di Marco Bersani
“Per chi legge in buona fede il mandato negoziale del T-tip, è del tutto evidente che i servizi pubblici non sono oggetto di negoziazione” era il leit-motiv dell’ex-viceministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, prima di essere recentemente nominato “ambasciatore” del governo presso l’Unione europea. “A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” verrebbe da rispondere citando il famoso “belzebù” della prima repubblica. D’altronde, basta leggere quanto previsto dal Ceta (Accordo commerciale Ue-Canada, la cui ratifica partirà nel 2016) e dal T-tip (Accordo Usa-Ue, in fase di negoziazione) per capire chi ha ragione.
Il trucco principale risiede nella definizione di “servizio pubblico” adottata in questi accordi. Una definizione che si basa su due negazioni:
a) non è servizio pubblico, quello la cui erogazione può essere effettuata anche da soggetti diversi dall’autorità di governo;
b) non è servizio pubblico, quello per la cui erogazione è previsto un corrispettivo economico, anche una tantum.
Da queste designazioni emerge chiaramente come l’istruzione e la sanità non vanno considerate servizi pubblici, in quanto possono essere erogati anche da soggetti privati, così come l’acqua, l’energia, i rifiuti e il trasporto pubblico, in quanto per la loro erogazione è previsto il pagamento di una tariffa. Persino la tessera della biblioteca di quartiere (5 euro/anno), essendo un corrispettivo una tantum, ne fa decadere il carattere di servizio pubblico. Di conseguenza, il governo ha ragione quando sostiene che i servizi pubblici sono esclusi dai negoziati commerciali, a patto che precisi che, per Ceta e T-tip, i servizi pubblici sono solo i seguenti: l’amministrazione della giustizia, la difesa, l’ordine pubblico e la definizione delle rotte aeree internazionali.
Tutto questo non basta: dentro quasi ogni capitolo dei negoziati Ceta e T-tip troviamo elementi che vanno nella direzione della privatizzazione dei servizi pubblici. Vediamone solo alcuni:
a) si passerà dagli “elenchi positivi”, sinora utilizzati negli accordi commerciali, all’approccio dell'”elenco negativo”; ovvero, mentre sinora erano i governi a stabilire quali servizi mettere sul mercato, da adesso tutti i servizi sono soggetti a privatizzazione, salvo quelli contenuti in esplicite eccezioni;
b) verranno adottate le clausole standstill e ratchet: la prima prevede l’impegno a non adottare nella legislazione nazionale misure più restrittive rispetto a quelle previste negli accordi; la seconda prevede che un paese non possa reintrodurre una determinata barriera precedentemente rimossa su un determinato settore; con buona pace del referendum sull’acqua e di tutti i processi di rimunicipalizzazione del servizio idrico in corso in diversi paesi europei;
c) saranno impedite la libera distribuzione di acqua ed energia per finalità di interesse pubblico, così come gli obblighi di servizio universale previsti nei servizi postali;
d) verrà resa obbligatoria la gara internazionale per ogni appalto pubblico, con la fine di ogni fornitore locale e processi infiniti di esternalizzazione.
Senza contare come Ceta e T-tip consentano alle imprese di citare in giudizio, presso arbitrati commerciali internazionali, i governi per ogni norma da queste considerata ostativa al raggiungimento dei propri obiettivi di profitto.
Con buona pace del governo, l’attacco ai servizi pubblici è dunque uno degli obiettivi primari di Ceta e T-tip. E, d’altronde, se così non fosse e se i servizi pubblici stessero tanto a cuore, può il governo spiegare perché l’Unione europea – e dunque anche l’Italia – partecipa al Tisa (Accordo sul commercio dei servizi), altro trattato segreto, il cui unico obiettivo è la liberalizzazione totale dei servizi pubblici? Non può farlo. Per questo dovranno essere le donne e agli uomini, di questo e di tutti i paesi coinvolti dal T-tip, ad avere il compito di fermarlo, difendendo i beni comuni e reclamando un altro modello sociale. Per il diritto di tutte e tutti ad un diverso futuro.
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