Quella di Karalò è una “start up” fuori mercato, dove nessuno vuole “integrare” nessun altro, ma si valorizza lo scambio di competenze e di culture in cooperazione e fuori dal business: uno scambio da cui escono fuori portafogli, borse, porta tabacco, gonne e splendidi vestiti. Quella di Karalò è una storia nata in dicembre, dopo che in uno spazio romano abbandonato è stato ricostruito il tetto, montato l’impianto elettrico e sono state imbiancate le pareti. Quella di Karalò è la conseguenza di un incontro in un mercato delle autoproduzioni tra richiedenti asilo provenienti da Gambia, Mali e Senegal, alcuni operatori sociali del centro in cui sono ospiti, e il collettivo politico di Communia Roma. Quella di Karalò, parola mandinga che significa “sarto”, è più di una sartoria migrante, è una scuola di italiano, un’aula che ospita studenti e studentesse, un modo per partecipare allo sciopero dei migranti del Primo marzo e per ribellarsi facendo ogni giorno, per promuovere cene di autofinanziamento, mercatini e legami con CommuniaNet, rete diffusa in molte città. Quella di Karalò è una storia ricca di dignità
di Communia Roma*
Da qualche mese nello spazio di Communia Roma è nata Karalò: parola mandinga che significa “sarto”, Karalò è un laboratorio di sartoria migrante, progetto nato dall’incontro tra richiedenti asilo provenienti da Gambia, Mali e Senegal, alcuni operatori sociali del centro in cui sono ospiti, e il collettivo politico di Communia Roma.
Come rete nazionale CommuniaNet avevamo già fatto tesoro di esperienze di accoglienza dal basso coi migranti grazie al lavoro esemplare portato avanti dai compagni e dalle compagne di Bari con il progetto SfruttaZero (leggi anche Ribellarsi facendo la passata ndr), ma come collettivo romano ancora non avevamo sperimentato quest’esperienza.
A seguito dello scandalo di Mafia Capitale la situazione attorno a noi ha iniziato a mutare: le condizioni disastrose dei centri di accoglienza, degli ospiti, e di chi vi lavora sono entrate nel dibattito pubblico, così come la questione del business sull’accoglienza, della corruzione, Buzzi, Carminati, Odevaine, la cooperativa Cascina, fino alle dimissioni del sindaco Marino. Il paradosso vuole che dopo l’arresto dei criminali che hanno speculato sulla pelle di operatori e migranti, siano stati proprio questi ultimi a pagare il prezzo più alto. Con il commissariamento di Roma da parte del governo tramite l’affidamento a Tronca della gestione della città, con il malcelato scopo di velocizzare le privatizzazioni in nome del dogma del pagamento del debito, le cooperative indagate o inquisite nel processo di Mafia Capitale hanno visto i loro conti bloccati o sequestrati. Azione sacrosanta sulla carta, ma che però ha permesso a Tronca di approfittarne per tagliare ulteriormente i servizi sociali senza proporre alternative di sorta.
Per reazione le cooperative (non solo nell’accoglienza ma in tutti i servizi della capitale, per la maggioranza esternalizzati) hanno immediatamente smesso di pagare i salari agli operatori e sospeso i progetti di “integrazione” (non certo i loro dividendi) per i migranti come l’orientamento linguistico, lavorativo o scolastico,trasformando i centri d’accoglienza in dei veri e propri parcheggi umani dove sono garantiti esclusivamente vitto e alloggio (neanche sempre) e nessun’altra attività.
In questo pessimo clima gli operatori si sono autorganizzati nell’Assemblea dei Lavoratori dell’Accoglienza ed hanno posto pubblicamente la questione alla città con azioni, cortei e iniziative sindacali. Abbiamo supportato fin da subito questo percorso mettendo a disposizione il nostro spazio di mutuo soccorso per cene e feste di autofinanziamento, riunioni, mettendo in comune competenze ed energie. È dentro questa alleanza sociale tra attivisti antirazzisti, migranti e lavoratori autorganizzati che è nata l’idea di ospitare la sartoria Karalò a Communia.
Durante un mercatino delle autoproduzioni organizzato a Communia abbiamo conosciuto i sarti ospiti in uno di questi centri e subito è nata l’idea di collaborare. Le cooperative collassano e i progetti di “integrazione” falliscono? Il Comune è impegnato a smantellare i servizi sociali per ripagare il debito, abbandonando a loro stessi migliaia di poveri? Bene, proviamo a costruire insieme un esperimento di lavoro senza sfruttamento e alla pari, migranti e nativi/e, precari/e e disoccupati/e.
Una “start up” fuori mercato, dove nessuno vuole “integrare” nessun altro, ma si valorizza lo scambio di competenze e di culture in cooperazione e fuori dal business. Uno scambio però teso a produrre: oltre che porta tabacco, portafogli, borse, gonne e splendidi vestiti, anche riappropriazione ed autoganizzazione di classe. Quale occasione migliore per mettere in piedi un nuovo intervento mutualistico? E quale occasione migliore per questi ragazzi per emanciparsi dal centro di accoglienza, luogo assistenzialista per eccellenza, e avere un progetto autonomo, un proprio luogo di produzione senza i Buzzi a guadagnare sulle loro spalle, poterlo autogestire e parallelamente cooperare con il collettivo dello spazio prima e con la città tutta poi?
Un’occasione per noi occupanti di mettere in discussione le nostre identità personali e politiche, rimescolarle radicalmente, condividendo uno spazio quotidianamente con chi scappa da miseria, guerre e terrorismo. Con chi, abbattendo le frontiere, sta ridisegnando e mettendo in crisi l’Europa dell’austerità e del razzismo di stato. Riconvertire uno spazio sottratto alla speculazione partendo da alleanze sociali esplosive e dirompenti. Lì dove il neoliberismo disperde e isola la classe, bisogna provare a ricomporla con lenta impazienza, con umiltà ma anche la convinzione di percorrere la strada giusta.
L’entusiasmo è stato tanto da entrambe le parti e da subito ci si è rimboccati le maniche. Migranti, studenti/esse e precari/e si sono impegnati/e insieme per ristrutturare un locale diroccato di Communia e metterlo a disposizione del progetto. Ricostruito il tetto, montato l’impianto elettrico, imbiancate le pareti, il 17 dicembre 2015 la sartoria Karalò è ufficialmente nata.
Col passare del tempo le connessioni mutualistiche generate dall’apertura della sartoria si sono fatte sempre più evidenti, in primis nello sviluppo della comunità solidale che la circonda. Da parte del collettivo politico c’è una partecipazione e un’attenzione alla cura di quel luogo nuovo, che da subito si è trasformato oltre che in sartoria in un centro di aggregazione e socialità per molti altri ragazzi del centro di accoglienza. Vi è infatti un nutrito gruppo di persone che, tutti i pomeriggi, viene a passare il proprio tempo in uno spazio condiviso con gli studenti e le studentesse dell’aula studio Sharewood, altro progetto di autorganizzazione presente nello spazio di Via dello Scalo San Lorenzo 33.
Proprio per questa sua capacità di attrazione la sartoria ci ha dato la possibilità di riattivare la scuola d’italiano: sotto la guida di un’insegnante qualificata, alcune/i tra le studentesse e gli studenti di Sharewood restituiscono le ore di studio che passano a Communia attivandosi in alcune ore di lezione per i ragazzi e le ragazze migranti, in un’ottica di partecipazione mutualistica alla progettualità politica dello spazio.
Oltre a questo significativo elemento l’importanza della scuola d’italiano riguarda anche altri due fattori. Da una parte l’aspetto di “servizio” dal basso, ovvero l’insegnamento della lingua quale strumento fondamentale per permettere ai migranti di avere qualche strumento in più di autonomia. Dall’altra l’aspetto più politico, e quindi la possibilità di affrontare durante le lezioni questioni di rilevanza sociale. Questo si è ad esempio verificato in vista del primo marzo: la giornata dello sciopero migrante, il significato dello slogan “24 ore senza di noi”, le origini della contestazione e i motivi per cui scendere in piazza sono stati affrontati e discussi in più di una lezione. Il risultato, non a caso, è stata la partecipazione attiva a quella data di mobilitazione da parte di tutti i ragazzi della scuola, che hanno portato in piazza cartelli, striscioni e fatto un intervento inserendosi nel dibattito che quella giornata ha promosso.
Insomma non le solite lezioni standard e un po’ noiose, ma discussioni vivaci sui diritti negati, le lotte migranti in Italia e la necessità di coalizzarci contro chi ci sfrutta.
Nuove forme di solidarietà e cooperazione si ritrovano anche e soprattutto in gesti quotidiani: dalla cena africana cucinata insieme per autofinanziare la sartoria e per condividere sapori lontani, al portare a riparare in sartoria il proprio capo rovinato; dal prestare ai sarti i nostri abiti per ispirarsi a nuovi modelli, fino ad organizzarsi per accompagnarli ai mercatini ogni fine settimana per vivere insieme anche il momento della vendita. Tutto concorre a strutturare il nostro modello di accoglienza. Alla pari, senza sfruttamento e con tanta voglia di costruire un progetto insieme partendo da condizioni sociali sempre più vicine, dove nessuno è operatore e nessuno è ospite.
Inoltre è fondamentale riuscire a costruire una prospettiva che sia anche lavorativa ed economicamente sostenibile. Impegnarsi affinché il progetto della sartoria stia in piedi sulle proprie gambe, costruire una rete di contatti e relazioni, cercare nuove committenze e spazi di distribuzione. Tutto questo è loro compito quanto nostro.
Per questo, in prospettiva, l’ambizione è quella di inserire i prodotti di Karalò nella rete Fuori Mercato, realtà che lega tra loro autoproduzioni al di fuori del sistema di sfruttamento del lavoro e lontane dal vortice capitalista della produzione e della grande distribuzione organizzata. Per farla breve, non basta il successo politico, ma per essere sostenibile e riproducibile questa esperienza ha bisogno di un successo economico.
Sperimentare un diverso modello di accoglienza basato sul mutualismo conflittuale e in opposizione a quello assistenzialista è l’obiettivo del progetto Karalò. Tramite la cooperazione tra migranti, studenti/esse e precari/e si prova a inventare un lavoro fuori dallo sfruttamento, cercare un’emancipazione tramite il confronto e l’inclusione sociale praticata dal basso, al di là del colore della pelle, della lingua e della religione, e per il recupero (da entrambe le parti, oggi più che mai) della dignità di esseri umani.
Maria elena dice
Un’esperienza di grandissimo interesse. Peccato che non vivo a Roma altrimenti diventerei subito cliente! Spero di poterci capitare una volta 🙂