Non siamo venuti a Glasgow a parlare con i potenti, ma per creare un’articolazione con altre lotte, ha detto in modo molto chiaro Mitzi Violeta Cortés, giovane mixteca di 22 anni. Affermazioni molto simili, sul piano dell’autonomia della lotta contro la catastrofe climatica e dell’ingenuità di attendersi ancora soluzioni da governi e imprese che vogliono prescrivere come medicina la stessa malattia (capitalismo verde, colonialismo inclusivo, sviluppo sostenibile, estrattivismo riciclato) sono venute da Greta Thunberg, dalla diciannovenne Re Cabrera, che ha partecipato all’organizzazione del Terzo Sciopero Globale per il Clima ed è un’attivista da circa un decennio, dall’artista eco-femminista Georgina Cortés e dall’indiana Daya Bai. L’incredibile irresponsabilità e inettitudine dei governi alla COP26 ha reso evidente la profondità del collasso istituzionale che stiamo subendo. Tuttavia, anche se genera preoccupazione e ansia, e persino disperazione, in molte persone e organizzazioni di ogni angolo del pianeta, quella consapevolezza ha rafforzato una svolta di enorme importanza. Sì, il fatto che giovani e donne abbiano preso in mano la questione e non si aspettino più soluzioni dai loro governi è di enorme importanza
“Basta bla bla bla”, ha detto Greta Thunberg una settimana fa alla conferenza COP26 a Glasgow. Basta con lo sfruttamento della gente, della natura e del pianeta. In quella che è stata una svolta fondamentale nella sua campagna, ha dichiarato che il cambiamento non verrà dai governi e dalle multinazionali, ma dalla gente stessa.
All’età di otto anni, Greta aveva smesso di mangiare e di parlare e aveva perso 10 chili in pochi giorni. Non poteva resistere al silenzio e all’indifferenza di tutti di fronte alla questione climatica che aveva cominciato ad ossessionarla. Le hanno diagnosticato una forma di autismo, e lei ha dato inizio alla sua campagna solitaria davanti al parlamento svedese. È andata avanti per mesi e anni con gesti e iniziative che hanno ispirato mobilitazioni impressionanti, che hanno esercitato molteplici pressioni sui governi e sulle istituzioni internazionali. In quel processo, nel corso di un decennio, Greta ha imparato, come milioni di persone, che i governi sanno bene come ignorare le richieste popolari per continuare il loro percorso di distruzione al servizio del capitale, approfondendo le disuguaglianze che combattono solo a parole. Alla fine, Greta ha smesso di guardare verso l’alto. Ormai è passata a qualcos’altro.
Come si è visto chiaramente a Glasgow, Greta non è sola nella sua ribellione. Gli attivisti non sono andati alla Conferenza per presentare richieste ai governi o ai politici. Sono andati per ascoltarsi a vicenda e intessere accordi di azione. A nome dell’organizzazione Futuros Indígenas, ad esempio, 15 donne significative sono state molto attive a Glasgow. Il loro messaggio era chiaro. Quelli che stanno all’interno della conferenza dovrebbero imparare a tacere e ad ascoltare le donne indigene. Dovrebbero porre fine alla simulazione. Non abbiamo bisogno di sviluppo. Sappiamo come vivere nei nostri territori.
Come Greta, Re Cabrera ha iniziato il suo attivismo su genere e clima quando frequentava la scuola elementare. Nel 2019 ha partecipato all’organizzazione del Terzo Sciopero Globale per il Clima. Ora, all’età di 19 anni, è venuta a Glasgow per continuare la sua lotta, che collega la questione ecologica con azioni contro il razzismo e il patriarcato. Crede che sia essenziale intrecciare la lotta per il clima con quella sociale.
Non siamo venuti a parlare con i potenti, ma per creare un’articolazione con altre lotte, ha detto Mitzi Violeta Cortés, una mixteca di 22 anni. E ha insistito sul fatto che il cambiamento verrà dal basso, non dall’alto, dai cosiddetti leader del mondo. Con molti altri giovani ha descritto quello che possono fare e quante persone stanno già facendo ciò che è necessario.
Non ci sono limiti a ciò che le donne possono fare, ha detto Georgina Cortés, che ha portato a Glasgow i 200 tessuti su cui la sua organizzazione, Zurciendo el Planeta [Rammendare il Pianeta], aveva ricamato alberi. Non pensiamo mai che qualcosa sia impossibile.
Il collasso climatico e istituzionale ha già manifestato conseguenze di estrema gravità: carestie per 45 milioni di persone; livelli senza precedenti di malnutrizione, obesità e diabete; aggravamento della sindemia (malattie concomitanti nel suo contesto sociale)… La vita quotidiana di tutte le persone risente di condizioni climatiche radicalmente nuove, mentre scompare il clima che avevamo e non si sa più se la specie umana potrà sopravvivere.
L’incredibile irresponsabilità e inettitudine dei governi alla COP26 ha reso evidente la profondità del collasso istituzionale che stiamo subendo. Tuttavia, anche se genera preoccupazione e ansia in molte persone, e persino disperazione, ha rafforzato una svolta di enorme importanza. Il fatto che giovani e donne abbiano preso in mano la questione e non si aspettino più nulla dai loro governi è di enorme importanza.
Se il mondo si aspetta che la COP risolva i suoi problemi, siamo perduti, ha detto Daya Bai, venuta dall’India. Con la convinzione che alla COP26 si stava commettendo un terricidio, migliaia di attivisti hanno indicato la strada che loro hanno aperto e che già è percorsa da milioni di persone.
Per riforestare territori e cuori, le donne indigene hanno organizzato a Glasgow un evento molto speciale: “La cura della Terra” (“Cura da Terra. Encuentro Global de Mujeres Indígenas 2021”). I governi e le imprese, hanno detto, vogliono prescrivere come medicina la stessa malattia: capitalismo verde, colonialismo inclusivo, sviluppo sostenibile, estrattivismo riciclato. Queste donne sanno che loro, prendendosi cura del territorio e dello spirito, sono soluzioni viventi alla crisi climatica. Si sono assunte la responsabilità di continuare a respirare la vita, di continuare a tessere tra donne indigene, di continuare ad esistere e a creare spazi di guarigione per porre fine alla disuguaglianza strutturale che è la radice della crisi.
La sopravvivenza del genere umano dipende dalla riscoperta della speranza come forza sociale, ha osservato Ivan Illich 50 anni fa. In questi giorni le strade di Glasgow hanno illustrato questa riscoperta, ma forse nulla la mette in luce così chiaramente come Il viaggio degli zapatisti. In ogni punto della Tierra insumisa [Terra indomita, che non si arrende], come hanno ribattezzato il vecchio continente, quando arrivano si manifesta la forza sociale di una nuova speranza, formulata dal basso da coloro che stanno costruendo un mondo nuovo e ridono sempre più del bla bla bla che in alto continua a risuonare.
Fonte: “El gran viraje», in La Jornada, 15/11/2021.
Traduzione a cura di Camminardomandando
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