Negli ultimi decenni, pur protagonista di un’occupazione coloniale e di una politica segnata dal dominio della violenza, della discriminazione e della segregazione verso i Palestinesi, Israele aveva sempre curato l’immagine di paese “democratico”. Un profilo formale essenziale alla propaganda interna e alla diplomazia internazionale che oggi non sembra più necessario, nemmeno per l’immagine che la società israeliana ha di se stessa. Quello che segnala in questa intervista a Comune-info Michel Warshawski, prestigioso saggista israeliano e profondo conoscitore del sionismo religioso, è un intenso cambiamento di regime. Un regime deciso, per esempio, a liberarsi senza esitazioni di ogni residuo pur formale di democrazia nella libertà d’informazione e nell’indipendenza dell’autorità giudiziaria. L’escalation di aggressività delle pressioni esercitate sulle istituzioni di paesi “amici”, come è avvenuto nel caso dell’università di Roma che ci racconta lo stesso Warshawski, è un ulteriore segnale inequivocabile del nefasto cambiamento in atto
a cura di Alessandra Mecozzi
Abbiamo incontrato Michel Warshawski, giornalista, scrittore e attivista israeliano, nato a Strasburgo nel 1949 da madre francese e padre polacco immigrato e residente a Gerusalemme, in occasione del seminario “E’ tempo di giustizia in Palestina. Le responsabilità dell’Europa”. L’Università La Sapienza di Roma ha negato la sera prima l’aula designata per ospitare l’incontro, Warshawski, co-fondatore dell’Alternative Information Center (Gerusalemme ovest – Beit Sahour), ne era uno dei relatori più autorevoli. Abbiamo approfittato del suo viaggio a Roma per porgli alcune domande sulla nuova profonda svolta antidemocratica che sta investendo il suo paese.
Come sei arrivato a impegnarti nella lotta contro l’occupazione israeliana? E’ stato il frutto dell’educazione familiare?
Mio padre, rabbino, è diventato una personalità, ma ha dovuto lottare per farsi accettare socialmente. Io non capivo granché, ma da piccolo a scuola mi chiamavano dispregiativamente “polaque” (non polonais). Faccio parte della prima generazione nata dopo la guerra, sono cresciuto con l’onnipresenza dei discorsi e dei ricordi sulla “occupazione” nazista. A 17 anni sono andato nei territori palestinesi, accompagnavo mio padre che portava pellegrini ebrei a visitare i luoghi santi. Mi sono trovato di fronte alla occupazione israeliana senza sapere proprio niente di conflitto arabo-israeliano, della guerra del 1967…ma è lì che ho capito. Nel momento in cui, parlando con un commerciante palestinese, ho visto nei suoi occhi la paura, la paura di un ragazzo israeliano: e di nuovo è risuonata la parola “occupazione”. Ma questa volta noi non eravamo gli occupati, ma gli occupanti. Quella parola, occupazione, evocava nella mia testa storie di violenza, di brutalità, di miseria, ho capito che mi riguardava in prima persona e che dovevo battermi contro di essa, ma dovevo farlo mantenendo sempre aperto e vivo il rapporto tra Israeliani e Palestinesi. Per questo, insieme ad altri, fondammo l’Alternative Information Center, che è l’unica organizzazione “bilaterale” che ha resistito a resiste a tutte le crisi. Siamo riusciti a farne una sola organizzazione, non una partnership tra due diverse. Quelle che hanno scelto la separazione ad ogni crisi si sono fermate, ognuno si è rinchiuso nel suo cerchio. Perfino Neve Shalom che esiste da moltissimi anni…
A che cosa attribuisci questa resistenza?
Per quanto mi riguarda, sono certo che derivi dalla mia formazione internazionalista, per la quale ritengo che ci siano valori che trascendono le diversità di paese, di religione, di etnia….Per molti anni il lavoro, la lotta in comune tra Israeliani e Palestinesi, è stato forte….Oggi purtroppo le cose sono cambiate, ed è diventato molto più difficile. Israele ha costruito un muro di cemento, che si è alzato anche nelle teste di tantissimi attivisti/e. Ci tengo a dire che io parlo sempre di occupazione coloniale e che tutto il dibattito sull’indipendenza ci porta alla questione del controllo dei confini. Fin da Ben Gurion nella cultura israeliana non ci sono confini. Il termine anglosassone, americano, fronteer indica uno spazio libero da occupare, quello di border indica invece un limite che non va oltrepassato! Dal 1967, con l’occupazione conseguente di territori, il concetto “colonizzazione” è entrato nel discorso politico. Anche l’impatto psicologico è stato forte; si è realizzato nel 1977, quando è avanzata la destra nazionalista, la religione ha preso maggior peso, e i giovani a quel momento sono diventati l’avanguardia dei coloni…
Oggi, e ancor più dopo l’elezione di Trump, sembra che la situazione non permetta più di parlare di “due popoli, due Stati”. Molti dicono che la situazione sul campo è irreversibile. Sei d’accordo?
Assolutamente no. Questo concetto di irreversibilità già negli anni ’70 lo esprimeva Meron Benvenisti (vice sindaco di Gerusalemme) dicendo che il processo di colonizzazione/annessione era un fatto irreversibile e dunque non fattibili i due Stati. Ma non ero e non sono d’accordo. Non c’è niente di irreversibile…tranne se c’è un genocidio!
In Europa, e ancor più in Italia, stiamo assistendo ad una azione repressiva ed escludente rispetto a iniziative che vogliano promuovere informazione sulla Palestina e la cultura palestinese. L’ultimo caso è quello dentro cui anche tu ti sei trovato, con il divieto dell’ Università la Sapienza di fare il seminario a cui sei stato invitato all’interno dell’università. Il divieto è stato espresso su richiesta esterna di un Osservatorio sulle discriminazioni, Solomon, legato alla Comunità ebraica. A tuo avviso questa “stretta” corrisponde ad una stretta anche nella politica interna di Israele?
Sì, in Israele si sta verificando più che una regressione, c’è un passaggio da un regime a un altro. Lo Stato di Israele sta diventando un’altra cosa. Lo stesso Adam Burg, già presidente di Israele, parla di fascismo. La dimensione democratica viene rimessa in discussione. Si parlava di Stato ebraico democratico: adesso il ministro dell’Istruzione, Naftali Bennett, dice apertamente che la parte importante di questa definizione è l’ “ebraico”, non il democratico. E questo viene realizzato attraverso una serie di nuove leggi discriminatorie nei confronti dei Palestinesi in Israele. Per esempio quella detta della regolarizzazione che permette di espropriare un proprietario palestinese e passare la sua terra a uno ebreo. Prima per gli espropri si adducevano ragioni di sicurezza, per la località in cui era situata la terra, per esempio su una certa collina…Con questa legge lo si può fare senza alcuna motivazione. E’ importante notare che la Corte Suprema ancora non si è dichiarata, è stato espresso qualche dubbio di incostituzionalità, ma il ministro della giustizia ha già dichiarato che se la Corte Suprema si immischia nella questione verrà fatto un articolo speciale che proibisce alla Corte di esprimersi sulle decisioni del governo.
Ma come può avvenire una cosa del genere?
E’ semplice, il governo dice: noi siamo la maggioranza, quindi esprimiamo la volontà popolare. Una volontà assoluta, che non può essere contraddetta dalla Corte Suprema. Insomma, c’è una dittatura della maggioranza. Il cambiamento è profondo e viene operato passo dopo passo. Adesso ci sono due argini: la Corte Suprema e certi organi di informazione, dove ci sono buoni giornalisti, articoli critici, reportage. Netanyahou e la ministra della giustizia hanno deciso di rompere entrambi gli argini. Il governo sta distribuendo gratuitamente per strada un suo giornale e ha espresso l’intenzione di far votare una legge per limitare il potere dei mezzi di informazione. D’altro canto, la ministra della giustizia ha già fatto un passo verso la modifica della Corte Suprema, rimpiazzando con propri nominati nella commissione che ne sceglie i giudici, man mano che vanno in pensione i suoi componenti, quelli considerati dell’”attivismo giuridico”, che può cioè intervenire sulla natura della legge. Se la Corte Suprema perde questa prerogativa, diventa una semplice corte d’appello, senza alcun potere.
Sulla informazione non siamo ancora alla censura, ma le ultime leggi rafforzano il “discorso unico”. Al fondo c’è il concetto di “fedeltà allo Stato”. Ad esempio i deputati della Knesset dovranno esprimere fedeltà allo Stato di Israele come Stato del popolo ebreo. Intanto, la ministra della cultura ha dichiarato che non darà più fondi a chi non dimostra fedeltà allo Stato: il Teatro Nazionale si è visto tagliare i fondi perché ha presentato una pièce teatrale scritta in carcere da un ex prigioniero politico palestinese. L’argomento a sostegno di tale scelta è che il bene pubblico va gestito dalla maggioranza eletta, cioè dal governo. Ora la ministra della cultura è piuttosto incolta, ma è significativo che sia stata il generale dell’esercito che operava la censura militare su tutta l’informazione pubblica civile, una censura motivata da questioni securitarie. Questa censura era scomparsa negli anni ’80.
E sul caso dell’Università di Roma in particolare, tenendo conto che non è il primo, cosa ti senti di dire?
Immagino che non sarà neanche l’ultimo. Ricordo che in Francia, nel 2002, Sharon incontrò Cukiermann, presidente del CRIF, Consiglio dei rappresentanti della comunità ebraica in Francia, e disse esplicitamente che bisognava organizzare una controffensiva all’estero utilizzando “l’antisemitismo”. Venne lanciata una campagna di demonizzazione di giornalisti e politici accusati di essere antisemiti. Poi ci fu un po’ di calma. Ma dal 2008, da quando la campagna BDS ha cominciato a mostrare efficacia, dal punto di vista dell’immagine più che economicamente, in Israele si è aperta una nuova fase. In partnership con il ministro degli affari esteri, Lieberman, è stata messa in piedi una task force per una “strategia difensiva di attacco”! Una strategia basata su propaganda e repressione contro chi critica questo Israele. E’ rivolta contro tutti coloro che chiedono qualche forma di sanzione, non solo la campagna BDS. La novità è che da un anno si è costituito un dipartimento con ampio budget statale che, attraverso una task force, è incaricato di tenere sott’occhio e prendere di mira Stati e istituzioni pubbliche, una vera e propria strategia del governo. Quanto è successo a Roma rientra in questa politica e di solito, penso al caso francese, c’è un collegamento con l’ambasciata israeliana del paese interessato.
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