un racconto di Paolo Moscogiuri*
Non è che nel mio paese mi sentissi più libero, anzi. Però, se libertà vuol dire abitare in una casa di cartone, alzarsi alle 4,30 della mattina, salire su un camion per stare alle 5,30 sotto il cavalcavia di un’autostrada e, al freddo umido di quell’ora, attendere e sperare che il “caporale” ti scelga per una giornata di lavoro sottopagato e senza alcuna sicurezza; se libertà vuol dire spaccarsi schiena e mani per un giorno intero rischiando la vita su un’impalcatura traballante e poi desiderare solo di andare a riposarsi magari saltando la cena perché fra il sonno e la fame vince il sonno; se libertà è tutto questo, allora c’è qualcosa che non va.
Ho temuto alcune volte, non conoscendo ancora bene la lingua italiana, di aver frainteso il significato delle parole, che per esempio “libertà” significasse: “comprare o prestare un libro”. D’altronde tanto errato non era questo mio pensiero, poiché il libro, in quanto conoscenza, è lo strumento che ti avvicina di più alla libertà, però, come il libro, se la “presti” puoi stare certo che non ti torna più indietro.
Ecco, io di libri ne ho letti molti, sperando di “liberarmi” dalla schiavitù della miseria e dall’oppressione del regime militare che governa il mio popolo, ma poi ho fatto il fatidico errore del prestito; no, non dei libri, ma della mia libertà, e l’ho messa in mano a persone poco raccomandabili che mi promettevano una vita dignitosa in cambio di un periodo di lavoro “condizionato”: “Lavorerai un anno per noi in cambio del trasporto in Italia, e poi, pagate le spese di viaggio, sarai libero di andare dove vuoi”. “Andare dove vuoi”?
Vediamo: per abbandonare la mia “casa” di cartone dovrei affittarne una in muratura, ma non avendo risparmi perché lavoro gratis, credo che rimarrò qui. Però dopo, andrò alla ricerca di un nuovo lavoro più dignitoso e pagato, anche se poco, ma pagato.
Non ho cittadinanza, né residenza, né casa, e a dire il vero neanche degli abiti decenti per presentarmi da qualche parte. Allora resterò a fare il muratore clandestino e a nascondermi quando arriva un controllo; però mi farò pagare. Sì, mi farò pagare. Il padrone ha detto che non può pagarmi direttamente perché per lui non esisto. Sono un clandestino e non vuole grane. Pertanto seguiterà a dare i soldi al mio “protettore” e lui li darà a me…, se vuole, quanto vuole e quando vuole.
Abdul mi ha proposto di dividere la stanza che occupa con altri cinque connazionali per soli duecento euro. È un’occasione perché a meno di quattrocento a persona non si trovano posti letto, ma io non posso comunque permettermelo. Resterò nella mia baracca,, anche se devo ricostruirla perché proprio questa notte una banda di ragazzi, armati di spranghe, me l’hanno distrutta. Fortunatamente non ero ancora rientrato e così almeno ho evitato il pestaggio o peggio. Ma ho perso ogni cosa. Ho perso anche l’unica fotografia di me bambino con mio padre e i miei fratelli.
Sembra che sia stata una banda di “ragazzi di buona famiglia”, a detta della stampa locale. Ma loro chiamano “di buona famiglia” chiunque viva nell’agiatezza economica. Quindi io automaticamente non lo sono. Certo che una famiglia che non ha saputo dare ai figli i valori della solidarietà e dell’uguaglianza, proprio “buona” non è stata. Ma sarà come per la parola “libertà”. Non conoscendo bene la lingua forse ho travisato il significato. L’italiano è proprio una lingua difficile: una stessa parola può avere significati addirittura opposti. Ragazzo di “buona famiglia” accoltella un migrante perché chiede insistentemente di comprargli un pacco di fazzolettini. Ragazzi di”buona famiglia” danno fuoco ad un clochard. Ragazzi di “buona famiglia” stuprano in cinque una studentessa canadese. Ragazzi di “buona famiglia”, fanno morire di stenti e torture un pensionato con problemi mentali. Un “malvivente tunisino” insulta un vigile che gli sequestra la merce. Processo per direttissima.
E sì, credevo di trovare la democrazia vera in Italia, ma a conti fatti le ingiustizie che ho trovato non sono poi così lontane da quelle che subivo nel mio paese. Italiani “brava gente”! Forse avrà lo stesso significato di “buona famiglia”. Sicuramente c’è la brava gente, ma questa non appartiene per forza alla “buona famiglia”. Allora saranno le persone semplici, quelle che lavorano tutta la vita per sostenere a fatica i propri cari, a educare nell’onestà e nel rispetto del prossimo i propri figli. Ma queste brave persone stanno dappertutto, in ogni angolo del mondo. Ogni popolo invece è convinto di essere migliore degli altri soprattutto se gli altri sono popoli più poveri di loro.
I portavoce della “buona politica” poi, dicono che noi migranti togliamo lavoro agli italiani, che siamo violenti e mettiamo a rischio l’incolumità delle loro donne. Mi dispiace, questo non lo sapevo. Non sapevo che gli italiani vendessero i fazzolettini davanti ai semafori e trattassero così bene le proprie donne. Leggo in continuazione la cronaca di mariti o ex compagni che uccidono di botte la moglie e qualche volta anche i figli.
Sono fuggito dal mio paese perché ora, con l’arrivo delle cosiddette multinazionali, molte statunitensi ma altre italiane, olandesi, francesi, che depredano le nostre risorse, c’è una massa talmente enorme di povertà che si litiga e ci si accoltella anche per il predominio della spazzatura. Sono fuggito perché nel mio paese non c’è libertà né di pensiero, né religiosa. Rubano i nostri soldi e, per non farlo comparire un furto, fanno leggi che stabiliscono la spartizione del bottino, in maniera “equa e solidale”. Ogni paio d’anni dividono le entrate fra i gruppi industriali più grandi, nei quali gruppi siedono ai vertici o gli stessi politici o i loro parenti e amici. La corruzione è talmente dilagante che anche le associazioni più “umanitarie” diventano lobby di potere e bacini di consensi.
È per questo che ci chiamate “Terzo Mondo”? O perché non possedendo i vostri beni di consumo, produciamo meno spazzatura? Perché qui in occidente, ho imparato che la quantità di spazzatura prodotta è direttamente proporzionale al “benessere”.
Quando ero piccolo non c’erano ancora tanti militari in giro, poi con la scusa della sicurezza, la polizia ed anche i vigili urbani sono stati armati e per sopperire alla mancanza di personale si è iniziato ad usare l’esercito per l’ordine pubblico fino ad arrivare alle cosiddette “ronde nere” per il basco che indossavano. Le ronde erano formate da persone vicine al potere o che volevano farsi ben volere dai capi locali. Dapprima le ronde giravano disarmate poi furono armate anche loro e gli “incidenti” di pallottole vaganti cominciarono a moltiplicarsi, ma cadevano guarda caso, solo sui cosiddetti dissidenti.
Per fortuna tutto questo in Italia non c’è. Però nel mio caso non cambia molto perché nel mio paese dovevo nascondermi e scappare ed in Italia altrettanto. E pensare che sono sbarcato in questa nazione non solo per la vicinanza ma anche per il fatto che a forza di stare in contatto con le numerose ditte italiane che lavorano nel mio paese ho imparato abbastanza bene la lingua. Le ditte italiane si sono ben integrate, soprattutto con il potere politico. Loro non sembrano molto spaventati dal clima di repressione e corruzione, pur provenendo da una nazione democratica, sembra quasi che ci siano abituati.
“Corruzione”. Ecco un’altra di quelle parole strane che in Italia sembrano avere un valore diverso a seconda se vengono usate in patria o all’estero. Così se un imprenditore corrompe un politico italiano allora può scattare la denuncia, ma se l’imprenditore sta all’estero e corrompe il potere locale magari per sfruttare risorse naturali e umane, allora quell’azione diventa un “incentivo”, un “investimento” e magari il “costo” viene scaricato dalle tasse.
Che lingua strana l’italiano! I benpensanti per non offendere le persone dal colore scuro della pelle evitano di chiamarci “negri”, perché così venivano definiti gli schiavi africani. Allora ci chiamano “neri”, con una punta di orgoglio, come per sottolineare: “Vedi sto dalla tua parte, io ho un pensiero liberale e ti considero una persona come me”. Ecco un altro doppio significato della lingua italiana che ho difficoltà a comprendere. Se la parola “nero” viene riferita ad una persona dalla pelle scura è un segno di rispetto, ma poi il lavoro che sono costretto a fare viene chiamato:”lavoro nero”, in senso dispregiativo. È proprio vero che la lingua si evolve. Quando anche in Italia c’era la dittatura non c’era il lavoro nero, ma noi venivamo chiamati negri. Ora che c’è la democrazia veniamo chiamati neri, ma dobbiamo fare il lavoro “negro”!
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*Architetto, autore del libro La città fragile (ed. ilmiolibro). Ha aderito alla campagna Ricominciamo da tre
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