Il vecchio presidente tunisino, espressione non solo simbolica della continuità con il regime di Ben Alì, accusa la stampa internazionale di essersi messa al servizio dell’opposizione politica parlamentare che ha sostenuto nelle scorse settimane le forti proteste sociali contro la Legge Finanziaria 2018. È la solita vecchia mossa di gridare all’ingerenza straniera che “sporcherebbe” l’immagine del Paese per intromettersi negli affari interni. La sfoderano, puntualmente, i regimi autoritari illudendosi di poter godere senza limiti di tempo di una sorta di omertà dettata dal timore delle ritorsioni oppure dalla condivisione di pratiche corrotte. Quel che si delinea oggi in Tunisia è, in realtà, un’offensiva precisa contro una delle poche reali conquiste della rivoluzione del 2011, la libertà d’espressione. Per arginarla, in questi giorni i giornalisti indipendenti e il sindacato che li rappresenta hanno manifestato contro i tentativi di intimidazione fattisi sempre più pressanti in questo inizio d’anno
di Patrizia Mancini
Il 31 gennaio 2018 Néji Bghouri, Presidente del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Tunisini (SNJT) ha indirizzato una lettera alla Presidenza della Repubblica e al primo Ministro in cui si denunciavano le gravi violazioni alla libertà di stampa che si sono verificate in particolare nel corso del mese di gennaio. Vi si legge, tra l’altro:
“la libertà di stampa e di espressione si trovano sotto il giogo di una precisa politica fermamente decisa a prendere di mira e a minacciare i giornalisti. Questa campagna è stata lanciata a seguito della dichiarazione del Presidente della Repubblica, il 13 gennaio 2018, contro i giornalisti della stampa internazionale e che metteva in discussione la loro professionalità e imparzialità. …Queste pressioni hanno coinciso con le proteste sociali contro il degrado delle condizioni di vita e sociali che i media nazionali e internazionali hanno cercato di coprire, dando voce ai manifestanti”.
Cosa ha detto il quasi novantenne presidente Beji Caid Essebsi?
«I media stranieri hanno amplificato quanto è successo , contrariamente ai media nazionali che si sono tenuti di più ai fatti e hanno riportato le cose come stanno. Alcune parti politiche si rifugiano nei media stranieri pensando che ciò abbia un impatto su di noi (…) La stampa straniera ha sporcato l’immagine della Tunisia perché motivata a farlo da persone, proprio qui in Tunisia.”
Un riferimento, neanche troppo velato, al Fronte Popolare (coalizione di partiti di sinistra e nazionalisti arabi), principale opposizione parlamentare che ha sostenuto le proteste e partecipato alle manifestazioni contro la legge finanziaria 2018. Ma soprattutto un attacco frontale (neanche il primo, peraltro) ai giornalisti stranieri che nei giorni precedenti erano presenti un po’ dappertutto nel paese, attirati dalla ripresa dei movimenti sociali, anche in vista del settimo anniversario della cacciata di Ben Alì.
Come ricorda Nadia Haddaoui nel suo blog su Mediapart “ il 28 dicembre 2010 (in piena rivoluzione n.d.t) anche Ben Alì accusò “certe parti” di strumentalizzazione politica e i media stranieri di “esagerazione” e “diffamazione mediatica ostile alla Tunisia”.
Già l’11 gennaio il giornalista indipendente Mathieu Galtier, che aveva seguito i movimenti sociali a Tebourba per conto del quotidiano Libération, era stato prelevato dal proprio domicilio e interrogato al commissariato del Bardo per ottenere i nomi delle persone che aveva intervistato.
All’indomani del discorso del presidente, il 14 gennaio, la polizia in borghese ferma a più riprese il corrispondente di Radio France Internationale Michel Picard che si trovava a Cité Ettadhamen per seguire la visita del Presidente della Repubblica. Gli agenti gli impediscono a più riprese di intervistare dei cittadini del quartiere e alla fine la Guardia nazionale lo porterà al commissariato dove gli verrà contestato il fatto di non essere accompagnato (Da un fixer? Da un poliziotto? Non si sa, di sicuro però la contestazione a Picard ci ricorda tristemente le pratiche in vigore sotto la dittatura di Ben Alì). Alla fine il giornalista verrà obbligato a firmare un documento in arabo, senza poter averne la traduzione.
Il 15 gennaio è il turno di Nacel Talel e Enes Canli dell’agenzia di stampa turca Anadolu Agency che stavano filmando nel quartiere di Tunisi Bab Souika il 99° anniversario del club calcistico dell’Esperance. La polizia ha richiesto di visionare e poi cancellare le immagini girate dai due che hanno dovuto firmare un verbale.
Tutti i professionisti stranieri citati avevano i regolari permessi per lavorare e filmare in Tunisia.
Come riportato dal sito northafricacorrespondents.org, tutti gli interrogatori si sono svolti con cortesia. Reprimere con il sorriso, sembra essere la nuova modalità della cosiddetta “polizia repubblicana”.
La stessa cortesia a cui non hanno avuto diritto i colleghi tunisini. Sullo onde di Radio Mosaique infatti Mohamed Jelassi, membro del SNJT, ha denuciato un aumento del 10% di aggressioni ai giornalisti dal settembre 2017 (nomina di Lofti Brahem a capo del Ministero degli Interni), citando alcuni esempi, fra cui le minacce che la polizia ha fatto a Rachid Jarray, corrispondente per la televisione “Aswat Magharabia “, mentre copriva un manifestazione a Tunisi contro il carovita.
Ma è lo stesso ministro Lofti Brahem che, in un audizione in Parlamento ammetterà di aver “intercettato” dei giornalisti stranieri in contatto con i manifestanti delle recenti rivolte contro la finanziaria 2018.
E in un crescendo di articoli a difesa dell’immagine della Tunisia da parte dei media governativi che potremmo ben definire di “auto-orientalismo”, è il turno del sindacato di polizia che tramite il suo portavoce Nourredinne Ghattassi , e finora in perfetta impunità, ha incitato a violentare e torturare i giornalisti.
In questo quadro inquietante si inserisce la recente proposta di legge per la creazione di un organismo per la comunicazione audiovisiva che, a detta di sedici organizzazioni nazionali e internazionali per la difesa dei diritti dei diritti umani, metterebbe in pericolo le conquiste finora ottenute in termini di libertà d’espressione.
Ce n’è abbastanza per sentirci dalla parte dei giornalist* tunisini che il 2 febbraio si sono concentrati, fascia rossa al braccio, di fronte alla sede del loro sindacato. Per difendere ancora una volta una delle poche reali conquiste della rivoluzione: libertà d’espressione e di stampa.
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