Nel libro “La criminalità oltre il crimine” si racconta come la teoria sociale e la pratica investigativa possono esser elementi chiave per comprendere l’insicurezza e le trasformazioni urbane. °Delinquenti non si è, si diventa; tra bene e male non c’è una netta linea di separazione – dice l’autore – Il problema? Si è accentuata la diseguaglianza sociale, ampliata la massa degli esclusi, si sono disgregate le reti di comunità imperniate sul lavoro sicuro e sul Welfare, ha prevalso la competizione individuale. Per questo si moltiplicano più facilmente “sistemi chiusi” che non offrono alternative se non quella di aderire alle leggi della strada. Si creano sistemi sociali dotati di propri schemi e standard normativi che non contemplano, se non preventivamente autorizzate e stabilite, decisioni individuali. E il marciapiede è il palcoscenico di questa azione quotidiana, dove gli attori per avere visibilità e riconoscimento devono agire secondo criteri rigidamente codificati. Si forma dunque un intreccio di reti sociali criminali di varia natura, formali e informali, di tipo personale o familiare, di amicizia o di vicinato, nazionali e internazionali”. Sorprende sapere che l’autore di questa coraggiosa analisi è un maresciallo dei carabinieri.
di Mario Spada
C’è un piccolo libro “La criminalità oltre il crimine” (ediz. Il Campano, Arnus University book, Pisa 2013) scritto dal maresciallo dei Carabinieri Giovanni Sabatino che ha il merito di unire la ricerca scientifica alle convinzioni acquisite empiricamente nel corso di una ventennale attività investigativa. L’autore definisce la sua teoria del comportamento criminale con l’accattivante termine: “Intelligence del marciapiede”. L’introduzione del libro è di Umberto Veronesi che da scienziato conduce la sua battaglia contro i luoghi comuni che bollano definitivamente il delinquente come cattivo e lo confinano in carceri che non svolgono alcuna funzione rieducativa: pensare che i “cattivi” sono “cattivi” per sempre è antistorico e antiscientifico.
Il libro contiene un’ autobiografia di Carmelo Musumeci, ergastolano condannato al “fine pena mai”, ovvero a morire in carcere a causa di leggi e regolamenti carcerari riservati alla criminalità organizzata. Fu un capo della mafia della Versilia, catturato dai Ros nel ’91 è entrato in carcere con il titolo di studio di licenza elementare e da detenuto ha conseguito due lauree, in sociologia del diritto e in giurisprudenza. E’ un uomo che cerca disperatamente un dialogo con l’esterno per sensibilizzare chi non sa o non vuol sapere che “la morte viva” alla quale lui e molti altri sono condannati è stata contestata al governo italiano dalla Corte di Giustizia europea e si configura come tortura.
La teoria sociale del crimine, elaborata dal maresciallo Sabatino, si fonda in buona parte sulla autobiografia di un criminale, e già questa è una interessante novità. La testimonianza di Musumeci, dura, sincera e toccante, conferma la tesi del maresciallo: nella maggior parte dei casi delinquenti non si è, si diventa; tra bene e male non c’è una netta linea di separazione. C’è una “benevolenza del male” se pensiamo al sincero pentimento di un ergastolano e una “malvagità del bene” se pensiamo al prete che picchia a sangue il piccolo Musumeci.
L’analisi del maresciallo parte dalle periferie urbane costruite nella fase di industrializzazione del paese quando ci furono massicci inurbamenti di contadini che abbandonarono le campagne. Furono costruiti insediamenti intensivi che avevano come riferimento la figura sociale del lavoratore capofamiglia. Quartieri che già all’origine presentavano i problemi propri delle comunità ghettizzate, dove era concentrata una sola classe sociale, quella operaia, aperta ad alcune categorie di esclusi. Negli ultimi trent’anni la globalizzazione e la deindustrializzazione hanno peggiorato il quadro: si è accentuata la diseguaglianza sociale, ampliata la massa degli esclusi, si sono disgregate le reti di comunità imperniate sul lavoro sicuro e sul Welfare, ha prevalso la competizione individuale.
La massiccia disoccupazione di giovani costretti ad una forzata inattività, la promiscuità di gruppi di origine etnica diversa, il radicamento di reti illegali che spacciano stupefacenti, ricettano la refurtiva, sfruttano la prostituzione sono gli ingredienti di quell’impasto di illegalità che crea la “periferia”, che induce a parlare di “quartieri difficili” nei quali prevale l’insicurezza sociale e la paura. Sono i quartieri nei quali si producono più facilmente i “sistemi chiusi” che non offrono alternative se non quella di aderire alle leggi della strada. Scrive l’autore che ciò che si realizza è ” un sistema sociale autonomo, dotato di propri schemi e standard normativi comprendenti il comportamento di ciascun individuo all’interno di essi. Non contemplando, se non preventivamente autorizzate e stabilite, decisioni individuali”.
Quando si offre una anche minima opportunità di uscire dal sistema chiuso i benefici sociali si vedono subito: la Biennale di Architettura di Venezia del 2008 fornì un quadro esauriente dei problemi delle megalopoli e illustrò casi significativi come quello di una bidonville di Bogotà dove è bastato l’inserimento di un centro sportivo ben attrezzato e gratuito per abbassare il tasso di microcriminalità del 70 per cento. Anche le testimonianze di ergastolani “ostativi” contenute nel libro di Francesca De Carolis “Urla a bassa voce” (ed. Stampa Alternativa 2012) rivelano che quasi tutti si considerano vittime del “sistema chiuso” nel quale sono cresciuti. Tutti, in particolare coloro che hanno studiato in carcere ed hanno scoperto il valore della cultura, dicono :” se avessi saputo che c’era un’altra strada!”
La devianza è una costruzione sociale che affonda sul terreno della realtà dove germoglia l’ordine simbolico che presiede ogni azione degli attori. Il marciapiede è il palcoscenico dell’azione quotidiana, dove gli attori per avere visibilità e riconoscimento devono agire secondo criteri rigidamente codificati. Si forma un intreccio di reti sociali criminali di varia natura, formali e informali, di tipo personale o familiare, di amicizia o di vicinato, nazionali e internazionali dando vita al crimosistema nel quale non c’è alcuna distinzione tra micro e macro criminalità.
Il crimine non dipende necessariamente da predisposizioni interiori intrinsecamente buone o cattive quanto dal livello e dal tipo di adesione sociale a determinati valori rispetto ad altri. Il capitale sociale criminale è sostenuto da due pilastri: la razionalità dei devianti e le opportunità criminali che le situazioni favoriscono. La devianza è quindi fondata su una lucida razionalità, l’attore criminale opera rispetto a previsioni di benefici nell’ambito di un contesto dal quale è influenzato. Le politiche della sicurezza, ammonisce l’autore, fanno l’errore di distinguere tra micro e macro, mentre dovrebbe essere compresa la stretta relazione tra il piccolo spacciatore e lo stimato commercialista che ricicla il denaro delle attività illegali.
Zigmunt Baumann sostiene che si sta consumando il passaggio da un modello di comunità inclusiva, basato sullo Stato sociale ad uno Stato giudiziario, penale, basato sul controllo della criminalità, ovvero uno Stato che esclude. Sabatino conclude con una riflessione sulla realtà urbana nella quale il quartiere costituisce la dimensione molecolare della società. E’ qui che, per alcune classi sociali ,si configurano i sistemi di adesione sociale, i comportamenti ammessi e le scelte di vita. Sul quartiere ci si dovrebbe concentrare per far emergere le positive forze endogene che possono configurare un nuovo quartiere, una sorta di “quartiere impresa”, secondo Sabatino, in grado di sviluppare le risorse economiche ed umane che consentano una più equa redistribuzione della ricchezza. Il tema è complesso, di grande rilevanza urbanistica in una fase congiunturale affidata alla rigenerazione urbana che necessita di progetti integrati e partecipati in grado di dare risposta all’insieme dei problemi delle periferie urbane.
E’ comunque confortante che la Benemerita Arma dei Carabinieri consenta al maresciallo Sabatino di realizzare la sua ricerca, al di fuori dei canoni formali, con il coraggioso innesto di testimonianze di criminali, intimamente pentiti, come quella di Musumeci. E che altri ufficiali in altre sedi abbiano dimostrato una conoscenza delle più avanzate teorie sociali per operare con la consapevolezza che la prevenzione riduce di molto il ricorso alla repressione.
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