Ragionare di “intercultura”, “cittadinanza”, “cultura”, “comune” è difficile quanto importante. Si tratta, in tempi di nazionalismi, muri e identitarismi, di indagare i nessi e le differenze, e di scoprire come quei concetti trovano un senso pieno soltanto nella loro articolazione a livello globale con la possibilità di declinarsi in contesti territoriali. Vale allora la pena fare nostra un’idea di “cittadinanza” come perenne campo di tensione tra ricerca, invenzione di nuovi diritti e definizione di doveri, e di “cittadinanza del comune”, come qualcosa che, spiega Stefano Rota, “prende forma e vita all’interno degli spazi sottratti alle logiche di messa a profitto della totalità delle nostre vite…”
di Stefano Rota*
Parlare oggi di intercultura è tanto difficile quanto urgente. Essendo venute meno le condizioni storiche, culturali e politiche che hanno stimolato il dibattito sul multiculturalismo dalla fine degli anni Sessanta fino all’inizio del nuovo millennio, dando vita a vari modelli e pratiche interculturali, ripensare oggi l’intercultura porta necessariamente la riflessione su un terreno più ampio, perché la posta in gioco è decisamente più alta. Le tendenze su scala globale vanno oggi in una direzione drammaticamente opposta al multiculturalismo, da qualunque parte si voglia affrontare il tema: la propensione a definire identità collettive sulla base di un monoculturalismo nazionale, che nei fatti non esiste, taglia trasversalmente un’ampia parte del pianeta, così come la stratificazione sociale che dà forma a ogni Stato-nazione, con una particolare incisività sulle classi più svantaggiate. Su questa base, vengono fatte scelte economiche e politiche con lo scopo di consolidare l’idea di un interesse superiore da perseguire con tutti i mezzi, attraverso lo screditamento, la stigmatizzazione, l’esclusione di tutti coloro che non rientrano, oggettivamente e/o soggettivamente, nel “noi nazionale”, o di tutto ciò che non è funzionale al suo ulteriore rafforzamento e riconoscimento come valore indiscutibile. Esempi molto attuali includono l’Europa nella sua quasi totalità, l’India, la Turchia, gli Usa.
L’intercultura, come pratica individuale e collettiva, è per forza di cose, quindi, un’espressione dell’agire di una soggettività il cui orizzonte non può che essere quello di una proposta complessiva e articolata sul significato che assume oggi il termine “cittadinanza”. In questo senso, l’intercultura è una pratica di attuazione (acting) politica a tutto tondo.
Esiste un legame intrinseco tra intercultura e cittadinanza. Si potrebbe dire che i due sostantivi definiscano in modo coestensivo l’ambito al cui interno si palesano tutte, o quasi, le tensioni sociali, politiche, culturali, sessuali che perimetrano l’arena del conflitto giocato sul piano giuridico-istituzionale, socio-culturale ed economico-finanziario. Entrambi i termini evocano, in positivo o in negativo, per sostenerli o per negarli, gli spostamenti, il rapporto dialettico tra apertura e chiusura, l’identità, i confini, i diritti, le comunità.
Parlare di intercultura senza trattare il tema della cittadinanza, o viceversa, non sembra quindi possibile, a meno di voler negare il portato e la valenza politica che la prima (dandone per scontato il riconoscimento per la seconda) oggi più che mai presenta.
Provo a dare la seguente definizione di cittadinanza: è la traduzione dei rapporti di potere, basati sulle possibilità di rappresentazione e rappresentanza, sulla condivisione, riconoscimento, o disconoscimento, di diritti considerati indiscutibili per la conduzione di un’esistenza collettiva, per come ciascuno la intende, tra una molteplicità di soggetti che agiscono in un determinato contesto, non necessariamente riconducibile ai confini dello Stato-nazione. Ne consegue che la cittadinanza è uno status sempre in fase di costituzione, sempre soggetta ai mutamenti di quei rapporti, sotto la spinta di richieste, lotte, alleanze, rivendicazioni, sovversioni e restaurazioni. La cittadinanza è l’ambito par excellence di rappresentazione del conflitto socio-politico e culturale.
L’impressione è che se si sostituisse il sostantivo “cittadinanza” con quello di “intercultura” nel paragrafo sopra, non ci sarebbe alcun bisogno di cambiare la definizione che ne viene data.
Per dare il senso del contenuto conflittuale insito nel concetto di “costituzione di cittadinanza”, termine usato da Balibar (2012) per tradurre politeìa e per evocare il carattere costituente della cittadinanza stessa, vorrei porre l’accento sui diritti considerati indiscutibili. Gli esempi che si possono fare, non appena ci fermiamo a riflettere su questa definizione, sono molti e generalmente riconosciuti (ma non per questo univocamente interpretati) come elementi costitutivi dello spazio della cittadinanza. Ognuno di questi fa riferimento a una combinazione – negoziata e sempre negoziabile – di diritti e doveri: casa, reddito, libertà di amare, giustizia, studio, cultura, trasporti, salute, ecc. Il peso che si assegna a ciascuna delle due polarità – diritti e doveri – definisce, attraverso un processo di articolazione dei significanti che prende in considerazione, un posizionamento, un modello di cittadinanza che agisce all’interno del rapporto di potere che lo genera.
Con questo termine si intende il modo in cui ognuno è parte e agisce all’interno di una comunità sulla base di un sistema di valori e convinzioni politiche che formano l’”habitus” ideologico-culturale – variabile, sempre in costituzione – a cui ogni individuo fa riferimento nel proprio agire quotidiano. Tanto per fare un esempio banale, il modello di cittadinanza sulla cui base agisce Borghezio non avrà niente in comune con quello a cui fa riferimento uno degli attivisti di Baobab. In entrambi i casi, entrano pesantemente in gioco dei “contenitori valoriali”, quali esclusione e inclusione, legalità e illegalità, legittimità e illegittimità, al cui interno vengono declinate le combinazioni tra diritti e doveri di cui si è detto. In entrambi i casi, quindi, siamo di fronte a una “cittadinanza attivista”, a due agencies, separate da una distanza siderale.
Il perimetro e i contenuti della cittadinanza, giuridicamente formalizzata e vigente in un determinato periodo storico, vengono definiti all’interno di un ordinamento giuridico nazionale e, entro certi limiti, sovranazionale. Rappresentano, più che il minimo comune denominatore, il differenziale irriducibile tra molteplici modelli, imponendosi, storicamente e temporaneamente, come dominanti e sostanziando la rappresentazione istituzionalizzata del conflitto socio-culturale e politico che anima e permea l’intero corpo sociale. Ma non per questo gli altri cessano di esistere, quindi di agire, dentro e contro il rapporto di potere che quel modello incarna. Il dibattito sullo ius soli e ius culturae e le modifiche che da esso ne potrebbero conseguire ne rappresenta l’esempio più attuale.
Volendo dare parimenti una definizione di cultura, si potrebbe parlare, anche in questo caso, di un campo di lotta tra forze che occupano una posizione egemone e forze che tendono a sottrarsi, o quanto meno a contrapporsi, a tale egemonia, nella proposta di contenuti, linguaggi, chiavi di lettura, manifestazioni che raccontano e interpretano i fatti che scandiscono il nostro tempo. In questa “guerra di posizionamento”, come la definisce Sturart Hall, la cultura egemone prende la forma di norme che esplicitano contenuti, modalità e ambiti di applicazione di principi, valori, categorie, credenze, codici di comportamento nella relazione tra esseri umani e con il “non-umano”. Tali norme fanno apparire un dato sistema culturale come ciò che è “naturalmente” espressione di un determinato contesto in una determinata fase storica. Il senso di “naturalezza” delle norme produce nell’individuo il processo di soggettivazione e assoggettamento dentro a quel rapporto di potere, ognuno secondo una sua specifica collocazione, nel momento in cui viene interpellato dalle norme stesse. La capacità pervasiva da parte del sistema culturale che viene così a collocarsi al livello della vita delle persone denota il suo carattere egemonico, ma non esclusivo.
Cittadinanza, cultura e, conseguentemente, intercultura implicano quindi “l’accettazione e il riconoscimento del conflitto [come] condizione di possibilità dell’equilibrio dinamico istituzionale” dell’ambito su cui insistono. È un conflitto che ha assunto forme molto diverse nel corso dei secoli, fino a declinarsi in una vasta molteplicità di ambiti, soggetti e forme nel nostro tempo contemporaneo. Allo stesso modo, ha generato forme di autogoverno e autogestione decisamente non in sintonia con l’ordine del potere costituito: anche su questo, esempi importanti ci vengono dal passato e ancor più sono riscontrabili nel presente.
“La città medievale è lo spazio dove si manifesta il potere non legittimo, un laboratorio politico dove nascono la borghesia e il popolo come soggetti collettivi e autonomi con caratteristiche usurpatrici e rivoluzionarie in opposizione ai poteri legittimi di natura patrimoniale e feudale” (SMP, FUPress, 2014, pag. 16).
“Il popolo non era soltanto un concetto economico, ma anche politico: una comunità politica distinta all’interno del comune, con i suoi funzionari, le sue finanze e la sua costituzione militare: nel senso più autentico della parola, uno Stato nello Stato, la prima aggregazione politica del tutto consapevolmente illegittima e rivoluzionaria” (M. Weber, La città, 2003, pag. 134-135).
In questi due passaggi, uno di commento all’importante testo di Weber sulla cittadinanza contenuto nella sua opera postuma General Economic History (1920) e l’altro dello stesso Weber nel suo saggio sulla città, si manifesta chiaramente la forza di un potere costituente, a cui corrispondono implicazioni importanti sul piano della ridefinizione della cittadinanza e del portato culturale e valoriale di popolo e comunità, su una base “consapevolmente illegittima e rivoluzionaria”.
Con la nascita degli Stati-nazione, il popolo diviene una funzione dello stato. Ancora Balibar riporta una bella citazione di Nietzsche, che esemplifica – e drammatizza – questo concetto: “Io, lo Stato, sono il Popolo”. La nascita della statistica e dell’economia politica sanciscono questo ingresso della popolazione nel suo complesso, nell’orizzonte dell’agire dello stato come entità di governo di un popolo (Foucault, 2011). Lo stato si identifica con il popolo che a sua volta si identifica nello stato. Nonostante tale pretesa di reciproca identificazione, l’eccedenze alla stessa si costruiscono continuamente all’interno di quel rapporto, attorno a diritti reclamati e non sempre conquistati che spostano più in alto l’asticella del contenuto della cittadinanza, includendo di volta in volta i diritti civili, il diritto al lavoro, il diritto alla salute, all’educazione, all’autodeterminazione.
Come non vedere processi simili, oggi, negli spazi liberati dall’asfissia neoliberale di messa a profitto delle nostre vite intere? Nella valorizzazione di beni sottratti alla logica pubblico-privato e riconsiderati, invece, come “comuni”? Nell’organizzazione di forme di welfare autogestite nei quartieri a favore dei soggetti socialmente ed economicamente più svantaggiati? La tendenza a un superamento della dimensione nazionale come ambito di riferimento privilegiato per la definizione dello spazio di azione e costituzione dei movimenti eccedenti e del modello di cittadinanza che esprimono, sembra riproporre la città come ambito ideale per un laboratorio politico dove si formano e operano “soggetti collettivi e autonomi con caratteristiche usurpatrici e rivoluzionarie”.
Per dare il senso di come sia su questo piano – quello della biopolitica e della bioeconomia, quindi ben oltre un ambito specifico predominante su altri – che si gioca oggi la partita della cittadinanza, Balibar (2012) riprende la categoria di cittadinanza sociale. La sua applicazione, però, va oltre il senso che aveva nel secolo scorso, cioè a dire “un meccanismo di solidarietà universale su scala del corpo politico dello Stato” centrato sulla “universalizzazione della categoria antropologica del ‘lavoro’” (pag. 68). Il suo universo di riferimento trasborda verso ambiti che presuppongono di per sé il superamento tanto della centralità di quella categoria come elemento cardine per interpretare il presente, quanto della dimensione nazional-statuale come suo perimetro geopolitico. È su questo piano che l’intercultura appare come intrinsecamente interconnessa con la cittadinanza. Ogni forma associativa, collettiva, in modo più marcato se include cittadini non “nativi”, al cui interno prende forma questo modello di cittadinanza sociale è necessariamente interculturale: gli spazi al cui interno “attuano” i soggetti, le soggettività che si costruiscono, sono fortemente interessati da e vivono delle intersezioni, contaminazioni tra reciproche differenze, dalla diluizione del tratto che marca i confini; sfuma il ruolo centrale della traduzione e “lo spazio si connota attraverso la tessitura di similarità e differenze che rifiuta di scindersi in opposizioni binarie definitive” (Hall, 2006, pag. 289).
Il rapporto tra differenze, anzi, tra il diritto alla differenza e partecipazione alla vita della comunità – la cui estensione non può essere determinata a priori, sulla base di categorie di per sé escludenti – costituisce il campo dell’agire interculturale e il “moto di rivoluzione” della cittadinanza lungo l’orbita ellittica così creata.
Secondo E. Isin, la cittadinanza è “un’istituzione in flusso, incorporata nelle attuali battaglie politiche e sociali che la costituiscono” e “dovrebbe essere sempre interpretata prestando attenzione agli elementi fluidi e dinamici che costituiscono i suoi diritti, luoghi, scale e attori”. (Isin, 2009, pag 370 e 374). Questa definizione, tanto importante quanto utile per i fini di questo articolo, si accompagna a un altro concetto che sta alla base dell’elaborazione teorica di Isin sul tema della cittadinanza: l’acting, ovvero l’attuazione. Distinguendola dall’azione, l’acting rappresenta “rotture o avvii […] che creano una scena, più che seguire una sceneggiatura” (pag. 379, traduzioni mie).
Esiste quindi una correlazione diretta tra costituzione e insurrezione, con forme diverse nei periodi storici in cui si articola e viene riprodotta nelle mappe dell’agire di soggettività e movimenti che vivono all’interno di questa correlazione. I movimenti che si dispiegano all’interno di questa dialettica in ogni angolo del globo danno il senso di come il rapporto tra insurrezione e costituzione sia più che mai attuale. Allo stesso modo, indicano una corrispondenza epistemologica tra tali movimenti e la definizione di cittadinanza, evidenziando l’urgenza di porre la questione in termini di “ri-inizi della cittadinanza rispetto ai cicli del capitalismo” (Balibar, pag. 66-67).
È possibile interpretare le esperienze del Rojava, Napoli, Barcellona, Atene, Instambul, movimenti indigeni in sud America, Black Lives Matter, le pratiche autonome dei migranti, solo per citare alcune esperienze che marcano chiaramente forme di resistenza attiva, anzi, attivista, alle tendenze predatorie ed estrattive del neoliberismo rispetto tanto al territorio quanto alle vite delle persone, come espressione di un nuovo modello di cittadinanza sociale che si dispiega a livello globale? E se sì, quale peso ha al suo interno la definizione di pratiche interculturali, come ricerca e valorizzazione della differenza, o, se vogliamo, dell’articolazione delle differenze che si presentano come equivalenti tra di loro, pur operando in ambiti molto diversi, in quanto tutte riconducibili a quelle forme di resistenza attivista?
La risposta sta già dentro l’assunto incluso nelle domande: i concetti di cittadinanza e di intercultura trovano un senso pieno solo nella loro articolazione a livello globale, mantenendo comunque la possibilità di declinarsi in contesti specifici. I diritti sono sempre “inventati”, conquistati, per poi estendersi ad altri diritti, ma questo o avviene a livello globale, o non è. Se il mio diritto ad avere un reddito mi porta ad acquistare una maglia prodotta dove il lavoro viene pagato un euro al giorno e dove si muore sotto le macerie di un palazzo per questo o vengono espropriati territori immensi in Argentina a discapito delle popolazioni locali per estrarre la materia prima necessaria, sto usufruendo di un diritto relativo, escludente. Lo stesso per un kg di mais, avocado o carne prodotto a discapito della possibilità di sopravvivere di popolazioni indigene e del loro ambiente, o qualunque altro prodotto possa venire in mente.
Se si intende definire un nuovo processo costituente della cittadinanza su scala globale, perché solo su questa scala ha senso parlare di diritti da rivendicare e conquistare, pratiche di resistenza da consolidare, esperienze di vita all’interno di spazi liberati da condividere, è necessario porsi il quesito riguardo al senso che può avere anche una definizione di pratiche interculturali su quella stessa scala. Questo conduce a ri-territorializzare anche i concetti di esclusione, inclusione, inclusione differenziale, esclusione interna. Questo può avvenire, come già ben illustrato da Sanro Mezzadra (2008), attraverso la ridefinizione delle suddivisioni tra aree del pianeta, le logiche di contiguità e di separazione tra queste, le forme di connessioni che si stabiliscono e su quali basi.
Per non dare l’impressione di voler andare dietro a immagini un po’ romantiche e francamente scarsamente produttive, evocate da termini quali “cittadini del mondo”, si identifica lo sbocco del processo di costituzione o di re-invenzione della cittadinanza, sulla base di quanto detto finora, nella “cittadinanza del comune”. Lo stesso processo conduce a definire le pratiche interculturali e il loro ambito di riferimento in modo simile.
Il termine “comune” si può intendere e declinare in modi diversi, ma comunque attinenti a quanto si intende sostenere. La cittadinanza del comune prende forma e vita all’interno degli spazi sottratti alle logiche di messa a profitto della totalità delle nostre vite, alle divisioni binarie, sempre mediate, ma allo stesso tempo ribadite, da traduzioni “violente”, tra culture, nella messa in comune di pratiche costitutive di soggettività che attuano all’interno di contesti anche molto diversi tra loro, ma che condividono l’urgenza del diritto a esigere diritti. La cittadinanza del comune si articola, quindi, nella aree ridefinite dalla globalizzazione come contigue o, al contrario, “confinate”, ben al di là dei perimetri nazional-statuali, mettendo in relazione aree interne – la cittadinanza della scuola Pisacane di Torpignattara, ad esempio, evocata da Cecilia Bartoli di Asinitas -, con aree esterne (le forme organizzative e di reciprocità assunte dalla popolazione del Rojava hanno molto da insegnare, da questo punto di vista). Allo stesso modo, come già detto in precedenza, la definizione di diritti ha bisogno di una ri-territorializzazione, ribadendo la necessità di formalizzare al proprio interno connessioni che già esistono di fatto.
Riprendendo ancora Balibar e applicando il suo pensiero a quanto qui detto, appare evidente come esista un differenziale tra insurrezione e costituzione che nessuna rappresentanza formale politica può riassumere. La cittadinanza, quindi, come perenne campo di tensione tra ricerca, invenzione, di nuovi diritti e definizione di doveri che, proprio su questo, sanciscono il carattere “illegittimo” della cittadinanza. Questa condizione porta la cittadinanza stessa a oscillare sempre tra distruzione e ricostruzione. Il suo orizzonte, così come quello dell’agire interculturale, prescinde da e provincializza i confini che si tende oggi più che mai a ribadire, ma di fatto resi obsoleti tanto da pratiche “estrattive” globali, quanto dai soggetti che ribadiscono con forza la propria indisponibilità all’assoggettamento a tali pratiche e ai modelli culturali che le “normalizzano”.
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Quest’articolo è anche sul blog di Transglobal” .
* associazione Transglobal
Stefano Rota dice
Grazie Gianluca!