Come si governa un’entità complessa come una città – oppure una fabbrica, una regione – se la si considera un comune, cioè un luogo nel quale i suoi abitanti non delegano il compito di governare e perseguono scopi sociali ed ecologici? Per rispondere a questa domanda secondo Massimo De Angelis dovremmo prendere in prestito alcune intuizioni della cibernetica classica, dove la varietà è una proprietà dei sistemi complessi: si tratta di immaginare sistemi di governance molto più distribuiti sul territorio, policentrici, con una forte autonomia e partecipati. In altre parole si tratta di vivere la città come un insieme di commons, dove le risorse comuni sono governate da una comunità di commoners attraverso numerosi e differenti processi di commoning, insomma di “fare comune”. Tuttavia, spiega De Angelis in questo saggio, il vero salto di qualità in questa direzione – che molti movimenti hanno cominciato a sperimentare tra inevitabili limiti – è la capacità di sottrarre collettivamente la riproduzione sociale dai processi di accumulazione: per questo abbiamo bisogno prima di tutto di “ridurre la nostra dipendenza dai mercati capitalistici e diventare meno vulnerabili alla sua logica competitiva, alienante, ecologicamente distruttiva e sfruttatrice…”
“Il desiderio è produttore di realtà” (Gilles Deleuze)
Premessa
Il tema che tratterò è un’elaborazione più articolata di un mio recente capitolo apparso sul libro Post-Growth Planning, edito da Federico Savini, António Ferreira e Kim Carlotta von Schönfeld (2022) da poco uscito per Routledge. Si tratta di capire come una realtà complessa, la città, possa concepirsi e auto-organizzarsi come comune, cioè come un sistema sociale dove le persone che ne fanno parte, che vi vivono e riproducono le loro vite, si relazionano tra di loro in forme diverse e si rapportano di conseguenza con l’ambiente naturale non umano, insomma come gli abitanti e i (ri)produttori e le (ri)produttrici di questa città possono diventare anche i suoi governanti. Non voglio qui fornire immaginari utopici, né scivolare su semplici tecnicismi, o riprendere modelli e immaginari classici della decentralizzazione o del municipalismo. Voglio invece problematizzare come le regole ultime dell’organizzazione sociale complessa possano aiutarci a comprendere due cose. In primo luogo che oggi abbiamo un gran bisogno di tantissima democrazia dal basso proprio per affrontare le grandi crisi del nostro tempo (in particolare le crisi della riproduzione sociale che nella mia definizione include anche quella ambientale) e vivere con più gioia, amore e felicità collettiva, e senza questa democrazia dal basso non si possono sostenere soluzioni giuste e durature; è lo scopo della prima parte di questo scritto. In secondo luogo, a capire a grandi linee in quali grandi ambiti funzionali questa democrazia debba essere organizzata, senza bisogno di ricorrere a gerarchie di reddito, ricchezza, status o potere, o quantomeno, a ridurle sostanzialmente, e ciò verrà discusso nella seconda parte di questo scritto. In questa operazione mi ha aiutato l’opera di Stafford Beer, il cui lavoro negli anni ’70 e ’80 è diventato un classico della cibernetica dell’organizzazione. Il suo lavoro, se letto oggi con mente attenta e cuori aperti verso le sensibilità contemporanee dei movimenti ambientalisti e per la giustizia economica e sociale, e se applicato ad ambiti ben più estesi dell’economia e che mettono al centro la riproduzione sociale e ambientale, ci permette, credo, di affermare che non solo si deve ma anche si può costruire un modello alternativo di cooperazione sociale complessa. In questi tempi bui, credo sia una riflessione che valga la pena di fare. Spero che altri si aggiungano a questa riflessione, che ci aiutino a renderla chiara e intuitiva, a rilevarne le debolezze con spirito costruttivo, e a tradurre le sue eventuali intuizioni in tecniche di governo democratico del comune, della nostra cooperazione sociale. L’entità complessa della quale voglio applicare qui il mio ragionamento è la città, ma la scelta è qui fatta solo per delimitare un ambito complesso dell’analisi, e non c’è in questa scelta alcuna presunzione di aver definito un ambito privilegiato.
Cooperazione sociale e crisi
La cooperazione sociale è l’insieme di diversi sistemi di produzione, che incorporano differenti forme, razionalità e obiettivi, e che attraverso la loro interazione danno origine a macro-sistemi in cui forze egemoniche assumono il comando e la direzione sugli altri, strutturando così verticalmente la cooperazione sociale in una gerarchia di finalità e obiettivi.
Il carattere generale e fondamentale delle crisi del nostro tempo sta nella contraddizione profonda tra due tipi di riproduzione sistemica con le relative macro-metafinalità: la riproduzione del capitale e la riproduzione sociale. Foucault identificava nella governabilità il tentativo del potere di mantenere un equilibrio tra queste due riproduzioni, un equilibrio che in maniera sempre più evidente oggi è assolutamente impossibile mantenere. La crisi ecologica per esempio, tra le tante, mostra in modo sempre più evidente l’incompatibilità tra il perseguimento della crescita (accumulazione) e i limiti di assorbimento della biosfera. Questa contraddizione principale del nostro tempo si manifesta nelle attuali crisi sociali ed ecologiche, come un effetto dei fini contrastanti, le meta-finalità, e di corrispondenti modalità produttive di due principali aree di riproduzione: la riproduzione del capitale e del capitalismo da un lato (sia come ricerca sociale dell’accumulazione sia come struttura di potere) e, dall’altro, la riproduzione delle componenti umane della società e delle loro molteplici capacità, entro il limite dettato dalla configurazione dell’ambiente naturale non umano, cioè nel contesto di quella che viene generalmente intesa come sostenibilità ecologica. Ciò di cui abbiamo sempre più bisogno è la crescita esponenziale di un movimento plurale che ponga la riproduzione sociale e la sua meta-finalità al di sopra della riproduzione del capitale, che riesca a contenerla, a limitarne drasticamente lo sviluppo, a de-accumularne i rapporti sociali che la costituiscono creandone di nuovi che siano espressione di un altro modo di produzione, il comune.
Riproduzione sociale e governanza
Una delle critiche che si fanno alle ragioni del comune come modo di produzione (e delle sue declinazioni come beni comuni, commons, e della democrazia dal basso di cui essi si fanno portatori), è il fatto di potersi per lo più applicare a piccole dimensioni, e che quanto più aumenta l’ambito spaziale e funzionale della cosa da gestire e regolare come comune, e con essa la complessità delle cose, quanto più si ha bisogno di forme di comando verticale. Queste ultime possono poi essere espresse con forme di democrazia rappresentativa, di managerialismo o di autocrazia a seconda dei gusti e degli ambiti di applicazione posti dai critici della democrazia dal basso, e non mi interessa qui discutere queste distinzioni. In questo scritto intendo invece porre una questione semplice ma molto complessa: come si governa un’entità complessa come una città (ma potrebbe essere un’industria, un territorio, una regione e via dicendo) se la si considera un comune? Non voglio qui riproporre approcci già teorizzati per esempio dal municipalismo di Murray Bookchin (tra altri), e che prima facie credo possano informare gli aspetti di organizzazione spaziale della democrazia dal basso. Invece, qui mi voglio soffermare sull’organizzazione funzionale di un’entità complessa come una città, su come diverse funzioni della regolazione della cooperazione sociale possano essere articolate prendendo seriamente l’idea che i suoi abitanti possano governarla attraverso una democrazia profonda, diffusa e decentralizzata, per scopi che non siano altro che affrontare le diverse gravi crisi riguardanti la riproduzione sia sociale che ecologica, promuovendo quindi allo stesso tempo le condizioni per una buona vita per tutti.
Chiamo “riproduzione sociale” quella sfera della cooperazione sociale che ha una preoccupazione corporea, cognitiva, affettiva, emotiva e relazionale per la produzione di esseri umani per mezzo di esseri umani. Quest’ultima è una nozione che Marx applica alla produzione in generale (e giustamente, visto che ogni produzione anche di beni materiali ha per soggetto la soddisfazione di qualche bisogno umano), ma che il contributo del femminismo ci ha permesso di distinguere come ambito della produzione della forza lavoro in generale, soprattutto attraverso il lavoro non pagato delle donne nell’ambito domestico. Come vedremo però, la riproduzione sociale oggi è una sfera della cooperazione sociale stratificata e trasversale tra diversi “settori” e luoghi della società. È stratificata in una molteplicità di pratiche a differenti scale e mobilizza diversi gradi di potere sociale e di sistemi di governanza. È trasversale, perché le preoccupazioni della produzione sociale non appartengono solo a un settore, ma a tutti i settori della cooperazione sociale. Vi è per esempio molto lavoro emozionale dentro una fabbrica o ufficio oltre che in un ristorante, o nel rapporto con i propri figli. La riproduzione sociale quindi è un complesso di lavori retribuiti e non, dentro i servizi, l’agricoltura, le case, l’industria, le scuole, in molteplici siti eterogenei di cooperazione sociale in diverse forme e all’interno di diversi apparati di potere, un lavoro materiale, immateriale e di cura che per questa trasversalità è potenzialmente un enorme terreno di ricomposizione sociale dell’immaginario e delle lotte, a partire da quello delle donne. Inoltre, è bene sottolineare che la riproduzione sociale in questo senso significa anche la preoccupazione per il vivente in generale. Non è possibile produrre “esseri umani per mezzo di esseri umani” — cioè come vedremo il senso ultimo di riproduzione sociale — senza rapportarsi alla questione del vivente in generale, dell’ecosistema di cui facciamo parte e dal quale deriviamo ogni forma di energia e su cui espelliamo i nostri rifiuti. La riproduzione sociale include anche una preoccupazione corporea, cognitiva, affettiva, emotiva, e relazionale verso altre forme del vivente, verso il mantenimento della precondizione ecologica dell’esistenza umana, per noi e per le generazioni future. Il nostro necessario e vitale intreccio con tutto ciò che è vivente in generale riflette sulla necessità che l’equilibrio di mezzi e fini, i loro processi di adattamento reciproco, coinvolga anche il nostro rapporto con il vivente e spetta a noi, in quanto esseri umani, operare un tale riequilibrio e mutuo adeguamento tra mezzi e fini.
Il senso del termine “riproduzione” è quello di produrre di nuovo, e identificare la produzione di esseri umani per mezzo di esseri umani in senso stretto con il lavoro di cura nelle sue molteplici forme, significa introdurre quello che Hardt e Negri nel loro Commonwealth chiamano una “circolarità radicale” (Hardt e Negri 2009: 136-137). Una circolarità che ha origine dal fatto che nella produzione di esseri umani per mezzo di esseri umani, gli esseri umani sono concepiti sia come mezzi che come fini della produzione. Questa circolarità radicale implica la necessità della costituzione di un altrettanto radicale design della cooperazione sociale in modo tale da favorire la coincidenza, o quanto meno la convergenza, di mezzi e fini. Un design che può avvenire solo attraverso un processo, uno spazio di riflessione collettiva continua e diffusa sulle forme socialmente giuste che sono necessarie affinché gli esseri umani siano sia i mezzi che i fini della produzione sociale nell’ambito di diversi ruoli e di una divisione del lavoro. Di qui il ruolo importante del fare in comune cognitivo, dell’apertura ed esplosione espansiva di spazi di democrazia profonda dentro tutte le pieghe della complessa cooperazione sociale, ma anche del problema della loro articolazione in forma coesiva e coerente: appunto l’idea della città come comune.
Ora, se un grosso movimento riuscisse a porre la riproduzione sociale intesa in questo senso come scopo principale di una città come comune, come sua meta-finalità sopra tutte le altre, quale forma di governanza dovrebbe essere adottata per questo? Partiamo dall’idea di governanza come si presenta oggi all’interno della cooperazione sociale, cioè con quella che chiamo governanza emergente e caotica. In contrasto con l’idea predominante di governanza come forum tra diversi “stakeholders” in rete, la cosiddetta governanza propriamente detta (Jessop 2016), dove questioni specifiche sono affrontate spesso entro i limiti delle razionalità più potenti quali quelle economiche e del capitale, l’idea di governanza emergente e caotica vuole mettere in risalto il fatto che le forme di governanza dentro un’entità complessa come la città sono molteplici quanto molteplici sono i siti e i modi della riproduzione sociale, e che questa governanza emergente e caotica non è altro che l’insieme che emerge dall’interazione tra queste molteplici governanze e i relativi circuiti di cooperazione sociale, un insieme di forme di governanze che spesso persegue obiettivi contraddittori, un insieme, ricordiamolo, dominato e/o egemonizzato da forme di governanza compatibili alla riproduzione del capitale e alle sue forme di comando.
La governanza emergente e caotica è quindi l’immagine del numero totale di processi auto-riflessivi di regolazione dei vari circuiti della cooperazione sociale, un’intelligenza composita che emerge da diverse forme di razionalità e di creazione di regole sociali, per molti scopi che spesso si scontrano tra loro e attraverso una miriade di forme di organizzazione e di relazioni di potere. Ogni nodo di governanza all’interno della totalità della cooperazione sociale di un’entità complessa è collegato a uno o più circuiti di riproduzione sociale a diverse scale, che cerca di indirizzare in una particolare direzione e per particolari obiettivi. In questo contesto complessivo, la crisi della riproduzione sociale e ambientale indica il fallimento di questa governanza emergente e caotica, un fallimento basato sull’egemonia di forme di razionalità economica e di potere sopra tutte le altre, e in particolare sopra forme di razionalità e sensibilità necessarie al fini della riproduzione sociale intesa come sopra.
Ma come si potrebbe governare un’entità complessa prendendo come finalità la riproduzione sociale? Per cominciare a rispondere a questa domanda, occorre prendere a prestito il concetto di varietà, così come è utilizzato dalla cibernetica classica.
Una governanza diffusa e partecipata
Nella cibernetica classica, la varietà è una proprietà dei sistemi complessi, e il rapporto tra varietà e complessità è fondamentale per la regolazione della complessità. Quanto più grande la quantità e la varietà di elementi che compongono un sistema da regolare, quanto più grande è la sua complessità. Ora, se la complessità delle interazioni tra gli elementi di un sistema genera “problemi” o “crisi” (distruzione ecologica, povertà, precarietà ecc.) vuol dire che esiste una mancata corrispondenza, o congruenza, tra la varietà a disposizione del regolatore e quella del sistema da regolare, cioè che la varietà del sistema da regolare è assai maggiore di quella a disposizione del regolatore. E qui entra quella che si chiama la legge di Ashby, o legge della varietà necessaria che ci dice che affinché la regolazione di un sistema sia praticabile (e quindi i suoi scopi perseguiti), è necessario che il regolatore possegga lo stesso grado di varietà del sistema complesso che intende regolare. Questa legge ci offre un’intuizione molto importane, e cioè che affinché si possano affrontare i problemi sistemici che ha di fronte un soggetto regolatore, quest’ultimo deve possedere almeno un repertorio di risposte a questi problemi con almeno un numero equivalente di sfumature dei problemi stessi.
Si prenda per esempio un sistema composto da due sottosistemi, un sistema di operazioni e uno di gestione/management. Questo sistema composito dovrà regolare un dato ambiente in cui è inserito, una regolazione che si prefigge un dato scopo. Si pensi per esempio al sistema propaganda composto da tutto il complesso di operazioni necessarie per creare e distribuire informazione su un dato tema affinché si affermi una certa linea editoriale e quindi che tra la popolazione passi una certa comprensione e attitudine nei suoi confronti. In questo caso, come in molti altri, la varietà nella popolazione (ambiente) sarà molto più grande che la varietà delle operazioni mediatiche e quest’ultime, a loro volta, avranno una varietà più piccola a disposizione del management dei media. Se indichiamo con V la varietà avremo
V(ambiente da regolare)>V(operazioni)>V(management).
Per sopperire al gap tra la varietà del regolatore (Management + Operazioni) e il sistema da regolare (e raggiungere la varietà necessaria), il soggetto regolatore applicherà quindi una serie di “filtri” per limitare la varietà in entrata nel sistema (in pratica ignorerà e selezionerà una serie di informazioni) mentre amplificherà alcuni aspetti della sua varietà verso l’ambiente (si veda Figura 1).
E questo avverrà non solo tra il soggetto regolatore (cioè Management + Operazioni) nel suo complesso vis-a-vis l’ambiente, ma anche all’interno del sistema di regolazione, tra i giornalisti e gli altri operatori dei media e il loro management. Lo stesso ragionamento si può fare in infiniti altri ambiti. Si pensi al rapporto tra un’impresa e il suo ambiente (inteso come insieme di potenziali consumatori attraverso la pubblicità o la competizione, o inteso come insieme di politiche da influenzare attraverso lobby); o si pensi al rapporto tra governo e società nell’ambito di politiche economiche volte alla massimizzazione del tasso di crescita (attraverso per esempio l’amplificazione delle esportazioni attraverso sussidi, la riduzione di tasse per le imprese per attrarre capitale, e il filtraggio/attenuazione di istanze redistributive o di spese pubbliche rivolte alla sanità). Questo rapporto tra sistema regolatore e sistema regolato non deve solo prendere contorni sinistri. Il tentativo di regolazione del proprio ambiente avviene anche in altri modi: cosa sono specifiche lotte se non l’esplosione di movimenti dovuta all’accumulazione di istanze e questioni “filtrate” dalle preoccupazioni dei regolatori egemonici della società? cos’è un movimento se non una risposta “amplificata” ai filtri del potere, ai loro punti ciechi, e quindi un tentativo di contro o alter-regolazione?
Ma a noi qui interessa mettere in rilievo un’altra questione, anzi due. In primo luogo, ogni selezione attraverso amplificazioni e filtraggi di qualsiasi regolatore (o contro-regolatore) è necessariamente legata a qualche scopo, a qualche meta-finalità sopra ad altre. Da qui, il suggerimento che la riproduzione sociale intesa come sopra e in maniera molto ampia sia posta chiaramente come la meta-finalità di una contro o alter-regolazione in una città intesa come comune. In secondo luogo, è chiaro che tanto più è grande il gap che esiste tra la varietà del soggetto regolatore e quello da regolare, tanto più grandi sono i filtri e gli amplificatori che il regolatore deve implementare per raggiungere la varietà necessaria alla regolazione. Allo stesso tempo però quanto più sono le questioni ignorate dal regolatore che i filtri e amplificatori del regolatore non hanno permesso di trattare in tempo, quanto più emergono punti di crisi dentro l’ambiente da regolare.
Ora, riassumiamo un attimo il ragionamento fino a qui, e cerchiamo di trarre delle prime conclusioni. Attraverso la legge della varietà necessaria possiamo capire che il fallimento della governanza emergente e caotica sulla questioni sociali e ambientali è il risultato dell’insufficiente varietà da parte del regolatore complessivo in rapporto ai sistemi che devono essere regolati. In altre parole, nelle nostre città e nazioni il repertorio di risposte alle svariate crisi è limitato dalla struttura del potere e dalle gerarchie delle forme di regolazione egemonizzate da modelli statalisti verticali e/o di mercato dentro la costellazione della governanza emergente e caotica, perseguiti a loro volta per meta-finalità che subordinano la riproduzione sociale ad altre, quali il profitto o all’accumulazione del potere. Questa struttura di potere egemonica soffoca la varietà di scelte e soluzioni possibili in funzione di interessi privati e strutture di potere consolidate. La soluzione è conseguentemente semplice e duplice: primo, cambiare l’ordine gerarchico delle meta-finalità mettendo quella della riproduzione sociale al di sopra di altre; secondo, aumentare la varietà di risposte alle crisi socio-ecologiche. Come? Bisogna aumentare la varietà a disposizione del soggetto regolatore. Come? Attraverso sistemi di governance molto più distribuiti, policentrici, con una maggiore autonomia e partecipati, distribuiti capillarmente sul territorio, con una rete altamente autonoma di attori locali che perseguono forme e obiettivi specifici di riproduzione sociale all’interno dei diversi ambiti trasversali ove essa si svolge: dalle fabbriche alle scuole, passando dai processi abitativi alle istituzioni sanitarie. In altre parole dobbiamo governare la città come comune come un insieme di commons, sistemi sociali che comprendono tre elementi: risorse comuni, governate da una comunità di commoners che regolano anche le proprie relazioni, e processi di commoning, di cooperazione sociale o di fare comune (De Angelis, 2017). Il governo riflessivo della città si svolge a partire da diversi nodi della cooperazione sociale e la priorità della (ri)produzione rispetto all’accumulazione modella l’integrazione e gli equilibri reciproci di questi nodi. La governance della città, in quanto sistema diffuso, emerge a diverse scale da nodi che devono integrarsi tra loro per soddisfare l’obiettivo generale di (ri)produrre una “vita buona” per tutti lungo orizzonti di giustizia sociale, distributiva ed ecologica.
Nel contesto di questo tipo di governance, ogni commons o nodo regolatore si troverebbe ad affrontare il problema della legge di Ashby, come descritto in precedenza, ma, grazie alla prossimità con l’ambente da regolare e alla profondità e inclusività delle pratiche democratiche – ho in mente qui commons con confini porosi e che creano gli spazi aperti come quelli discussi da Stavrides (2022) -, il sistema regolatore che emerge nella sua totalità ha il vantaggio di avere una varietà assai più simile a quella dell’ambiente da regolare: il gap della varietà si riduce con l’aumento della democrazia, e l’aumento della democrazia crea le condizioni per l’emergere collettivo di una “misura delle cose” (cioè domande e risposte collettive al cosa, come, dove, quanto, quando, chi e ai perché della riproduzione sociale) (De Angelis 2017), una misura delle cose che renda congruenti i mezzi e i fini della produzione di esseri umani per mezzo di esseri umani. Il problema a questo punto è un altro: come integrare questi nodi riproduttivi e autonomi? Come fare in modo che i loro diversi obiettivi non siano in contraddizione ma si sostengano a vicenda e che siano allineati al servizio della riproduzione sociale nel suo complesso? Il modello del sistema efficace (Viable System Model o VSM) di Stafford Beer che si fonda sulla legge di Ashby permette di ipotizzare una tale integrazione e ci permette di immaginare l’emergere di un’organizzazione complessa, che interiorizzi principi di coordinamento e sinergia nell’articolazione tra diversi ambiti di riproduzione sociale, realizzati in luoghi diversi e su diverse scale, ma dove ancora è la democrazia profonda a governare tali principi di coordinamento e sinergia.
Foto Martina Pignataro (Gridas)
La città come comune e le teorie di Stafford Beer
Il modello del sistema efficace (lo continuerò a indicare con l’acronimo inglese VSM) è stato sviluppato dal teorico dell’organizzazione e della cibernetica Stafford Beer (1981). Si basa sulla struttura organizzativa di un dato sistema complesso e lo concepisce come autonomo e autopoietico, cioè capace di auto (ri)prodursi nella sua organizzazione. Il contributo chiave della VSM è un approccio alla progettazione di un sistema in grado di articolare pienamente l’autonomia delle sue parti senza compromettere la coesione dell’insieme, anzi, rafforzando la congruenza delle parti nel rispetto della loro diversità e autonomia e in relazione a uno scopo comune che, nel nostro caso, abbiamo già identificato con la meta-finalità della riproduzione sociale. La VSM, applicata alla governance diffusa di una città, ci impone di considerare due cose: in primo luogo, l’importanza di riconoscere, in ogni scelta che facciamo, che la governanza della nostra città ipotetica è in co-evoluzione con l’ambiente sociale ed ecologico a cui si relaziona, e che ogni scelta di governanza scatenerà effetti e risposte da tale ambiente; in secondo luogo, che l’autonomia e l’autoregolazione di ogni nodo di governance deve essere accompagnata da un meccanismo che generi un grado soddisfacente di coesione o congruenza tra i diversi nodi. Il primo punto è affrontato dalla VSM attraverso lo sviluppo di tecniche specifiche per la gestione delle informazioni (Espinosa e Walker, 2011: 78-90), tecniche che nella tradizione cibernetica includono vari modi di rappresentazione e gestione di segnali attraverso una varietà di indicatori, ma che potrebbero essere integrati e anche almeno in parte sostituiti dalle tecniche della gestione democratica inclusiva sviluppate dalla tradizione dei commons. Il secondo punto può essere esplorato attraverso una discussione del concetto di olone (Koestler, 1967) e sulla distribuzione delle funzioni necessarie a un’organizzazione coesa così come sono modellate dalla VSM. È su questo secondo punto che mi soffermerò ora.
Il modello di organizzazione di Stafford Beer, è un modello che si basa sull’idea di olone, un’idea proposta da Arthur Koestler nel suo the Ghost in the Machine (1967), evocato nella teoria dei commons di Elinor Ostrom, ed utilizzato per esempio nella ricerca sulla sostenibilità ambientale da parte di studiosi come Mario Giampietro che usano un approccio derivato dai sistemi complessi. L’olone è un modo di vedere il carattere stratificato della realtà, di un tutto che a sua volta fa parte di un altro tutto. Gli oloni sono dunque sistemi (e quindi composti di parti interagenti) che stanno all’interno di altri sistemi, e che quindi creano sequenze annidate di parti e interi. Come metafora, si pensi alle bamboline russe, le Matrioske. Si pensi per esempio all’insieme di atomi che attraverso le loro interazioni e legami costituiscono molecole. A sistemi interagenti di molecole che costituiscono a loro volta cellule e così via, fino alla costituzione di organismi e di soggetti interagenti che costituiscono società. In ogni strato le parti sono autonome o semi-autonome, eppure la loro interazione da luogo a forme di organizzazione coese. Dalla struttura degli oloni nasce una concezione di gerarchia assai diversa dalle gerarchie di potere alle quali siamo abituati nella gran parte della nostra cooperazione sociale nel capitalismo. Una gerarchia funzionale legata a uno scopo largamente condiviso, non una gerarchia di potere, reddito o status. Insomma, il modello degli oloni ci dà, per dirla con Gregory Bateson, antropologo affascinato dalla cibernetica, un “modello che connette”.
Torniamo a Stafford Beer e al suo modello olonico dell’organizzazione con il quale intendiamo comprendere la nostra città come commons. Un sistema efficace è un sistema capace di esistere, dal punto di vista organizzativo, in modo indipendente, attraverso l’adattamento a un ambiente in continuo cambiamento (che richiede la massima autonomia delle sue parti), pur mantenendo la sua identità o la sua meta-finalità, la quale, per essere perseguita richiede appunto un certo grado di coesione complessiva delle sue parti. Il modello di base prevede la separazione e la riarticolazione concettuale e operativa di tre elementi presenti in altri tipi di sistema e che abbiamo rappresentato in Figura 1, cioè un insieme di processi operativi, un “management” come insieme di funzioni di gestione che andremo a discutere e non come gruppo privilegiato di gerarchi, e l’ambiente, cioè i sistemi socio-ecologici con cui il sistema composto da operazioni e management si relaziona a diversi livelli di ricorsione. In una città, come vedremo, lo stesso modello può essere applicato a diversi livelli di ricorsione spaziale, per esempio quartieri, distretti, città nel suo insieme, e poi regione/territorio e via dicendo. Soffermiamoci qui però sulla differenziazione delle funzioni all’interno dell’organizzazione di un qualsiasi livello spaziale.
Figura 2 replica le tre grandi aree della Figura 1, l’operazione (O), la gestione (M), e l’ambiente (A). Il sistema regolatore (che è anche produttore), è composto da “O” e “M”. All’interno di questi, Stafford Beer identifica cinque funzioni fondamentali che ogni sistema praticabile dovrebbe trovare il modo di integrare, e a ogni funzione corrisponde un particolare sistema il cui ruolo è quello di servire quella funzione. In breve, queste funzioni e i corrispondenti sistemi del VSM sono le seguenti:
Funzione/Sistema 1: operazioni, composto da 1a, 1b, 1c eccetera, e che nella nostra città come commons potremmo riconoscere con gradi tematiche, ambiti distinti della riproduzione sociale: salute, educazione, ecologia, cultura, agricoltura urbana, casa e questione abitativa, e via dicendo. Ma questa distinzione che propongo è solo una illustrazione, e la suddivisione degli ambiti che compongono le operazioni necessarie per la riproduzione sociale, è anch’esso un problema politico
Funzione/Sistema 2: coordinamento
Funzione/Sistema 3: coesione
Funzione/Sistema 4: “intelligence”, ricerca e raccolta di informazioni sull’ambiente, pensiero politico/strategico
Funzione/Sistema 5: meta-finalità
Ora, l’idea generale è che poiché ogni funzione/sistema è integrato alle altre funzioni/sistemi in quanto strato specifico di un olone, e poiché il processo di integrazione è basato sulla massima autonomia di ogni livello, ciò implica che ogni livello contribuirà nello specifico delle sue funzioni al raggiungimento della varietà necessaria al perseguimento dei fini del sistema nel suo complesso. Poiché l’ellisse operativa “O” è quella fondamentale nel sistema, perché il suo obiettivo coincide con la sostanza della meta-finalità del sistema nel suo complesso che come abbiamo ipotizzato, è la riproduzione sociale nel suo complesso, nel sistema “O” si svolgeranno tutte le operazioni necessarie a questo fine, operazioni che come vedremo saranno divise per tipologia o ambito. Ciò vuol dire che la porzione di varietà necessaria che i livelli funzionali superiori a quello operativo dovranno perseguire, indicata dall’insieme di funzioni del diamante del Management in figura 2, emerge come varietà residua. In altre parole, si tratta di identificare quali sono le funzioni che non vengono svolte dal livello operativo, ma che rimangono comunque di importanza cruciale per la coesione dell’insieme, e che devono ancora essere soddisfatte. Il governo del sistema città è funzionalmente diviso tra i cinque sistemi e questi — con le loro funzioni corrispondenti — si riflettono nell’attività sociale in modo frattale a diverse scale (Espinosa, Harnden e Walker, 2005: 577).
Come si è detto, l’ellisse operativa “O” è quella fondamentale nel sistema, perché il suo obiettivo coincide con la sostanza della meta-finalità del sistema nel suo complesso, nel nostro caso la riproduzione sociale nel suo complesso. In questo sistema “O” si svolgeranno tutte le operazioni necessarie a questo fine, operazioni che saranno divise per tipologia o ambito. Quindi l’ellisse “O” è composta da un certo numero di sottosistemi operativi. Ognuna di queste unità operative possono essere a loro volta composte da sottoinsiemi operativi che possono definire appunto la scala delle operazioni (quartiere, distretti, città, territorio e via dicendo). Ricordiamo dalla discussione della prima parte che a ogni livello di ricorsione spaziale, ciascun ambito di operazioni è fondamentalmente autogestito e il suo management, indicato con i quadrati 1a, 1b, e 1c, non è composto di capi e capetti, ma è una funzione che è svolta in quanto espressione dell’autogoverno degli operatori nella definizione delle operazioni, non di una scala gerarchica. Questa autogestione è nutrita da forme organizzative che devono tendenzialmente darsi come profondamente democratiche e inclusive, non solo per questioni etiche, ma, come si è visto, per la sua potenza materiale, cioè proprio per permettere di aumentare la varietà del regolatore in maniera congruente con la varietà dell’ambiente da regolare. “Immaginiamoci un’associazione di produttori liberi” si chiese Marx nel primo capitolo del Capitale. Questo è essenzialmente quello che sto cercando di fare, non nella sua forma utopica, ma in riferimento a un quadro che ci faccia da modello per ragionare sull’organizzazione e la scala della cooperazione sociale del comune, mentre siamo dentro fino al collo nel caos e nella complessità.
FIGURA 2: Diagrammatic representation of VSM Source: Lowe, Espinosa, and Yearworth, 2020: 1015)
Il compito dei livelli della governanza superiori a quello operativo è quello di fornire il “collante” che consente e coordina questa autonomia. Il diamante meta-gestionale indicato con M è dunque composto da quattro sottosistemi (etichettati come 2, 3, 4 e 5) di cui parleremo in relazione alla loro funzione. Le varie frecce rappresentano le numerose e complesse interazioni tra i cinque sistemi e l’ambiente, interazioni che devono essere sottoposte alla legge di Ashby. Infine, la “A” è l’ambiente del sistema regolatore composto da “O” e “M”, un ambiente costituito a sua volta dai tanti ambienti in interazione tra loro con i quali i diversi livelli dell’organizzazione si trovano a interagire.
La prima difficoltà che si incontra nel tentativo di definire una città come bene comune ha a che fare con la definizione del Sistema 1, ossia le definizione delle unità operative e corrispondenti unità di governanza che attualizzano la riproduzione sociale. In linea di principio, le caratteristiche necessarie per definire il Sistema 1 dipendono dagli obiettivi e dal contesto reale della città in questione. Come abbiamo visto, il lavoro per la riproduzione sociale in una città (sia esso retribuito o non retribuito) viene svolto attraverso una varietà di forme organizzative con corrispondenti sistemi di governanza, dando origine a uno stato di governanza emergente e caotica e ai suoi fallimenti. In quest’ottica, una distinzione per ambiti della riproduzione sociale a considerare come oggetti di autogoverno profondamente democratico ci consentirebbe di definire il dominio operativo della città come comune in termini di diversi domini della riproduzione sociale: salute, educazione, conservazione/rigenerazione ecologica, cura, assistenza, cultura, spazi pubblici, casa, agricoltura urbana e così via. È compito del dibattito pubblico e l’agire politico dei movimenti quello di definire i criteri e la portata di questi o altri ambiti nei rispettivi contesti e di costruire su questa base un VSM diffuso e multiscalare. Ma per dare una breve illustrazione su come me lo immagino io in questo momento una tale suddivisione in ambiti, il sottosistema 1a — per esempio la salute al livello locale di ricorsione — includerebbe attori di tutte le istituzioni o i sottoinsiemi di istituzioni che producono effetti a quel livello spaziale (quartiere, distretto, città nel suo complesso ecc.) che si occupano di salute in qualsiasi forma. La funzione di governance/gestione di tale sottosistema sarebbe svolta dai dipendenti e dagli utenti delle cliniche locali, dai sindacalisti dei luoghi di lavoro, dagli studenti e dagli insegnanti delle scuole, dai gruppi di pazienti e così via. Lo scopo di questi soggetti sarebbe quello di gestire (o partecipare alla gestione con un certo grado di potere) la funzione sanitaria su quella scala in modo tale da esplorare e attuare sinergie, valutare metodi, condurre esperimenti organizzativi, coordinare risposte critiche, mobilitare reti e, in generale, rispondere ai bisogni in maniera ragionata e affettiva. Sarebbe anche quello di mobilitarsi in maniera trasversale per difendere dei diritti d’accesso alla sanità, alle risorse che scarseggiano, e a tutte le questioni che possono sorgere quando nel contesto delle nostre operazioni del comune per salvaguardare la salute (ciò che è indicato con l’ambiente A della figura 2), perché in questo contesto c’è il capitale che preme con il suo desiderio di recintare e ridurre tutto a enclave possibilmente produttiva della sua riproduzione, mentre lotta per la propria sopravvivenza. E tra queste questioni legate alla salute non ci sono solo questioni di gestione diretta della cura, ma anche questioni di prevenzione, come la battaglia per la sicurezza del lavoro, la nocività, dentro le fabbriche o nel lavoro gestito da piattaforme… Da qui si può intuire come il carattere trasversale di ogni ambito della riproduzione sociale può potenzialmente diventare un ampio terreno ricompositivo.
Inoltre, non dovremmo vedere questi diversi ambiti come silos chiusi, ma sfere interconnesse e interdipendenti. Ci sono anche istituzioni che tendono a mescolare e integrare questi ambiti a scale diverse. Per esempio, le micro-comunità affettive, delle quali la famiglia è un’istanza quando il dominio del patriarcato non ne soffoca l’operatività, non sono solo un luogo di cura, ma anche di educazione, di produzione di cibo, di sostegno emotivo e così via. Lo stesso vale per molte associazioni territoriali, come i beni comuni urbani. Inoltre, e fortunatamente, la suddivisione del livello operativo in diverse funzioni attraverso il VSM è come vedremo aperta all’integrazione con i sistemi 2 e 3, che ibridizzano, coordinano e articolano questi diversi ambiti e le supportano a sviluppare sinergie. Attraverso l’attività di commoning e boundary commoning (De Angelis, 2017), ciascuno di questi siti locali di riproduzione sociale può, a sua volta, aprirsi: le cliniche diventano spazi educativi, le scuole praticano anche attività di cura e le fabbriche e gli uffici diventano anche luogo di socializzazione per le comunità del territorio (come ha per esempio mostrato il movimento dell’occupazione e recupero delle fabbriche in Argentina soprattutto nella prima fase del movimento del 2001).
Prima di salire ai piani funzionali più alti, ci si chiederà: ma tutto questo lavoro di governance e autogestione che la democrazia profonda richiede, è gratis? Concepire la città come comune, significa anche cercare di creare le condizioni, con la lotta o con la democrazia profonda, affinché la gente possa partecipare, non solo alle operazioni della riproduzione sociale, ma anche alla loro gestione, nella consapevolezza che si tratta di produzione di esseri umani per mezzo di esseri umani. Tra queste condizioni, la lotta per il reddito di base e le nuove forme monetarie del comune che occorre sperimentare e sviluppare (Fumagalli 2022), spiccano tra le più sensate vie da perseguire per una finanza del comune oggi, una finanza che ci aiuti a liberare sempre più fette di tempo asservito al capitale.
Sempre stando a livello operativo, ma salendo di scala spaziale, ad esempio a livello di distretto, città, provincia, regione e così via, il modello può essere replicato, allo scopo di affrontare problemi specifici di quella scala, nonché quelli relativi al coordinamento, organizzazione, distribuzione di risorse e strutture tra le scale più piccole. Lascio aperta l’immaginazione dell’orizzonte costitutivo a questa sala spaziale. Il mio intento qui è sottolineare come sia fondamentale lavorare per l’auto-organizzazione dei lavoratori e degli utenti per una drastica riduzione se non l’eliminazione dei managers intesi nel senso tradizionale di scala gerarchica, pratiche ben documentate già come fattibili in grandi organizzazioni. Tra queste per esempio, spicca il caso di Buurtzorg (Laloux, 2014). Buurtzorg è una fondazione di assistenza istituita nel 2006 in Olanda, in cui 10.000 infermieri divisi in squadre di massimo 12 membri forniscono assistenza distrettuale in modo auto-organizzato, eliminando ogni forma di management gerarchico, e decidendo persino i loro salari e le attrezzature da acquistare. Nella sua qualità di cura, i risultati della fondazione superano di gran lunga quelli dell’assistenza privatizzata soffocati dalla gerarchia manageriale, migliorando drasticamente sia la vita lavorativa degli infermieri che l’assistenza fornita (cioè in linea con la congruenza tra fini e mezzi che abbiamo derivato dal concetto di riproduzione sociale…), semplicemente abbandonando i rigidi orari degli appuntamenti imposti da managers, ma permettendo agli infermieri di darsi il tempo e la libertà di costruire relazioni con i colleghi e i pazienti, nonché con i parenti e i vicini. In dieci anni, la fondazione è giunta a rappresentare l’80% del settore infermieristico distrettuale nei Paesi Bassi e attualmente sta fornendo un modello per altri ospedali.
Ora immaginiamoci questo tipo di autogestione, ma ancora più aperta e porosa verso il pubblico, invogliarne una parte, anche attraverso incentivi materiali, a fare, a pensare e a decidere in comune. Sto ora sforzandomi di immaginare, molto a tentoni, la costituzione dell’“associazione delle riproduttrici e dei riproduttori liberi”.
Un’ultima cosa, che non ho qui né lo spazio né il tempo per approfondire, ma è importante sottolineare visto che, come è noto, la città produce ed esporta entropia nel suo ambiente come debito entropico (si pensi che una città tipica di oggi importa la quasi totalità del suo cibo ed energia, ed esporta la quasi totalità della sua spazzatura), la governance di ogni nodo funzionale dovrebbe essere aperta non solo alle soggettività dell’ambiente cittadino, ma anche a quelle dell’ambiente dal quale la città deriva le sue risorse, e deposita le sue scorie. La complessità di questa operazione richiederà la sperimentazione di forme innovative di democrazia profonda a scale via via sempre più grandi.
Dentro la città come comune: guardando in alto
Guardiamo infine il ruolo degli altri livelli funzionali del VSM, quelli superiori al livello operativo. Il Sistema 2 ha il compito di coordinare i diversi ambiti del sottosistema 1, come la salute, l’istruzione, la cultura e così via. Anche il coordinamento è una funzione dell’autogestione, ma se nel sistema 1 essa avveniva all’interno di un ambito, qui avviene tra ambiti diversi. Un coordinamento che può essere certo supportato da protocolli e time tabling, ma il cui scopo non è solo coordinare scarse risorse tra i diversi ambiti operativi, ma anche spingere affinché gli scopi e gli obiettivi specifici dei diversi ambiti siano sempre più congruenti tra loro, e governare gli inevitabili conflitti o problemi di coordinamento. Il ruolo del Sistema 2 è assicurarsi che ci siano modi per affrontare tali conflitti, piuttosto che posticiparli fino a quando non diventano un problema reale, poiché tali conflitti spesso manifestano una tensione tra i mezzi e fini della riproduzione sociale. Questo obiettivo può essere raggiunto anche favorendo una cultura sensibile alle esigenze delle altre unità operative, di altri ambiti. Questo può essere fatto attraverso una serie di strumenti, come la creazione di vocabolari condivisi, sistemi informativi, standard tecnici e protocolli condivisi di comunicazione e di gestione delle assemblee comuni. Ma credo sia anche importante dedicare tanto tempo collettivamente a fare, creare e vivere la festa. Che il sistema 2 coordini anche la dimensione festaiola e ludica della cooperazione sociale tra ambiti diversi.
Il ruolo del Sistema 3 è ricercare, integrare e ottimizzare, nei limiti delle condizioni date, le possibili sinergie tra le unità operative del Sistema 1, i loro obiettivi specifici, in congruenza con l’ethos e le priorità che vengono definite a livello di sistema 4 e 5 di cui parleremo. Ho usato la parola ottimizzazione, e non voglio con questo riferirmi a un processo a tavolino. Ricordiamoci che stiamo parlando di riproduzione sociale e della sua governanza attraverso una democrazia profonda. In questo senso, ottimizzare significa che il sistema 3 promuove un processo collettivo trasversale tra diversi ambiti del sistema 1 al fine di generare una condizione o un risultato che possano essere considerati i migliori possibili, in quel contesto, con date risorse e in un dato rapporto tra le forze sociali. Il sistema 3 è il sistema che persegue continuamente un equilibrio tra la coesione dell’insieme e l’autonomia delle parti, in modo da garantire che le attività coordinate tra i diversi sottosistemi operativi abbiano più successo di quanto ne avrebbero avuto se tali sottosistemi avessero lavorato in modo isolato. Il Sistema 3 stabilisce anche un meccanismo per la contrattazione delle risorse e per l’audit dei componenti del Sistema 1. Esso collega i criteri decisionali a livello operativo con i criteri strategici dei livelli organizzativi superiori, in particolare il Sistema 5. Il Sistema 3 può essere inteso come formato dall’insieme di tutti i co-produttori del Sistema 1 a diversi livelli di ricorsione, suddivisi in gruppi di lavoro per questioni specifiche. Nel caso della governance diffusa di una città, il Sistema 3 può agire come un bacino di risorse istituzionali a un determinato livello di ricorsione, dove le risorse verrebbero assegnate ai vari ambiti del sistema 1 in modo aperto e trasparente per riflettere i dibattiti pubblici sulle priorità e gli obiettivi della riproduzione sociale nel contesto delle esigenze dell’ambiente. È chiaro che Il Sistema 3, per il suo ruolo di cerniera tra sistemi superiori (il 4 e il 5) e inferiori, (il 2 e soprattutto l’1) può trasformarsi in una trappola di “comando e controllo”, che si verifica quando individui e forze sociali dominanti si coalizzano a dispetto dello scopo e dell’etica originari stabiliti nel Sistema 5, e a spese delle reti di cooperazione sociale del Sistema 1. È quindi fondamentale che si trovino istituzioni e pratiche per limitare e contrastare ogni accumulazione di potere.
Il sistema 4, mobilita l’intelligenza collettiva necessaria per orientare la città in relazione a ciò che si muove nel suo ambiente in generale. La funzione di questo sistema è di cercare di garantire che l’insieme possa adattarsi rapidamente a sfide emergenti, creando e intrecciando saperi, formando piani, strategie e proposte di standard qualitativi e tecnologici, nonché allertando il sistema complessivo, a diversi livelli di ricorsione, sui cambiamenti che riguardano la praticabilità organizzativa in un contesto di coevoluzione con l’ambiente. Mentre i sistemi 1, 2 e 3 si riferiscono a questioni concrete da affrontare rispetto ai punti di crisi della riproduzione sociale che emergono a diverse scale dall’interno della città in una temporalità immanente, il sistema 4 guarda avanti in un quadro temporale anticipatorio, il che significa, quindi, che il sistema complessivo implementando a livello generale il doppio volto di Giano. (De Angelis, 2019). Il suo sguardo è rivolto al mondo esterno, anticipando le possibili sfide, le modalità e opportunità di adattamento del sistema a nuove circostanze. Il sistema 4 è quindi simile al “timoniere in fondo alla barca che vede arrivare una tempesta e decide di tracciare una nuova rotta in acque più sicure” (Espinosa e Walker, 2011: 52), sebbene nel nostro caso la decisione spetterebbe al sistema 5. Il sistema 4 rappresenta la componente strategica dell’intelligenza collettiva. Anche questo ruolo può e deve essere svolto in modalità collettive e inclusive, tipico per esempio della migliore pratica di ricerca sia accademica che non.
Infine, il Sistema 5 è il luogo in cui vengono elaborati e stabiliti lo scopo, la politica, l’ethos e l’identità di base della città a fronte dei cambiamenti del suo ambiente. Poiché questo scopo o meta-finalità è basato sulla riproduzione sociale, il Sistema 5 fornisce una chiusura organizzativa all’intero del sistema città, sulla base del perseguimento di una trasformazione delle condizioni sociali ed ecologiche di vita. Fornisce il meta-linguaggio necessario per interpretare e regolare l’interazione tra i sistemi 3 e 4, un meta linguaggio in continua evoluzione e che deve assicurare che ci sia un “dibattito equilibrato tra S3 e S4, in modo che le decisioni fondamentali sulle strategie e sulle politiche siano sia altamente creative” (per esempio quelle maturate dal sistema 4) “sia fattibili” (come quello del sistema 3 basate sul buon senso concreto e pragmatico) (Espinosa e Walker, 2011: 54). In questo senso, il Sistema 5 è l’autorità ultima della città come comune le sue politiche vengono messe in pratica dal Sistema 3 e il Sistema 4, in continua comunicazione tra loro, mentre svolgono le loro funzioni. Il Sistema 5 ce lo si può raffigurare in molti modi. Può essere visto attraverso la lente dell’autocrazia o di una “benevole” oligarchia come nelle aziende moderne, o di quelle della democrazia rappresentativa, e tutti questi modi, come si è visto, riducono in diversi gradi la varietà necessaria alla regolazione dentro la complessità. Nelle organizzazioni autocratiche (come le aziende), il Sistema 5 viene assunto da un piccolo gruppo privilegiato di dirigenti nominati. Nelle società democratiche — come nel caso del Cile di Allende, dove il VSM è stato adottato per la prima volta (Medina, 2011) — il Sistema 5 era il “popolo” attraverso la rappresentanza del presidente, del parlamento e del funzionamento della struttura gerarchica dello Stato. Ma possiamo anche immaginarci il Sistema 5 come un sito emergente di conflitto, di agonismo (per dirla con Mouffe) che emerge appunto in periodi di transizione, quando i movimenti dei beni comuni della città possono istituire sistemi di governance che assomigliano al VSM e li pongono non solo come ombra delle strutture di governance esistenti, ma anche come manifestazione di un doppio potere dentro la cooperazione sociale. In altri casi, se la politica della municipalità è ampiamente allineata con la priorità della riproduzione sociale e della governance democratica e della partecipazione, è possibile concepire che i movimenti dei beni comuni e la municipalità lavorino insieme verso una forma diffusa di governo della città, nel qual caso gli organi della municipalità possono trovare relazioni adeguate con i diversi sistemi stratificati di un VSM, creare le condizioni per lo sviluppo a diversi livelli funzionali di “commons-public partnerships” e partecipare direttamente ai lavori del sistema 5. In ultima analisi, e da una prospettiva ideale del comune, il Sistema 5 di una città può essere considerato come la combinazione di tutte le sue componenti a diversi livelli di ricorsione: un ampio orizzonte di apertura, che alimenta forme sempre più nuove e interconnesse di democrazia inclusiva; un’assemblea della moltitudine della città.
Guardare indietro, avanti, sopra e sotto
In conclusione, porre la città come comune significa prendere sul serio l’idea che i suoi abitanti possano governarla e che lo facciano per scopi sociali ed ecologici. Ma come non esiste un modello totalmente impermeabile ai flussi divisivi e di sfruttamento del capitale, così il modello qui presentato potrebbe in linea di principio essere utilizzato per contravvenire alle stesse idee democratiche ed emancipatrici che lo hanno ispirato. Abbiamo già accennato a come il VSM, in particolare, ha due nodi di meta-gestione che sono soggetti al pericolo di essere cooptati dal potere, ed avere effetti nefasti su tutta l’organizzazione, cioè il livello 3 e il livello 5. C’è però un’altra cosa che occorre esplicitare, e cioè il fatto che l’applicabilità del modello qui descritto è in qualche modo direttamente proporzionale all’esplosione di un contro-(altro)-potere collettivo. L’ipotesi di fondo della mia argomentazione è la seguente: più sottraiamo collettivamente la riproduzione sociale dai processi di accumulazione, più saremo in grado di ridurre la nostra dipendenza dai mercati capitalistici e diventare meno vulnerabili alla sua logica competitiva, alienante, ecologicamente distruttiva e sfruttatrice; e più saremo in grado di contrastare i processi di soggettivazione capitalistica che passano attraverso l’individualizzazione e la competizione, con la creazione di soggettività alternative attraverso il fare in comune, il commoning. È per questo motivo che ho individuato la riproduzione sociale come meta-finalità principale di un sistema di governo diffuso all’interno di una città. Individuare uno scopo, una finalità del governo di una città è fondamentale. Questa esplosione di un contro-(altro)-potere collettivo necessario alla trasformazione è espresso sia da grandi movimenti sociali capaci di sfidare e spostare i vincoli imposti sulla cooperazione sociale dal capitale, che dalla capacità di autogoverno della moltitudine, attraverso le molteplici forme auto-organizzate che chiamiamo commons. Il comune come modo di produzione, che sia questo visto entro la scala di una città o al limite, al mondo intero, non può prescindere, da un movimento istituente e costituente che passa necessariamente attraverso la creazione di una moltitudine di spazi e sistemi di autogoverno profondamente democratici della riproduzione sociale, cioè i commons.
Riferimenti
■ Beer, S (1981) Brain of the Firm. 2nd edn. NewYork:Wiley.
■ De Angelis M (2017) Omnia Sunt Communia. On the Commons and the Transformation to Postcapitalism. London: Zed Books.
■ Espinosa A and Walker J (2011) A Complexity Approach to Sustainability:Theory and Application. London: Imperial College Press.
■ Fumagalli, A. (2022) Circuiti monetari alternativi e politiche innovative di welfare locale. In Altraparola rivista.
■ Hardt, M. and Negri, A. (2009) Commonwealth. Cambridge, Mass: Harvard University press.
■ Jessop R (2016) The State: Past, Present, Future. Cambridge: Polity Press.
■ Laloux F (2014) Reinventing Organizations. A Guide to Creating Organizations Inspired by the Next Stage of Human Consciousness. Brussels: Nelson Parker.
■ Medina E (2011) Cybernetic Revolutionaries.Technology and Politics in Allende’s Chile. Cambridge, MA: MIT Press.
■ Savini, F., Ferreira, A. and von Schönfeld, K. C. (2022) PostGrowth Planning. London: Routledge.
■ Stavrides, S (2022). Spazio Comune. Città come commoning. Milano: Agenzia X.
Lascia un commento