Nei giorni scorsi in molte città è stato celebrato il 4 novembre, atto conclusivo, per l’Italia, di quell’orrenda carneficina denominata prima guerra mondiale. “Non la chiamano più festa della vittoria ma sotto traccia resta sempre quella roba là… – racconta Mirco Pieralisi, maestro – Eppure, come cercai tempo fa di raccontarlo ai miei alunni di tre classi quinte diverse, la prima guerra mondiale è madre e figlia di tutte le guerre…”. In realtà resta l’esempio più drammatico di come la guerra sia sempre la coerente conclusione di “un sistema fondato sull’accumulazione di profitti ricavati dallo sfruttamento delle risorse materiali del pianeta e del lavoro di donne e uomini. Figlia e madre di tutte le guerre…”
Per quanto possa sembrare incredibile, nelle città italiane è stato celebrato, da uomini in divisa e in borghese, il 4 novembre, atto conclusivo, per l’Italia, di quell’orrenda carneficina denominata prima guerra mondiale (Il 4 novembre a scuola). Non la chiamano più festa della vittoria ma sotto traccia resta sempre quella roba là, la celebrazione della vittoria di una guerra che ha seminato vittime, miserie, rancori e successive guerre. Eppure, come cercai tempo fa di raccontarlo ai miei alunni di tre classi quinte diverse, la prima guerra mondiale è madre e figlia di tutte le guerre. I vincitori ne attribuirono la causa agli sconfitti, che avevano in realtà le loro stesse ambizioni coloniali, la stessa furia nazionalistica, la stessa brama di accedere alle materie prime e fonti di energia. L’apparato ideologico di propaganda era lo stesso, compresi i manifesti e le illustrazioni a colore che mostravano case di famiglia violate, donne e bambini in pericolo, volti deformati e crudeli dei militari nemici. Solo le divise erano diverse. Come erano diverse le divise da una parte e dall’altra delle trincee, dove però i soldati, che pure parlavano lingue e dialetti diversi anche all’interno dello stesso esercito, avevano le stesse paure, gli stessi rimpianti, lo stesso desiderio di tornare a casa, lo stesso destino di poveri cristi mandati a morire contro altri poveri cristi. E tutti loro scrivevano le stesse lettere, che possiamo rileggere senza nemmeno aver bisogno di conoscere la nazionalità dell’autore, tanto sono simili. Le abbiamo lette in classe quelle lettere. Abbiamo visto insieme straordinarie interviste realizzate dalla BBC negli anni Cinquanta e Sessanta con i reduci della grande guerra, allora sessantenni, doppiate e trasmesse dalla RAI, dove si sentivano bene in sottofondo tutte le lingue del mondo. Insieme, avevamo visto i filmati d’epoca che raccontavano l’allucinante entusiasmo popolare che aveva accompagnato la mobilitazione nazionalista, in aperto contrasto con i racconti del dolore, della fame e della paura che sarebbero seguiti. Mi ricordo bene gli occhi dei bambini davanti al video mentre i testimoni intervistati, raccontando le loro sofferenze, non riuscivano a trattenere le lacrime, come se invece di quaranta o cinquant’anni fossero passati solo quaranta giorni. E ricordo anche le risa, quando un soldato statunitense raccontava della bellezze delle ragazze francesi o un italiano si lamentava della qualità del cibo, “diverso da quello fai tu, mamma…” A un certo punto un ragazzino appena arrivato in Italia, e che quindi aveva fino a quel momento solo guardato senza capire, spalancò gli occhi e gridò: “Io… io… so!” quando a raccontare la guerra fu un reduce di lingua russa, la lingua con cui era cresciuto.
E ricordo anche la commozione quando abbiamo visto e ascoltato insieme il video Pipe of Peace, di Paul Mc Cartney, dedicato al noto episodio di fraternizzazione tra tedeschi e francesi avvenuto nella notte di Natale del 1914. Nel video i soldati nemici giocano a calcio e solo una granata da lontano li riporta alla realtà. Ma i due ufficiali nemici si accorgono, tornati in trincea, di non essersi restituiti la foto che si erano scambiati prima. E si ritrovano in mano la foto dell’altra famiglia, cioè della stessa famiglia in fondo, perché la foto “parla” la stessa lingua dell’altra e sospende per un attimo, per un’ultima volta, la realtà guerra, quella realtà che per qualche minuto una bottiglia di vino e una partita di pallone avevano mandato all’aria, come un calcio infinito a tutti i mali del mondo.
La mia formazione è stata accompagnata, tra tante altre cose, da una specie di piccola “ossessione” per la grande guerra, che avevo scoperto fin da bambino con il bellissimo film di Mario Monicelli, con i racconti dei vecchi reduci incontrati in Piemonte, con le pagine dei libri di scuola (poche e nemmeno buone allora), con Uomini Contro, di Francesco Rosi, Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrick e la Grande Illusione di Jean Renoir (con quell’ordine sottotitolato finale “Non sparate! Sono in Svizzera!”).
In qualche modo ciò che accadde negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale europeo, quelli della controffensiva anti nazista, della scoperta dell’orrore dell’olocausto, quelli della guerra partigiana che restituiva dignità a popoli che si erano piegati al nazifascismo, dette in qualche modo un senso all’idea che possa esistere una guerra giusta, naturalmente rimuovendo la catena di complicità che avevano accompagnato l’ascesa politica e militare del nazismo. La prima guerra mondiale resta di contro l’esempio più drammatico di come la guerra, l’uccisione di vite umane attraverso la produzione e l’impiego di armi di annientamento, sia l’insensato ma coerente conclusione di un intero sistema fondato sull’accumulazione di profitti ricavati dallo sfruttamento delle risorse materiali del pianeta e del lavoro di donne e uomini. Figlia e madre di tutte le guerre.
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