era che un mito creato dai seguaci folli dello sviluppo a oltranza. La pandemia ha messo in luce l’estrema fragilità di questo nostro sistema globale: poche settimane di arresto e tutto si è paralizzato, ci siamo accorti che non avevamo riserve. Perché per averle occorre pensare al futuro e avere il senso del limite, cosa che nessuno sembra più in grado di fare e di avere. I montanari di un tempo trascorrevano mesi d’inverno isolati, ma avevano delle scorte, noi no.
Incapaci di pensare al futuro, perché impegnati in una eterna competizione, che vive e si nutre solo di presente e di corsa cieca, di assoluta fiducia nella capacità di controllare la natura. Poi accade che tutto si fermi, che la quotidianità venga sospesa e che non abbiamo nessuno strumento, perché non era prevista. E quella natura (anche il virus è un prodotto della natura) che credevamo di avere soggiogato rivela la nostra cecità.
Molte di quelle popolazioni che spesso chiamiamo “primitive” pensavano al futuro molto più di quanto facciamo ora noi. I cacciatori-raccoglitori non raccoglievano mai tutti i frutti o le bacche di una pianta, ma nel lasciavano un po’ perché la pianta potesse riprodursi; in moltissime regioni dell’Africa possiamo vedere i boschetti sacri, aree di foresta che venivano preservate dal taglio del legname, per non impoverire troppo il patrimonio boschivo; lo stesso concetto di totem serviva a limitare la caccia di certi animali. Nel deserto del Sahara mi è capitato più volte di osservare come i tuareg prendessero pezzi di legno dai pochi alberi reperibili, senza mai intaccare troppo la pianta, perché sopravvivesse. Semplicemente pensavano al domani, per rispetto verso la natura e per garantirsi la sopravvivenza, visto che le due cose sono strettamente legate.
La sospensione ha posto fine anche a quella socialità a cui non avevamo forse dato mai troppa importanza, troppo spesso impegnati a comunicare digitalmente, preferendo al “faccia a faccia” lo “schermo a schermo”. La distanza (fisica, non sociale) ci ha reso più soli e più estranei. Sono scomparsi i sorrisi dai nostri volti, nascosti da una fascetta azzurrina. Abbiamo provato a ricostruire un’immagine di comunità, inventando piccoli rituali sui balconi, ma la stanchezza ha preso il sopravvento.
La Rete è entrata pesantemente nelle nostre vite, aiutandoci a fare andare avanti la macchina collettiva, ma spingendoci anche in una dimensione sempre più solitaria e filtrata dal medium. E sempre più controllata. Una trasformazione si è innescata nel mondo del lavoro e non si tornerà indietro. Il nuovo modello metterà sempre più in luce le diseguaglianze sociali ed economiche tra chi avrà accesso e chi no.
Il virus ci ha colpiti come specie, ma non lo abbiamo capito. Condizionati dai nostri identitarismi prima abbiamo puntato il dito contro i cinesi, poi gli untori siamo divenuti noi italiani, fino a che tutti sono caduti vittime del contagio. Allora c’è stato un momento di apparente solidarietà, ma non è durato molto: subito è partita la corsa a chi si accaparra più vaccini, di chi tenta di arrivare prima degli altri e non tanto per motivi umanitari, quanto economici e geopolitici. Anche a livello sociale non è scattata quella solidarietà che sarebbe stato giusto attendersi tra le persone.
La sospensione imposta da questa pandemia, lo stallo a cui ci ha costretti tutti, impone una riflessione profonda. Siamo stretti in una morsa terribile, e qualsiasi via di uscita impone comunque qualche rinuncia. Non è il tanto amato win win degli economisti finanziari, questo è un gioco a somma zero, dove il limite è dato dalle risorse del pianeta. Il Sars Cov 2 sembra averci lanciato un segnale: non ci sono confini, né barriere che tengano, siete tutti ugualmente vulnerabili di fronte a questa piccola espressione della natura.
A volere guardare da un’altra prospettiva, l’ammonimento potrebbe indurci a ripensare al fatto che apparteniamo a una stessa umanità – cosa di cui ci dimentichiamo troppo spesso, condizionati come siamo da etnocentrismi, sovranismi e pensieri di Stato vari – e che abbiamo un destino comune. Un fatto, questo, che l’accecamento generale ci ha troppo spesso impedito di vedere. Siamo passeggeri – spesso litigiosi – di uno stesso treno, che improvvisamente si è arrestato e a questo punto dobbiamo scegliere cosa fare, quale viaggio intraprendere. È ora di prenderci la responsabilità del futuro.
Marco Aime, antropologo, insegna all’Università di Genova e vive a Torino. Tra i suoi ultimi libri Guida minima all’Italia cattivista (con Luca Borzani) per èleuthera e Il domani che avrete (con Adriano Favole e Francesco Remotti), UTET.. Questo articolo è apparso su un blog del fattoquotidiano con il titolo completo Un anno di lockdown per scoprire quanto siamo ciechi
Franco Ferigo dice
Sono d’accordo sugli aspetti che caratterizzano la nostra specie. Ma sono questi aspetti che ci hanno condotto a questa sospensione, non la “pandemia”. E sono questi aspetti che governati ad hoc ci stanno sempre di più separando dall’esistenza. Il virus non è il problema, non lo è mai stato.
giovanni lombardi dice
un punto di vista,il tuo.
corretto ma minimo.
forza e buon lavoro.
giovanni lombardi dice
nel quadro di questo articolo ognuno uò commentare dal suo punto di vista.
per andare avanti però bisognerà svolgerlo e tradurlo .
come ? mi chiederà qualcuno ed io rispondo
accontentandoci .
vedendo ‘orizzonte comune ed in questo lavorare perchè chiarisca gli orizzonti di questo pianeta in cui siamo tutti coinvolti.
In questa sapienza minima, che è della sapienza quotidiana di ciascuno, lavoriamo per gli orizzonti che sono comuni come oggi vediamo nei giorni nostri …sapendo che sono di tutti in un abbraccio d’armonia che è amore per le ore del giorno e della notte .
Usiamo quanto sappiamo con il lavoro che a ciascuno da luce perchè il mondo viva in una realtà migliore,quella in cui i nuovi ragazzi di via Panisperna vivono per fare un domani migliore ,comune per tutti.
buon lavoro questo ,giorno per giorno prima che venga la notte sulla meridiana che trascrivi ogni ora che il sole illumina nel grande andare dove “ubique” è per tutto migliore.
giovanni lombardi presidente per i ragazzi di via Panisperna.