C’è un antico obbligo di proteggere chi si trova in pericolo che nel tempo ha segnato la vita di tanti e tante “senza storia”, ma è anche diventato un riferimento per i diritti umani e una radice dell’istituto dell’asilo. Nell’era delle migrazioni contemporanee, spiega Alessandra Sciurba in un approfondimento apparso su Cosmopolis, l’obbligo di protezione rischia di saltare con la chiusura dei confini, trascinando con sé molti altri diritti
Gli obblighi di una Legge ancestrale
L’obbligo di proteggere chi si trova in una situazione di pericolo è connaturato alle radici dell’istituto dell’asilo: il termine greco a-sylao significa proprio “senza cattura” e definisce una condizione di inviolabilità. Tale obbligo è anche parte integrante dell’antichissima Legge dell’ospitalità, la cui violazione equivale alla negligenza, se non alla ribellione, nei confronti degli dei. Come scriveva Platone nel V libro delle Leggi, il supplice è il più sacro dei forestieri, poiché più degli altri è in cerca di protezione: soprattutto nel suo caso è l’ira divina di Zeus xenio, il protettore di tutti gli stranieri, che ne vendicherebbe la cacciata (cfr. Curi 2010, p. 78).
Ne Le Supplici di Eschilo, le figlie di Danao sbarcate ad Argo dall’Egitto per sfuggire alla violenza di un matrimonio forzato, implorano protezione al re Pelasgo appellandosi a «un’idea intrattabile di giustizia, in forza del loro essere innocenti da crimini, in forza del fatto che sfuggono a una situazione di violenza» (Centanni 2015). Alla fine, attraverso un rito politico che coinvolge la città intera, vengono accolte come astoxenoi, “cittadini ospiti”, nonostante le conseguenze di guerra che ne potrebbero derivare contro gli Egizi. È questo uno dei tanti esempi che dimostrano come “la concessione della protezione”, nel mondo greco antico, fosse «orientata soprattutto da considerazioni di natura spirituale piuttosto che da esigenze di opportunità politica e strategica» (Mastromartino 2009, p. 177), a conferma della sacralità del precetto di ospitalità in questa epoca, tanto più se declinato in termini di protezione e asilo. È questa sacralità a venire invece violata ne Le Baccanti di Euripide, quando le donne di Tebe rifiutano di dare ospitalità al viandante dietro le cui fattezze si nasconde Dioniso, e per questa ragione impazziscono: non riconoscendo il dio travestito, smettono di riconoscere se stesse. Per Jean-Pierre Vernant (2001, pp. 156-7), si tratta della punizione terribile nei confronti di una città «incapace di stabilire un legame fra la gente del paese e lo straniero, fra i sedentari e i viaggiatori, fra la sua volontà di essere sempre la stessa, di restare identica a sé, di rifiutarsi di cambiare e, dall’altra parte, il cambiamento, il diverso, l’altro».
Nel più miserabile dei viandanti può dunque nascondersi un dio: fragile e nudo per la lontananza dai suoi legami familiari e comunitari, in questa nudità insondabile risiede la sua sacralità. Violarla per paura di ciò che non si conosce può comportare dei rischi terribili, tra cui quello di perdere se stessi, la propria identità, secondo un topos che ritorna anche in molte favole moderne.
Ma la pietas divina, attraverso la quale «la ferita fatta all’uomo può essere trasformata in oltraggio a Dio» (Lévinas 2010, p. 50), non può bastare per fondare una simile Legge in grado di attraversare millenni e contesti geopolitici: è altro che va ricercato per sostanziare l’obbligo di protezione verso terzi con cui non esiste alcuna relazione di prossimità, «che io non guarderò mai in faccia, che non ritroverò nella faccia di Dio e per i quali Dio non può rispondere» (ibidem), e rispetto ai quali soltanto è lecito parlare di giustizia o di ingiustizia. Poiché di fronte ad alterità solo potenziali, e per questo veramente “altri”, affinché la Legge ancestrale diventi diritto universale serve una morale pienamente terrestre che tenga conto di una condizione umana condivisa in cui ogni ruolo è ribaltabile e ciascuno potrebbe un giorno avere bisogno di protezione.
La nozione stessa di ospitalità sembra riflettere questa suggestione: l’enantiosemia del termine italiano “ospite”, che definisce tanto l’ospitante che l’ospitato, rimanda a un’atavica cognizione dell’inevitabilità dell’incontro, prima o poi, con chi da straniero arriverà sulla soglia, unita alla consapevolezza che chiunque potrà presto o tardi ritrovarsi a invocare la Legge sacra dell’ospitalità. Non a caso, nell’obbligo inderogabile di concedere l’acqua all’hostis in exilium, sottolineato in tanti passi della letteratura romana, Maurizio Bettini (2012, p. 21) ritrova gli «incunabuli classici» della nozione dei diritti umani universali.
Nonostante in epoca ellenistica la concessione della protezione diventi già prerogativa sovrana, amministrata da “leggi” particolari rispondenti a criteri contingenti di convenienza e strategia, la sacra Legge dell’ospitalità sopravvive nell‘impossibilità di una scelta assoluta di non proteggere lo straniero in pericolo. Jacques Deridda descrive questa relazione in termini di mutua necessità tra La Legge e le leggi in cui l’ospitalità si declina: l’una non è mai storicamente data senza le altre, ma queste ne risultano comunque sempre permeate. Se La legge dell’ospitalità, come ogni Legge,
«ha bisogno delle leggi» perché altrimenti «rischierebbe di essere astratta, utopica, illusoria, e dunque di trasformarsi nel suo contrario», allo stesso tempo, «le leggi condizionanti cesserebbero di essere leggi di ospitalità se non fossero guidate, ispirate, aspirate, persino richieste dalla legge di ospitalità incondizionata», poiché «questi due regimi della legge e delle leggi sono allo stesso tempo contraddittori, antinomici, e inseparabili» (Deridda – Dufourmantelle 1997, p. 75).
A prima vista, questa relazione non è paritaria: quella della Legge dell’ospitalità è una storia di assoggettamento a vincoli e condizioni che la ricacciano continuamente all’interno di rapporti particolari. Nella gerarchia in cui si articola questo conflitto, la Legge resta al di sotto delle leggi, ed è addirittura «illegale, trasgressiva, fuorilegge», poiché l’ospitalità assoluta presupporrebbe quasi una «rottura con il diritto o il patto di ospitalità» (ivi, p. 29) che è tipico invece dell’istituto particolare della xenia (cfr. Curi, 2010, pp. 63 e ss.).
Nonostante questo, però, attraverso i millenni e le civiltà, pur temperata di volta in volta con gli interessi delle dinastie, della civitas, dell’impero o degli Stati nazionali, la Legge dell’ospitalità, con il suo correlato dovere di offrire protezione allo straniero in pericolo, riaffiora sempre come elemento implicito della sociabilità e dell’interdipendenza umana, siano esse intese come dati di natura, secondo la tradizione aristotelico-tomista sviluppata poi da Grozio, ovvero considerate come necessità utilitaristiche sulla scia hobbesiana del primato dell’interesse.
Ritroviamo lo stesso concetto in Immanuel Kant, che nella sua concezione del diritto cosmopolitico accorda «un ruolo così importante alle relazioni transnazionali emergenti dai bisogni di viaggiatori, esploratori, rifugiati e richiedenti asilo» (Benhabib 2006, p. 34), elevando l’ospitalità a una vera e propria categoria giuridica, e fondando il dovere di ospitalità nel «diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro» (Kant 2003, p. 65). Tornano quindi i temi dell’inevitabilità dell’incontro, prima o poi, con lo straniero, e della reversibilità della condizione di ospite. Opponendosi alle interpretazioni globaliste del pensiero kantiano (come ad esempio quella di Ricoeur 2013, p. 48), George Cavallar (cfr. 2002, p. 108 e 71 ss.) sottolinea però la distanza dell’istituto definito da Kant dalla Legge di ospitalità assoluta, interpretandolo piuttosto come una strategia di bilanciamento tra la necessità di accettare la prossimità con lo “straniero” (indispensabile, del resto, per garantire i commerci) e un non meglio specificato diritto di “autoconservazione” della comunità che lo incontra.
Tuttavia, esiste un elemento che Kant enuncia con estrema chiarezza, come del resto avevano già fatto prima di lui Grozio, nel De Iure Belli ac Pacis, e Pufendorf, nel suo De Jure, ovvero il divieto di allontanare uno straniero «se ciò mette a repentaglio la sua vita» (Kant 2003, p. 65): una definizione che precisa la proibizione ancestrale di respingere un supplice, e si rivela antesignana formalizzazione del principio giuridico del non refoulement che resterà al cuore dell’istituto dell’asilo consustanziandolo nel momento della sua sanzione come diritto umano universale.
Nell’Età dei diritti: nuova universalità e rinnovati confinamenti
All’indomani della Prima guerra mondiale, quando le inedite forme di combattimento “de-umanizzate” portarono uno sconvolgimento tale da implicare «un mutamento della costituzione materiale delle società occidentali» (Dal Lago 2012, p. 109), un numero di profughi senza precedenti, conseguenza del crollo degli imperi Austro-ungarico, Ottomano, Russo, e dell’ascesa delle dittature in gran parte del continente, si trovò a cercare protezione in Europa. In pagine celebri, Hannah Arendt ha spiegato nel dettaglio come l’estrema fragilità degli istituti giuridici di protezione a quel tempo a disposizione per le persone senza Stato rivelò l’estrema fragilità dell’intero sistema dei diritti umani fino ad allora concepito, e agevolò la discesa nell’abisso del “tutto è possibile” che ha segnato l’epoca totalitaria. Tale discesa, secondo Arendt, iniziò proprio nel momento in cui «quelli che i persecutori cacciarono dal paese come schiuma della terra (…) vennero dovunque ricevuti come tali» (Arendt 2004, p. 374), tradendo quindi gli obblighi di proteggere e non respingere chi è in pericolo che renderebbero inderogabile il dovere/diritto di ospitalità.
Con la proclamazione dell’avvento di una nuova “Età dei diritti” (Bobbio 1990), quando una “straordinaria stagione costituente che fu il quinquennio 1945-1949” affermò «il ‘mai più’ costituzionale agli orrori dei totalitarismi e delle guerre» (Ferrajoli 2014, p. 214), alcuni elementi permettono di dire che il legame tra la fragilità della protezione dell’essere umano senza stato e la tenuta dei diritti umani sia stato in qualche modo preso sul serio. Quando i diritti fondamentali si posero come limiti al contenuto delle decisioni democratiche, mentre la loro attribuzione si volle svincolata da ogni caratteristica specifica delle persone, inclusa la loro cittadinanza, la protezione offerta dall’asilo venne positivizzata come un diritto universale con un ruolo in qualche modo apicale nella costruzione del nuovo sistema di legittimità sostanziale, ovvero di aderenza delle leggi a dei contenuti valoriali che ponevano come priorità la dignità e il rispetto della vita umana.
Il diritto d’asilo trovò infatti posto nelle costituzioni postbelliche dei paesi europei, e la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo del 1948 stabilì, all’art. 14, che «Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni». Inoltre, all’interno di quel «processo di specificazione dei diritti» (Bobbio 1988, p. 439), volto a rafforzarne l’effettività sostanziale tutelando con strumenti specifici le persone a seconda delle loro specifiche condizioni, allo status del rifugiato venne dedicata la prima delle Convenzioni a protezione, al contempo, di un diritto particolare e di un determinato soggetto di diritti. Specialmente dopo la stesura del Protocollo di New York del 1967, che eliminò ogni riserva temporale e geografica contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1051, l’asilo venne sancito come un diritto umano universale intorno al quale costruire un vero e proprio diritto internazionale dei rifugiati, entrando a far parte di quella serie di «norme che impongono obblighi di natura solidale (o erga omnes) […] che lo stato assume nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso […] dotate di particolare resistenza giuridica: nessuno stato può concludere un trattato in cui rende legittima la violazione di una di quelle norme, perché si tratta di norme che non possono essere in alcun modo derogate mediante accordo» (Cassese 2005, p. 49).
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, cui spetta il compito di primo esegeta e custode della Convenzione di Ginevra, ha declinato come segue i tre principi fondativi del diritto d’asilo: il principio di non discriminazione, relativo alla sua universalità; quello di non sanzionabilità dell’ingresso illegale sul territorio da parte di qualcuno che attraversa i confini per chiedere asilo, e, soprattutto, quello, del non refoulement, ovvero del divieto di respingimento del non cittadino, qualora tale respingimento rischi di metterne in pericolo la vita o di esporlo a trattamenti inumani e degradanti (UNHCR 2010, p. 2).
L’articolo 33 della Convenzione di Ginevra afferma peraltro questo principio come ius cogens immediatamente effettivo rispetto ad ogni persona che abbia attraversato o si trovi nell’atto di attraversare una frontiera al fine di chiedere protezione, prima ancora che nei suoi confronti sia avvenuto un riconoscimento formale di un preciso status giuridico come quello di rifugiato. In tal modo, la protezione offerta dal principio di non refoulement – punto di intersezione da quel momento tra il diritto internazionale dei rifugiati e il diritto dei diritti umani del quale incorpora direttamente il diritto alla vita e il diritto a non subire trattamenti inumai e degradanti sanciti agli articoli 2 e 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU) -, viene potenzialmente sancita come una incondizionata tutela rispetto ad ogni essere umano che si trovi al di fuori dei confini del proprio paese d’origine. Il principio di non refoulement, che «costituisce un istituto di protezione», si rivela quindi concettualmente antecedente alla definizione dello status di rifugiato che, invece, «si riferisce a una delle categorie di individui – tra gli altri – che beneficiano di questa protezione» (Gil-Bazo 2015, p. 3, trad. nostra), tornando almeno formalmente alle sue ancestrali origini radicate nel dovere di ospitalità.
Ma il conflitto, descritto come atavico da Deridda, tra la Legge dell’ospitalità assoluta e le leggi in cui questa storicamente si declina, riemerge anche qui immediatamente: il diritto d’asilo fu infatti sancito come diritto umano universale fondato sul principio di non refoulement all’interno di un preciso contesto geopolitico e culturale, segnato non solo dall’affermarsi dell’Età dei diritti, ma anche dalla Guerra fredda che contrappose il cosiddetto blocco democratico occidentale a quello comunista. All’interno di questo scontro ideologico, l’universalità dell’obbligo di proteggere e del diritto di non essere respinti venne confinata all’interno di un’idea già ottocentesca del potenziale rifugiato come un esule per motivi politici, dalla biografia ben definita, e con una rete di sostegno e mezzi per spostarsi anche in clandestinità: un oppositore di regimi oscurantisti e antidemocratici che nell’Occidente post-bellico poteva, per queste precise caratteristiche, trovare piena integrazione condividendone cultura e ideologie. È ai leader di partito, agli intellettuali perseguitati, ai giornalisti privati di libertà di parola, o ai rappresentanti di minoranze oppresse che siano ben identificabili ed esposti personalmente, che la Convenzione di Ginevra fa implicito riferimento, con la conseguenza di una distinzione altrettanto netta tra questi e tutti gli “altri” migranti che non siano portatori di simili vissuti.
Una tale interpretazione dello status di rifugiato comporta quindi, in realtà, la perdita della potenziale universalità immanente nei principi di reciprocità e comunanza della condizione umana che fondavano la Legge dell’ospitalità e il principio di non refoulement, aprendo una nuova contraddizione sostanziale tra quest’ultimo e le leggi del diritto d’asilo.
Nell’era delle migrazioni contemporanee: l’incompatibilità dell’obbligo di proteggere con la chiusura dei confini
La Convenzione di Ginevra, all’art. 33, sancisce il dovere non respingere chi è in pericolo come un obbligo incondizionato che è corrispettivo di un diritto fondamentale, ma non risolve la tensione tra questo dovere e l’inesistenza di un diritto a immigrare, né tantomeno quella tra questo dovere e il proclamato diritto degli Stati alla difesa dei loro confini territoriali. Tale tensione non appare risolta, nei decenni successivi, dall’introduzione di nuove forme di protezione cui corrispondono figure giuridiche diverse da quelle del rifugiato, come accade nel cosiddetto Sistema Comune di Asilo Europeo con l’introduzione di una protezione sussidiaria (per la prima volta nella Direttiva 2004/83/CE) riservata a chi, nel caso di un ritorno in patria, correrebbero un rischio concreto di subire un grave danno per cause diverse dalla persecuzione individuale. Alla protezione sussidiaria molti stati europei hanno poi aggiunto una forma di protezione umanitaria, nazionale, per chi potrebbe comunque subire significative violazioni dei diritti umani, o si ritrova in specifiche condizioni di vulnerabilità. In Italia questo istituto, introdotto dalla legge n. 40/98 e sancito dalla giurisprudenza come rispondente ad obblighi internazionali e costituzionali (a partire dall’articolo 10 della Costituzione), è stato solo di recente eliminato con la cancellazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari a seguito dell’emanazione del Decreto-Legge n. 113 del 4 ottobre 2018 e della sua Legge di conversione n. 132 del 1º dicembre 2018.
Al di là di quanto restrittive si siano rivelate nei fatti anche queste definizioni, il nodo di fondo rimane però l’incompatibilità della difesa dei confini nazionali – se tale difesa implica la possibilità di chiuderli incondizionatamente ad ogni “straniero” o a categorie intere di “stranieri” – con l’effettività del diritto/dovere di protezione che poggia sul principio di non refoulement. Tale incompatibilità si mostra oggi nelle sue estreme conseguenze.
Nella contemporanea «era delle migrazioni» (Castles – Miller 2012), infatti, ogni predefinita classificazione tra migranti e rifugiati mostra tutta la sua inadeguatezza rispetto alla complessità del mondo reale, mentre la condizionalità, la selezione, la concessione discrezionale, prevalgono decisamente nei fatti sul diritto/dovere della protezione di chi si trova in pericolo.
Utilizzando le categorie usate nella teoria dei diritti «presi sul serio» di Ronald Dworkin ([1982] 2010, p. 143), dovrebbe invece esistere una gerarchia discendente tra diritti – individuati da principi come quelli contenuti nelle dichiarazioni internazionali del diritto dei diritti umani – e scopi – individuati da policies che poggiano a loro volta su «un fine politico come giustificazione politica generale». Tale gerarchia appare quindi violata nel momento in cui gli obblighi connessi con il «diritto politico individuato» fondato sul principio di non refoulement, finiscono con l’essere soggetti, anche nell’Età dei diritti, ad una forte condizionalità fondata su «un fine politico non individuato, cioè uno stato di cose la cui specificazione non richiede una particolare opportunità, risorsa o libertà per individui particolari» (ibidem), come lo è la difesa dei confini nazionali in ragione di non meglio identificati pericoli.
Principi come quello di paese terzo sicuro, oggi regolati dalla Direttiva 2013/32/UE, sono ad esempio confliggenti con il principio di non discriminazione nell’accesso all’asilo sulla base della nazionalità (cfr. ECRE 2015, p. 2), e rischiano di violare anche quello di non-refoulement, concedendo di respingere in massa richiedenti asilo provenienti da Stati definiti sicuri, mentre ogni posizione andrebbe invece analizzata individualmente, secondo la ratio dell’articolo 4 al Protocollo 4 della CEDU che vieta espulsioni e respingimenti collettivi.
Anche rispetto a chi è riuscito comunque a fare ingresso in dove chiedere asilo, dagli anni Novanta in poi questo diritto ha subito costanti confinamenti. Ancora a livello europeo, ad esempio, i principi di Dublino, alla loro terza riedizione con il Regolamento 343/2013/UE, hanno consentito una deroga significativa agli obblighi imposti dal diritto internazionale dei rifugiati, permettendo di non accogliere le richieste di asilo se non nel paese di primo ingresso dell’UE (nonostante formalmente questo sia un criterio residuale).
Più in generale, il fatto che le politiche migratorie determinino interamente la possibilità o l’impossibilità di azionare il diritto d’asilo è uno dei caratteri distintivi della fase che segue, e non solo da un punto di vista cronologico, l’Età dei diritti.
Con la chiusura della maggior parte dei canali di ingresso legali per persone che posseggono “cittadinanze deboli”, gli stessi principi della Convenzione di Ginevra appaiono essere sempre più a rischio, nonostante essa rimanga il riferimento del diritto internazionale dei rifugiati e sia richiamata da tutti i testi del diritto dell’Ue che si occupano di asilo. Restando aperte solo quote irrisorie per “migranti qualificati”, qualche lavoratore stagionale, studenti a vario titolo garantiti, parenti di primo grado di cittadini stranieri già da tempo soggiornanti in Europa e rispondenti a precisi criteri di integrazione socio-economica, per tutti gli altri, profughi di guerra inclusi, non è rimasta alternativa che alimentare i proventi del traffico di esseri umani affidandosi alle reti criminali e percorrendo strade sempre più pericolose. Ciò è avvenuto, paradossalmente, a fronte di un calo delle migrazioni verso l’Europa – una deflessione che nel 2013 ha raggiunto il 13% (OCSE 2014) per non tornare a risalire significativamente – e di una crisi demografica, in paesi come l’Italia, tale da spingere enti istituzionali come l’Inps a invocare a più riprese un maggiore afflusso di immigrati regolari.
Nel Mediterraneo, oggi. Chi difende e chi viola il dovere di proteggere?
Nel contesto appena descritto, quello che era solo un canale residuale di ingresso in Europa, ovvero il mare, attraversato su imbarcazioni precarie ad altissimo rischio di naufragio, è diventato l’unica via di fuga ancora precorribile. Se dal 1998 al 2013 “sbarcavano” sulle coste italiane 500.000 persone in tutto, nel solo 2014 erano già 170.100, nel 2015 153.841, e nel 2016 181.436. Numeri comunque contenuti, – considerato che in anni come il 2006, entravano in Italia attraverso il decreto flussi anche 550.000 persone alla volta -, ma che evidenziano come il cambiamento delle rotte sia stata conseguenza diretta delle politiche migratorie, con un aumento esponenziale di ingressi non controllati attraverso vie estremamente pericolose e di vite perdute in questi terribili attraversamenti.
Specialmente dopo la chiusura della cosiddetta rotta balcanica attraverso l’accordo tra Unione europea e Turchia stipulato nel marzo del 2016, la maggior parte dei movimenti migratori si è spostata sulla rotta del Mediterraneo centrale, diventato scenario di sistematica violazione del dovere di offrire protezione e del principio di non refoulement da parte dei governi europei, a cominciare dall’Italia. Nel febbraio del 2017 il governo italiano decide infatti di stipulare un Memorandum of understanding con uno dei capi libici di un paese già dilaniato da un conflitto tra milizie che poco dopo sarebbe deflagrato in una vera e propria guerra civile. Tale accordo, come e più di quello siglato con il governo turco, ha comportato contraddizioni estreme ed evidenti. Implicando la fornitura di uomini e mezzi per il cosiddetto “contrasto all’immigrazione clandestina”, esso ha di fatto strutturato, di concerto con l’Ue, una “guardia costiera libica” impegnata nel catturare in mare e riportare in Libia profughi in fuga da condizioni inumane e degradanti descritte come tali da innumerevoli testimonianze e rapporti internazionali. La creazione di una simile “guardia costiera”, che agisce su delega italiana e col supporto dell’Ue, pone in essere delle violazioni gravissime del diritto internazionale del mare nella sua relazione con il diritto internazionale dei diritti umani; una relazione che trova il punto più preciso di congiunzione proprio nel principio di non refoulement che impone lo sbarco di qualunque naufrago solo in un luogo definibile come un porto sicuro, nel senso già specificato.
In questo quadro si inserisce la paradossale criminalizzazione delle navi della società civile che operano soccorso in mare, la cui attività ha iniziato ad essere contrastata a livello istituzionale proprio a partire dal 2017, quando, con singolare coincidenza temporale, un Rapporto diffuso dall’Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, Frontex, insinuava come la presenza delle Ong nel Mediterraneo rappresentasse un fattore di attrazione per le partenze dall’Africa, in qualche modo agevolando le attività delle reti criminali operanti in Libia. A queste dichiarazioni, mai corroborate da elementi probatori, ha fatto poi seguito, su iniziativa del governo italiano, la stesura di un Codice di condatta per Ong impegnate nelle operazioni di salvataggio dei migranti in mare: una serie di regole, tra cui la cooperazione obbligata con le autorità libiche, che minavano alla base l’indipendenza delle attività delle Ong, ma anche i loro presupposti valoriali, imponendo modalità di agire incompatibili con i principi del diritto internazionale.
La criminalizzazione delle attività di salvataggio si è poi nel tempo riflessa in misure repressive di natura penale e amministrativa forse paragonabili solo a quelle attuate in Italia contro le mafie organizzate, oltre che in decine di inchieste e procedimenti giudiziari che non hanno però mai portato ad alcuna condanna.
In ultimo, l’emanazione della Legge 8 agosto 2019, n. 77 di conversione del Decreto n. 53 del 2019, recante «disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica», ha formalizzato la possibilità da parte del governo di vietare l’ingresso in acque territoriali per navi che abbiano soccorso naufraghi, considerando il loro eventuale passaggio come «non inoffensivo», e comminando una multa fino a un milione di euro qualora tale divieto venga violato, anche nel caso in cui ciò accada per ottemperare all’obbligo che impone di sbarcare i naufraghi nel porto sicuro più vicino e il più rapidamente possibile.
Va qui sottolineato il paradosso di uno scontro che ha visto, dal 2017 in poi, la società civile difendere in mare il principio di non refoulement e venire punita per questo, mentre le istituzioni governative fornivano i mezzi per il refoulement dei profughi guidato anche con gli assetti aerei delle operazioni congiunte dell’Ue, sistematizzando la violazione di tale principio cardine del diritto internazionale fondato sulla tutela dei diritti umani in nome del fine politico di difendere i confini.
Conclusioni
Di fronte all’eccesso in cui ogni potere potenzialmente può sfociare, anche se democratico e proceduralizzato, l’istituto della protezione dell’esule in pericolo si fonda nell’antica Grecia su un obbligo che non ammette deroghe, rappresentando un’autolimitazione del diritto in nome di una norma superiore o forse, semplicemente, di un altro “volto” del diritto. A questo proposito, Gustavo Zagrebelsky, rileggendo la celebre tragedia di Sofocle, vede nel conflitto tra Creonte e Antigone – il re che non può permettere la sepoltura del traditore Polinice, e la fanciulla che sacrifica la propria vita per obbedire alla legge che le impone di ossequiare i resti del fratello -, non uno scontro tra volontà arbitraria del potere e coscienza individuale che si ribella ad essa, e ancora meno una contrapposizione semplicistica tra legge positiva e diritto naturale. Il sovrano e la giovane rappresentano ciascuno «due leggi oggettive, che hanno entrambe la loro ragion d’essere: la legge del tempo e la legge senza tempo, l’una disposta nella sfera del potere, l’altra superiore a qualunque volontà umana» (Zagrebelsky 2008, p. 67), poiché il diritto ha sempre due lati, due “volti” che ne costituiscono l’essenza riflettendo la complessità delle cose umane. Nel diritto dei diritti umani questi due volti cercano una congiunzione, un limite alle distanze che possono separare il loro sguardo, e lo trovano innanzitutto nella priorità del rispetto e della dignità della vita di ogni individuo, esemplificati nel dovere di proteggerlo, a prescindere dalla sua nazionalità e condizione, da trattamenti inumani e degradanti, e di non respingerlo dove potrebbe subirne.
Cosa può comportare dunque lo svuotamento di questo incunabolo dei diritti umani, che «ha storicamente fornito un quadro giuridico comune a diverse società, e di conseguenza ha dato forma alle relazioni tra sovrani», rimanendo oggi «uno degli elementi fondativi degli stati, il cui obiettivo non è solo la protezione dell’individuo ma anche dei valori fondamentali su cui poggia lo Stato stesso» (Gil-Bazo 2015, p. 28)?
È lecito affermare che, come già era accaduto nell’epoca di crisi tra le due guerre mondiali analizzata da Arendt, la deroga massiva all’obbligo di proteggere l’essere umano senza stato che si trova in una condizione di pericolo rischia di rappresentare una crisi generale dei fondamenti del progetto dei diritti umani, nonostante essi siano adesso formalmente messi in protezione dai processi di universalizzazione e positivizzazione della seconda metà del XX secolo?
Forse è non solo lecito, ma anche urgente, e necessario. Scriveva Kant che l’unico motivo per cui è possibile derogare dal «dovere morale imperfetto di aiutare e offrire riparo a coloro la cui vita, integrità e benessere si trovano in pericolo», sarebbe la necessità di tutelare l’autoconservazione degli stati di accoglienza.
Proviamo a rovesciare la prospettiva: la minaccia potrebbe essere esattamente opposta. Sono i diritti umani, e il progetto europeo che su di essi si è fondato recuperando e formalizzando una Legge ancestrale che riconosce dignità e rispetto ad ogni persona, a rischiare di essere oggi travolti dalla scelta di non proteggere.
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Fonte: Cosmopolis (dove apparso con il titolo completo Il dovere di proteggere e il principio di non-refoulement. Storia e confinamenti di una Legge ancestrale)
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