L’accelerazione impressa alle nostre vite dalla rivoluzione tecnologica porta a una dilatazione del presente. Il copioso e continuo flusso di informazioni, immagini, dati che ci avvolge ogni giorno, ricorda Marco Aime, lascia poco tempo alla sedimentazione. Nel mondo che sopprime il legame tra presente e futuro bastano due mesi di arresto, peraltro neppure totale, per mettere in ginocchio il mondo capitalistico-industriale. Serve una resistenza alla prepotenza del presente
L’accelerazione impressa alle nostre vite dalla rivoluzione tecnologica che ha segnato questo inizio di millennio, ha portato a una dilatazione del presente, a scapito delle altre due dimensioni temporali con cui eravamo abituati a convivere: il passato, fondato sulla memoria personale e collettiva, e il futuro, prodotto dalla nostra immaginazione. Il copioso e continuo flusso di informazioni, immagini, dati che ci avvolge e ci percorre quotidianamente, lascia poco tempo alla sedimentazione e alla memorizzazione dei dati stessi. Così come una generale e diffusa mancanza di immaginazione e di programmazione (a cominciare da chi governa i processi globali) ha portato a una politica dal fiato corto e a una conseguente mancanza di visione del futuro, persino quello più immediato.
Questa dittatura del presente, ha riconfigurato completamente le nostre esistenze in quanto parti di un sistema che ha anch’esso il fiato corto e una scarsissima visione del domani. La dimostrazione ci è stata data da questa pandemia. Tralasciamo per un instante l’aspetto clinico e soffermiamoci su quello economico: sono stati sufficienti due mesi di arresto (peraltro neppure totale) per mettere in ginocchio l’intero mondo capitalistico-industriale. Per ridurre il mercato globale a qualche bancarella sparsa qui e là. Ma che sistema è quello che non ha un minimo di resistenza a un evento negativo? Che non ha saputo prevedere alcuna forma di riserva per eventuali crisi? Un mondo incapace di pensare al domani, che non riesce o meglio non vuole vedere al di là dell’immediato. Il trionfo della cicala, ma almeno lei si godeva la vita: molti abitanti di questo pianeta non potevano dire altrettanto neppure quando tutto andava bene.
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Abbiamo lasciato che costruissero un mondo finto, fatto di promesse (è così che funziona la finanza) e siamo stati al gioco, illudendoci che la tecnologia ci avrebbe aiutati a governare i processi. Guai a pensare al domani, di cui non c’è certezza, carpe diem. E ora scopriamo di non avere scorte, di non avere fieno in cascina per l’inverno, perché quando era ora di immagazzinarlo lo abbiamo venduto, per fare profitto, perché le scorte costano. Basta! Viviamo al presente.
Purtroppo, come diceva Samuel Taylor Coleridge, il domani cammina già nell’oggi.
*Docente di antropologia culturale presso l’università di Genova, è autore di numerosi libri di saggistica (tra cui Eccessi di culture e Il dono al tempo di Internet per Einaudi, Etnografia del quotidiano e La macchia della razza per eleuthera) e di alcuni libri di narrativa e per bambini. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
Marina dice
Sarebbe bello vedere che la prima vera vittima del corona virus siano proprio il capitalismo e il monopolio della tecnologia
EUGENIO CERELLI dice
Verissimo.
E’ per questo che mi pensiono appena posso.