L’attacco terroristico nel cuore della capitale nordafricana, un uomo si è introdotto nel pullman della guardia presidenziale e si è fatto esplodere uccidendo 12 persone e ferendone altre 20, è stato rivendicato dall’Isis. Il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza e posto il coprifuoco. E’ un colpo micidiale per la già molto malferma “transizione alla democrazia” che tradisce le speranze della rivoluzione del 2011 ma tanto piace ai leader europei. Isteria e demagogia si fanno ora largo agevolmente a spese delle tutele di quei diritti che, secondo alcuni, indebolirebbero l’azione di contrasto verso il terrorismo che lo Stato continua a vantare con la massima prosopopea. Intanto, le forze dell’ordine aggrediscono i giornalisti e non manca chi è pronto a invocare la tortura e a rimpiangere la sanguinosa dittatura di Ben Alì. Secondo il più classico dei copioni, il popolo tunisino parrebbe destinato a rimanere schiacciato tra un’aggressione omicida e fanatica e una risposta autoritaria e liberticida che ne rappresenta in un certo modo un’immagine allo specchio
di Patrizia Mancini
Tunisi, il giorno dopo l’attentato, si è risvegliata sferzata da un vento gelido e da spruzzi di pioggia improvvisi. Colti alla sprovvista, decine di giovani che si accalcano, nonostante tutto, davanti allo sportello del Teatro Municipale dove si acquistano biglietti per alcune proiezioni di film. Perché l’attentato ha colpito per la prima volta il cuore della capitale, dove erano in pieno svolgimento Les Journées Cinématographiques de Carthage, uno degli eventi più amati e seguiti in città.
Tunisi reagisce con la consuetudine dei suoi caffè affollati, tra una transenna e un rotolo di filo spinato, e con le coppiette che si fanno i selfies sul tappeto rosso dove sono sfilate, solo pochi giorni fa, le star del cinema, protette, loro sì, da imponenti misure di sicurezza. Persino l’abituale sit-in di ogni mercoledì, in commemorazione di Choikri Belaid e Mohamed Brahmi, si svolge regolarmente di fronte al Ministero degli Interni, per poi trasformarsi in un piccolo corteo di omaggio alle ultime vittime. All’arrivo sul luogo dell’attentato, la polizia chiude le transenne e filma i partecipanti che, tuttavia, riescono a deporre un mazzo di fiori sul selciato.
Il 24 novembre 2015, verso le 17.30, per la prima volta nel centro di Tunisi, in una traversa dell’ Avenue Mohamed V, a 200 metri da una delle zone più sorvegliate di tutto la Tunisia (il Ministero degli Interni), un attentatore suicida si è fatto esplodere, dopo essere repentinamente entrato all’interno di un pullman della Guardia Presidenziale, causando la morte dei 12 occupanti e il ferimento di 20 persone, fra cui 4 civili. Il corpo di una tredicesima vittima, di cui è ancora in corso l’identificazione tramite il Dna, sarebbe quello dell’attentatore. Sul luogo sono stati trovati resti di una cintura esplosiva, mentre il ministero degli Interni ha affermato che il detonante sarebbe il Semtex, comunemente usato nelle demolizioni. Mentre scriviamo è arrivata la rivendicazione da parte dell’Isis che, oltre alle usuali farneticazioni, fornisce il nome del kamikaze, un certo Abou Abdallh Attounissi.
Lo stato di emergenza è stato nuovamente ripristinato per un mese e dichiarato il coprifuoco nella Grand Tunis, dalle 21 alle 5 del mattino per una durata non precisata.
Al di là della cruda cronaca, dopo la Francia e il resto dell’Europa, anche lo Stato tunisino dichiara pomposamente guerra al “nemico invisibile”. isteria, demagogia e nostalgia di “uomini forti” strabordano a più riprese dalle emittenti televisive. Si è distinta fra tutte la televisione privata Neesma con Borhan Bsaïes che, invece di coordinare un dibattito, ha attaccato ripetutamente la società civile e i difensori dei diritti umani che con le loro rivendicazioni indebolirebbero l’azione dello Stato contro il terrorismo (in particolare, l’animatore TV ha aggredito verbalmente quanti conducono la battaglia contro la tortura che la polizia tunisina ancora usa per estorcere confessioni da “presunti” estremisti islamici e non solo).
Scrive il cyberattivista Skander Ben Hamda: “ I peggiori (sono) quelli che rimpiangono il vecchio regime di Ben Alì, sostenendo che allora non ci fosse il terrorismo – senza tener conto che la censura mediatica impediva di vedere i fatti e che Ben Alì stesso era un terrorista che spargeva la paura, torturava e assassinava i suoi oppositori e tutti quelli che prendevano le distanze dal suo “pensiero unico” (io stesso sono stato rapito e torturato per una settimana quando avevo 16 anni, per ordine di Ben Alì).”
Una isteria similare, unita alla storica e malcelata insofferenza nei confronti dei media, si è scatenata la sera stessa dell’attentato al sopraggiungere dei giornalisti sul luogo della tragedia: secondo Reporters sans Frontieres, almeno 30 giornalisti sono stati aggrediti dalle forze dell’ordine. Fra questi chi se l’è vista peggio è stato Ramzi Hfaied del quotidiano Assahafa, colpito pesantemente alla spalla e trasportato d’urgenza in ospedale.
In questo quadro non è difficile immaginare il futuro deteriorarsi della gracile transizione democratica tunisina: il primo ministro Habib Essid ha già annunciato la stretta applicazione della legge antiterrorismo, entrata in vigore dal 23 luglio scorso, all’epoca criticata da 15 organizzazioni della società civile e già usata in maniera arbitraria per arresti e perquisizioni nei mesi scorsi.
Questo attentato è arrivato, inoltre, in un momento di grave crisi all’interno del partito maggioritario al governo, Nidaa Tounes, diviso da lotte intestine e scontri anche fisici fra le due fazioni. Il governo, nei mesi scorsi, era stato costretto dalla protesta della piazza a rinviare, al gennaio 2016, la discussione del progetto di legge presentato dalla Presidenza della Repubblica per la cosiddetta “riconciliazione economica e finanziaria”, in realtà una riabilitazione dei vecchi mafiosi dell’Rcd che avevano commesso crimini economici e di corruzione, all’epoca della dittatura. Un governo indebolito ulteriormente dalle forzate dimissioni del Ministro della Giustizia Mohamed Salah Ben Aissa (il posto è tuttora vacante, senza che nessuno se ne scandalizzi), colpevole di non aver criticato il progetto di legge per la costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura che, a suo avviso, non rispettava l’indipendenza della magistratura.
Ricorda il giornalista del Courrier de l’Atlas, Seif Soudani: “All’indomani dell’attentato di Sousse il Presidente della Repubblica aveva fatto una gaffe, predicendo il crollo dello Stato in caso di un nuovo attentato terrorista. Ci siamo…”
Invece, nonostante sia evidente l’incapacità, l’approssimazione e l’incompetenza del governo a gestire situazioni di crisi e a salvaguardare l’incolumità della cittadinanza (è solo di qualche giorno fa l’orrenda decapitazione del povero pastore di Jelma, Mabrouk Soltani), possiamo agevolmente immaginare un serrare le fila all’interno della compagine governativa (dove il partito Ennahdha, di ispirazione islamica, è presente e consenziente) per reprimere ogni voce dissonante e attuare un golpe strisciante, un “golpettino”, come lo ha ben definito lo scrittore e filosofo Santiago Alba Rico.
Nulla è acquisito in Tunisia, contrariamente alla vulgata della stampa europea che ha esaltato, a suo tempo, l’elezione dei “laici”, la stragrande maggioranza dei quali non sono altro che ex quadri e funzionari del partito di Ben Alì.
Il pericolo è grande e il popolo tunisino si trova intrappolato, in questo momento fra terrorismo e tentazioni autoritarie.
Più democrazia, allargamento dei diritti, rispetto della nuova Costituzione, risanamento economico e sociale delle regioni più povere, giustizia di transizione, spazi culturali e sociali: sono questi i mezzi per togliere la terra sotto i piedi dei terroristi.
E, come già abbiamo scritto tante, troppe volte, da domani i tunisini e le tunisine saranno di nuovo soli di fronte al pericolo, quello degli attentati jihadisti e quello di un “golpettino” in nome dell’unità sacra contro il terrorismo.
Ci resta solo la speranza nella capacità della società civile di fare fronte, unita, alle derive di un governo che appare sempre più tentato dalla soluzione autoritaria.
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