di Marco Bersani
Pare che al vicepresidente Di Maio sfugga il significato di ‘proprietà transitiva’ e, ancor di più, quello di ‘sillogismo aristotelico’. Solo così si spiegano la netta presa di posizione del nuovo governo contro la ratifica del Ceta (trattato di libero scambio Ue-Canada) e il contemporaneo via libera alla firma del Jefta (accordo di libero scambio Ue-Giappone), il cui negoziato verrà chiuso con una grande cerimonia a Tokyo il 17 luglio.
Ciò che non manca sicuramente al vicepresidente Di Maio è l’utilizzo dell’arrampicata sugli specchi – scuola retorica di lunga data – per spiegarne le ragioni: “Assieme alla firma, stiamo inviando delle osservazioni precise che riguardano agricoltura, piccole imprese e una serie di interventi necessari”, ha infatti dichiarato.
Non sa, o finge di non sapere, che il Jefta, come il Ceta, non sono emendabili e che tutte le raccomandazioni o dichiarazioni che si vogliano accludere alla sottoscrizione dello stesso, hanno effetti pratici nulli e applicabilità zero, perché esterne al testo legale del trattato firmato.
Eppure non stiamo parlando di un accordo secondario: il Pil del Giappone è tre volte quello del Canada e il trattato ha un valore complessivo pari a un quarto del Pil globale.
Mentre va rammentato al cantore della democrazia diretta Di Maio che il Jefta, come tutti i trattati cugini, è un negoziato segreto, reso pubblico grazie a un gesto -illegale ma legittimo- di Greenpeace, giova ricordare allo stesso, in estrema sintesi, le insidie contenute nello stesso: a) non riconosce il principio europeo di precauzione a tutela di ambiente e salute; b) spinge la liberalizzazione dei servizi; c) attacca l’agricoltura di qualità (protegge solo 18 indicazioni geografiche tipiche su 205); d) abbatte i controlli alle frontiere sui prodotti agroalimentari, aprendo un’autostrada alla contaminazione da Ogm, di cui il Giappone è leader brevettuale; e) abbassa ulteriormente le tutele sul lavoro (il Giappone non ha ratificato due delle otto convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro). In più, non occupandosi di investimenti, non sarà soggetto alla ratifica dei parlamenti nazionali.
Decisamente un bel capolavoro per un vicepresidente, il cui Movimento di appartenenza aveva sottoscritto in campagna elettorale la piattaforma “Ionontratto” e che, nel contratto di governo, aveva inserito il No a Ttip, Ceta e “ai trattati di medesima ispirazione per gli aspetti che comportano un eccessivo affievolimento della tutela dei diritti dei cittadini”.
E infatti l’intergruppo parlamentare No Ceta, composto da deputati e senatori di tutti gli schieramenti politici, ha immediatamente chiesto a Di Maio la sospensione del via libera dato alla firma del Jefta, mentre da giorni la campagna Stop TTIP/Stop CETA ha chiesto un incontro urgente con lo stesso. Ad oggi senza risposta.
La battaglia contro il Jefta si sposta verso il Parlamento Europeo che dovrà votare l’accordo entro dicembre 2018, ma il segnale che arriva dal vicepresidente Di Maio è molto preoccupante, sia per la gravità dell’accordo in sé, sia per come il Governo italiano affonterà, aldilà delle dichiarazioni, il processo di bocciatura del Ceta, sia, infine per i numerosissimi altri acccordi che sono in dirittura d’arrivo: Mercosur (America Latina), Vietnam, Singapore, Australia e quello con i Paesi del Mediterraneo.
La netta impressione è che o sui trattati di libero scambio si inverte la rotta o siamo all’assoluta continuità con tutti i governi precedenti. E perché le stelle non diventino meteore, al vicepresidente non basterà qualche ‘coup de theatre’ sui vitalizi, né tantomeno la vergognosa campagna razzista di spostamento della collera sociale verso chi cerca un futuro migliore e, per farlo, non può che salire su un barcone.
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