È stato facile per i media scagliare contro Valeria, la madre del terrorista del London Bridge, quelle parole: “hippy, poi buddista, poi musulmana”. I giornali adorano le parole trendy. Eppure la sua testimonianza è preziosissima
di Bruno Tognolini*
Ho scoperto mercoledì che la madre del terrorista del London Bridge è Valeria Collina, una mia vecchia compagna di teatro. Ho lavorato con lei a Bologna per anni, ho scritto e ha portato in scena i miei testi, li abbiamo provati e discussi insieme, fin quando, circa trent’anni fa, in tempi non sospetti, si convertì alla fede musulmana.
Come banalmente ma umanamente accade in questi casi, un filo di notizie, che in altri giorni si sarebbe intrecciato e perso con gli altri fili a tessere l’arazzo del terrore quotidiano, è saltato ai miei occhi in luce potente.
Il primo verso de La ballata delle madri, in cui Pasolini allinea una mesta sequela di vili e miseri d’Italia, si apre così: “Mi domando che madri avete avuto”…
Le mie prime riflessioni son state quelle: da un punto di sguardo per una volta ravvicinato, anche se lontano trent’anni, mi sono chiesto che donna sia stata, che donna sia, la madre che ha cresciuto un ragazzo terrorista.
Ho richiamato il suo ricordo. Valeria era una vera “teatrante”, come allora si diceva e si faceva. Seria e profonda, rigorosissima nella ricerca, nel traininig fisico e filosofico quotidiano di quel teatro che era, assai più che arte del recitare, disciplina di vita e pensiero: il teatro severo e liturgico di Eugenio Barba e di Jerzy Grotowsky, che Valeria praticava con zelo monacale. Una monaca laica e atea in pantaloni “da training” e maglie casuali, potente e agile e solenne nei gesti, attenta e calma e gentile nelle parole.
Non so trarre conseguenze da queste riflessioni. Malgrado questo balcone privilegiato sui fatti, non so cosa e chi fosse in realtà Valeria trent’anni fa; non so cosa sia diventata in questi trent’anni (ognuno di noi cambia e diventa se stesso); non so come e fino a che punto chi e cosa lei fosse e di venisse possa aver plasmato, o anche solo influenzato, l’essere e il divenire fatale del suo figlio terrorista, assassino e suicida.
Sono domande antichissime e smisurate, non so o non voglio qui rispondere. Voglio parlare di un’altra cosa, che mi ha colpito forse ancora di più, perché ha a che fare con la nostra lettura e comprensione del presente.
I giornali hanno sempre poco spazio, poche righe a disposizione per conquistare l’attenzione del conteso lettore. Devono tracciare sintesi, parole semplici, che il lettore conosce già; parole attuali, che si sentono oggi; che si sentono molto, parole trendy; che si comprendano subito, d’immediato rilascio; autoevidenti, stand alone, virali, che basta sganciarle e come un missile Tomahawk fanno il loro trend nella mente dei lettori fiutando il bersaglio.
In diversi articoli Valeria Collina, e quel fiume complesso e innumerabile che è la vita di una persona, era definita con tre di queste tre parole Tomahawk: “è stata hippy, poi buddista, poi musulmana”.
Non un cenno alla sua sete di rigore, purezza, oltranza dello spirito e della vita. A quella ricerca intransigente di senso profondo (“I can’t get no satisfaction”), che per molti giovani allora (e oggi?) non trovava cammino nelle chiese della domenica e nelle sezioni giovanili dei partiti: ben altra acqua cercava quella sete. La trovava nella lotta clandestina; o nell’eroina; o nella musica, nell’arte povera, nel teatro più duro e puro del mondo. La strada scelta in questo trivio ci dice già chi era quella donna. Altri inquieti vagabondi del dharma si sono perduti nella prima, innumerabili nella seconda. Ma per Valeria non bastava, “to get satisfaction”, nemmeno questa terza, l’allora cosiddetto “Terzo Teatro”, “la via che ha un cuore”, come diceva Eugenio Barba. E allora ecco pronta una via novissima, allora, nitida e forte, temperata dalla crescita ardua in terra straniera. Un Islam che forse per i suoi stanchi fedeli in madrepatria era come le oziose messe per noi, ma che trapiantata nella terra lontana e ostile lussureggiava di novissimo fulgore, per alcuni, i primi allora, irresistibile.
Il pericolo è l’islamofobia Santiago Alba Rico
Ecco, io l’ho conosciuta in quegli anni. Non so se prima della conversione all’Islam fosse buddista, forse sì, altri teatranti in quegli anni lo erano: negli intervalli delle già ascetiche prove si rintanavano in angoli appartati, contro un muro a praticare il loro Gongyio. Ma questo era un dettaglio secondario, potevano essere altrettanto vegetariani, tifosi dell’Inter, appassionati di pesca. Valeria non era “buddista”, non era “hippy”: era “teatrante”.
So bene che l’articolista non userebbe mai questa locuzione: il caporedattore casserebbe. Non è attuale, non è trendy, non è Tomahawk, non si completa nella mente del lettore di news online, che legge svelto con le dita pronte al commento. E che inciampando in quella parola stralunerebbe (“teatrante?”) per un solo nanosecondo e poi schizzerebbe via, alla prossima “storia” o al commento.
Mentre invece la tripletta hippy-buddista-musulmana il lettore social medio la capisce subito, sorride, annuisce, e passa al sodo: digitare i commenti ghignanti, saccenti, violenti, e profondamente avvilenti che sotto quegli articoli ho letto.
Ah ecco! Si capisce. E cos’altro ci si poteva aspettare da una italiana figlia di un partigiano decorato e “poi hippy, poi buddista, poi musulmana”?
Il redattore, dato che c’era, poteva scrivere direttamente: hippy + buddista = musulmana.
Mercoledì sera, in una lunga intervista a Sky, prima ancora di avere conferma dal web (dall’articolo sunnominato), avevo riconosciuto Valeria dalla voce, dall’eloquio, dal fugacissimo scorcio di profilo che nell’inquadratura dietro il velo s’è scorto. Dati incerti, dopo trent’anni, ma consolidati dal rigore intellettuale e morale, lo stesso di allora.
Il rigore con cui una madre, nel paradosso di un’ultima postuma redenzione del figlio perduto, lo disconosce, ne condanna il gesto e i motivi; accoglie e approva addirittura, con che dolore per una donna di fede si può solo immaginare, la sua sepoltura sconsacrata. E poi prende la parola, si concede a tante interviste, troupe dopo troupe, faccia contrita di reporter dopo faccia contrita, con “santa” pazienza.
Perché? Per testimoniare.
Si sente benissimo dalla voce, dall’eloquio, dal filo etico forte del suo argomentare, che non rilascia quelle interviste spinta dalla triste fame di visibilità di tanti altri “parenti nel dolore”, da cui le troupe spietate suggono lacrime. Si sente che le motivazioni che la spingono non sono tristi inconfessabili speranze che vedano il servizio in tutto il quartiere e poi la guardino al market. Non lei.
Sono altre: testimoniare. È quello il compito che si è data, ne sono certo. In un breve inciso, nell’intervista di mormora, per un attimo un po’ smarrita: “Questa cosa l’ho già detta… ma forse a voi no… la devo ridire”. Valeria Khadija Collina sta testimoniando, con la sua abiura del figlio e coi discorsi fermi e profondi, di cui conosco le fonti, l’esistenza e il disperato grido di un Islam dei giusti.
Quell’Islam che, dice Valeria in calma coerenza con ciò che diceva e faceva trent’anni fa, “è cultura e conoscenza”. Un filo di voce preziosissimo, da proteggere e incoraggiare.
E noi come l’accogliamo? Una hippy, poi buddista, poi musulmana. E sotto, roghi fiammanti di odio.
.
* Poeta e scrittore, dopo un decennio di teatro negli anni Ottanta (drammaturgie), è ormai da molti anni per amore e mestiere scrittore “per bambini e per i loro grandi” (poesie, romanzi, racconti ma anche programmi televisivi, testi teatrali, saggi). Tra i suoi ultimi libri Rime di rabbia (Salani)
patrizia cecconi dice
Grazie a Tognolini per questa bellissima lettera.
Peccato che, come tutte le cose che superano le due righe o che non hanno un richiamo viscerale, sarà poco letta su fb. Purtroppo i social (dis)educano a una brevità che tronca il pensiero e lo riduce a slogan, quindi pochi leggeranno questa riflessione-testimonianza-denuncia viva e nitida come un raggio di luce.
Grazie a Comune per averla pubblicata.
Patrizia
Nicola Cois dice
Già, hippy buddista… La nostra mediocrità fa più vittime della peste.
Patrizia Gallo dice
Credo sia davvero urgente ripensarci profondamente come esseri umani e collettività.
Daniela Cavallo dice
Un articolo profondo e prezioso che ci consente di riflettere affrancandoci da troppe e intenzionali semplificazioni.
Laura Di Tosti dice
Interessantissimo l’ho letto facendomi molte domande, come madre soprattutto ma anche come artista, spesso io dimentico mio figlio nel turbinio della creazione.
Stefano Rota dice
Si, molto bello. È uno di quegli articoli che materializzano e rendono immediatamente intelligibili concetti quali la separazione tra “anima” e corpo, la produzione di una riflessività come conseguenza implicita del formarsi della coscienza, il sottrarsi a identità costruite discorsivamente da altri come atto di resistenza. Grazie Comune.
Annalisa dice
Grazie Bruno Tognolini di questa pausa di riflessione