Chi gli ha regalato il diritto di negare tutti i diritti? No, non è un drammatico gioco di parole, è una domanda, semplice quanto sostanziale, posta da Eduardo Galeano in un editoriale scritto per il manifesto e intitolato “L’olocausto di Gaza e l’impunità israeliana“. Quattordici anni dopo, nel corso della fragile tregua dell’operazione punitiva “Scudo e Freccia” – l’ennesima con la quale la “vibrante democrazia fiorita nel deserto nel cuore del Medio Oriente” (la brillante e recente definizione è di Ursula von der Leyen), quando ne ha bisogno, generalmente per ragioni di politica interna, fa strage della popolazione imprigionata a Gaza – quella domanda è ancora la chiave di volta per comprendere la tormentata relazione tra il diritto internazionale e la giustizia sistematicamente negata ai Palestinesi. Ne parla con dovizia di particolari, in questa ampia intervista che ci invia Pas Liguori, Triestino Mariniello, Reader in Law presso la John Moores University di Liverpool, in Gran Bretagna, e membro del team legale di rappresentanza delle vittime di Gaza dinnanzi alla Corte penale internazionale. Le vittime palestinesi non sono così ingenue da aspettarsi di vedere un giorno il Netanyahu di turno messo alla sbarra dal tribunale dell’Aia. Per loro, il solo messaggio lanciato alla comunità internazionale che veda un israeliano responsabile di crimini di guerra rappresenta una grande vittoria. Ogni piccolo progresso sulle indagini riguardanti la Palestina è veramente difficile, ci vogliono anni e, in tutta sincerità, è merito non del tribunale di turno ma della società civile palestinese
Si è purtroppo abituati alla pomposa e nefasta retorica insita nelle definizioni attribuite alle operazioni militari israeliane condotte contro i palestinesi nella Striscia di Gaza: Margine di Protezione, Pilastro di Difesa, solo per ricordarne alcune tra le più tristi e famigerate. Esibite come adeguata conseguenza di atti terroristici subiti, si tratta invece di veri e propri crimini di guerra di inaudito impatto su cose e persone già da troppo tempo martoriate.
Scudo e freccia è l’ultima, ennesima, ciclica operazione di questo tipo lanciata da Israele. In assenza di un consistente fattore scatenante, bombe israeliane sarebbero state sganciate sugli edifici gazawi con l’obiettivo di estirpare con precisa chirurgia presunte sorgenti del terrore afferenti alla Jihad islamica palestinese. Dopo cinque cruente giornate di raid e incursioni aeree, di preciso vi è solo la conta delle vittime: 33 persone uccise e 150 rimaste ferite. Come sempre, sono perlopiù inermi civili, bambini e donne a costituire quota assai rilevante di questo sinistro resoconto. Secondo dati forniti da organizzazioni per i diritti umani operative nella Striscia, oltre 50 sono stati gli edifici pesantemente danneggiati o andati totalmente distrutti e circa 950 i soggetti sfollati, di cui un terzo bambini e adolescenti.
In risposta all’aggressione subita, centinaia di razzi sono stati lanciati da Gaza resistente verso il territorio israeliano. Reazione messa in atto dalla Jihad palestinese in accordo con i vertici di Hamas, l’organizzazione politica egemone in Gaza che avrebbe peraltro moderato il proprio coinvolgimento militare onde evitare una spirale di eventi e conseguenze ancor più pesanti. Trattative promosse dalla mediazione egiziana, con il concorso di altri attori diplomatici, hanno permesso il raggiungimento di un (fragile) accordo di cessate il fuoco.
L’episodio rilevante che ha preceduto i fatti di queste ultime giornate di sangue è quello della morte in prigione di Khader Adnan, quarantacinquenne in sciopero della fame contro la violenta repressione detentiva ai suoi danni. Uomo di spicco dell’ala politica della Jihad, Adnan si è battuto fino all’atto estremo di lasciarsi morire denunciando le pratiche criminali adottate contro di lui e i detenuti palestinesi. In vero, ad Adnan, il cui feretro – come spesso accade – non è stato ancora restituito ai familiari per degni funerali, pare siano stati negati soccorsi adeguati e cure da parte dei carcerieri israeliani spianando la strada all’esito infausto della protesta messa in atto dal leader palestinese poi deceduto. Alla notizia della sua morte, un certo numero di razzi è stato sì lanciato verso il territorio israeliano ma senza conseguenze, fatta salva però quella chiaramente pretestuosa esigenza delle autorità politiche e militari israeliane di innescare con Scudo e Freccia l’ennesima ritorsione infernale su Gaza City e gli altri contesti urbani della Striscia.
Non si affrontano qui le dinamiche dello scenario politico israeliano che fanno da sfondo a tali iniziative e che meritano separati approfondimenti. È però indubbio il ruolo determinante del solito Netanyahu che si è intestato con ampia enfasi mediatica l’operazione Scudo e freccia. Non è inverosimile che, a spese di sangue palestinese prêt-à-porter, abbia agito per garantire fedeltà al suo esecutivo da parte di quei coloni oltranzisti, con lui al governo, assetati di plateali azioni di guerra. Né è impensabile che il premier israeliano si sia servito dell’escalation militare, assurgendo ad artefice di una ritrovata unità nazionale convergente su quel diffuso spirito antipalestinese capace di ricompattare molta parte di opinione pubblica lacerata dalle imponenti proteste di piazza sulle riforme proposte dal governo. Beninteso, l’approvazione della riforma giudiziaria voluta da Netanyahu & Co., ingrediente di un Israele sempre più teo- e sempre meno demo-cratico, è ancora sospesa e la sua ratifica può trarre beneficio dal sangue versato a Gaza.
Qui, invece, preme addentrarsi nella comprensione dell’impatto determinato da quella fitta trama di violazioni e illeciti sul piano del diritto internazionale commessi da Israele contro la Striscia di Gaza e i suoi abitanti. Bersaglio di tali illeciti sono gli oltre due milioni e mezzo di individui ammassati in un’area di soli 365 chilometri quadrati determinando una densità abitativa tra le più elevate in assoluto al mondo. Un popoloso concentrato umano, in buona parte originatosi dalle espulsioni di palestinesi dalle loro case e terre nel corso della Nakba del 1948. I gazawi vivono compressi in un mega-bantustan predisposto dall’autorità militare d’Israele attraverso il blocco totale dei confini (a eccezione del varco di Rafah al limite meridionale che separa la Striscia dall’Egitto), l’inibizione dei normali traffici aerei e marittimi, il controllo asfissiante su persone e merci in entrata e uscita da Gaza.
Nel 2005, l’esercito israeliano occupante e i coloni illegalmente stabilitisi nella Striscia, si sono ritirati col cosiddetto disengagement, un’operazione di facciata sostanzialmente voluta dall’allora premier Sharon. In realtà, in questo lembo di Palestina è in corso una delle realizzazioni più odiose e criminali nella storia umana: la creazione di un’enorme prigione a cielo aperto, teatro di una spaventosa crisi economica con deficit devastanti sul piano energetico e sanitario. È una catastrofe umanitaria in uno scenario di disinteresse globale sempre tiepido e distante anche quando quel territorio diviene periodicamente oggetto di criminali e impunite operazioni militari.
Ne abbiamo parlato con Triestino Mariniello, Reader in Law (Professore associato) presso la John Moores University di Liverpool in Gran Bretagna e membro del team legale di rappresentanza delle vittime di Gaza dinnanzi alla Corte penale internazionale.
Da un punto di vista del diritto internazionale come si configurano le operazioni militari israeliane nei confronti del territorio e della popolazione della Striscia di Gaza?
Prima di ogni cosa va detto che, dal punto di vista del diritto internazionale, singole violazioni o illeciti non possono essere analizzati estraniandoli in modo asfittico dal contesto in cui vengono posti in essere. E il contesto in questo caso è quello di un’occupazione ancora in corso nella striscia di Gaza, nonostante quanto si sforzino di far credere le autorità israeliane sostenendo come il disengagement del 2005 dimostri il ritiro di Israele dall’occupazione di quel territorio. È bene ricordare che il regime di occupazione a Gaza è ufficialmente riconosciuto come tale da varie organizzazioni internazionali, a partire dall’Onu stesso, fino al Comitato internazionale della Croce Rossa.
Cosa comporta il riconoscere che le operazioni di guerra si svolgono in un chiaro contesto di occupazione?
Il dato non è affatto irrilevante, anzi è fondamentale e non soltanto da un punto di vista giuridico. Gaza è sotto occupazione perché Israele controlla e condiziona qualsiasi aspetto o attività riguardante la vita sociale ed economica che si svolge in quel territorio. L’occupazione di Israele in Palestina non riguarda perciò la sola Cisgiordania. Diverso poi è il discorso per Gerusalemme Est dove siamo al cospetto di un’annessione vera e propria. Detto ciò, l’occupazione è già di per sè circostanza oggettivamente illegale ai sensi del diritto internazionale. È una forma di collective punishment e di segregazione, come più volte l’ha definita lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, cui è soggetto il popolo di Gaza in violazione del diritto umanitario e penale internazionali. Le operazioni militari nascono in un contesto, quindi, di palese illecito e configurano violazioni che vanno a sommarsi ad altre violazioni.
I bombardamenti nella Striscia verrebbero a situarsi in una situazione di violazione della legge internazionale.
Insisto però sull’importanza di riconoscere lo stato di occupazione perché prima di analizzare singoli crimini di guerra commessi va definito il contesto. Nella fattispecie, anche le autorità israeliane quando intraprendono indagini giudiziarie si focalizzano su condotte individuali. Da un punto di vista giuridico questo è sbagliato: omettere il contesto in cui maturano i singoli crimini significa in fin dei conti mettere le due parti sullo stesso piano. È lo stesso approccio osservato dagli Stati occidentali quando parlano di conflitto Israele-Gaza. Non si può partire da un confronto scorrettamente paritetico tra una potenza militare e una popolazione che vive sotto occupazione. Per meglio comprendere, a Gaza parliamo di un popolo sotto occupazione cui viene ad esempio inibita la riunificazione familiare con i congiunti in Cisgiordania o, come ai malati di cancro, impedito di uscire dalla Striscia e accedere a cure specifiche disponibili soltanto negli ospedali di Gerusalemme.
È dunque fondamentale partire da un nitido riconoscimento della situazione di occupazione a cui è soggetta Gaza. Secondo il diritto internazionale, quali sono gli specifici illeciti compiuti a Gaza da Israele?
Non possiamo non partire dalle cicliche operazioni militari nei confronti di Gaza. Israele tiene molto a precisare che tali operazioni si svolgono in conformità con i principi del diritto internazionale umanitario. Questo non è assolutamente vero, come rilevato dalle commissioni d’inchiesta Onu e da indagini di autorevoli organizzazioni non governative. Infatti, i pilastri del diritto umanitario e del diritto penale internazionale vengono puntualmente violati dalle autorità israeliane.
Di quali pilastri del diritto stiamo parlando?
Uno dei principi fondamentali del diritto nei conflitti armati è il cosiddetto principio di distinzione: ogni volta che si attua un attacco militare bisogna sempre fare una distinzione tra obiettivi civili e militari, cosa che invece puntualmente non avviene a Gaza. Tale distinzione è peraltro resa impossibile dalla condizione in cui si trovano i palestinesi a Gaza vista l’altissima densità abitativa. Gli attacchi israeliani sono dunque diretti anche contro edifici e obiettivi civili. Ci troviamo quindi già in una situazione di un primo grosso illecito poiché è del tutto ignorato il principio di distinzione con attacchi indiscriminati alla popolazione.
Siamo quindi ben al di là del concetto astratto di intervento militare “chirurgico”. Quali sono altri, principali illeciti commessi nel corso di tali operazioni?
Un secondo illecito viene a materializzarsi quando è violato il divieto di uso eccessivo della forza. Uno dei principi fondamentali nel diritto che si occupa di conflitti armati è il cosiddetto principio di proporzionalità. Il rispetto di questo principio non caratterizza nessuna delle operazioni militari condotte contro Gaza. Basta guardare i numeri di tutte le operazioni contro Gaza per vedere come la stragrande maggioranza delle vittime siano fondamentalmente civili. Parliamo di percentuali almeno del 70 per cento, con un elevatissimo numero di morti ivi compresi molti bambini.
Eventi e statistiche che si sono ripetuti anche nell’operazione Scudo e Freccia dei giorni scorsi…
In quest’ultima operazione militare, si è aggiunto un ulteriore illecito. Si tratta della violazione del diritto umanitario che impone la diffusione preventiva di allarme per poter proteggere eventuali obiettivi civili. Ebbene, risulta che non vi sia stato nessun allarme diffuso da Israele. In pratica, un omesso allarme, nella consapevolezza che colpire delle abitazioni di notte significa fondamentalmente uccidere civili.
Gli elementi di violazione sono oltremodo visibili e testimoniabili. Chi paga per tutti questi crimini?
La lista degli illeciti compiuti nel corso delle operazioni militari è lunghissima. Tali illeciti da un punto di vista giuridico prevedono la responsabilità di Israele in quanto Stato per violazione del diritto internazionale ma anche responsabilità penali individuali specie quando si parla di crimini di guerra. L’attacco diretto a obiettivi civili o contro civili è infatti crimine di guerra ai sensi del diritto umanitario e ai sensi dello Statuto della Corte penale internazionale. Questi illeciti maturano in un contesto di attacco sistematico e su larga scala contro la popolazione civile: siamo al cospetto della commissione o presunta commissione di crimini contro l’umanità. Torno perciò a ribadire che, nel caso di Gaza, l’attacco contro la popolazione civile è rappresentato dall’occupazione stessa, dal blocco di Gaza. Si tratta di evidenze inconfutabili.
Qui in Italia, qual è il grado di sensibilità politica nei riguardi di una situazione così manifesta di violazioni del diritto internazionale da parte di Israele?
Nel luglio 2021 insieme con la collega Alessandra Annoni siamo stati ricevuti alla Camera dei deputati per un’audizione in Commissione Esteri. Ebbene di fronte alle evidenze espresse, l’onorevole Piero Fassino, Presidente della stessa Commissione, ha obiettato che tali questioni non toccano il piano giuridico ma che invece andrebbero affrontate attraverso strumenti di mediazione politica. In effetti, il quadro normativo penale internazionale trova applicazione in tutti i Paesi interessati da indagini per i crimini di cui si parlava, vedi anche i recenti procedimenti contro la Russia. In tutti i paesi, dicevo, a eccezione di Israele. È emerso in dibattito che il diritto internazionale non troverebbe consuetudine applicativa con Stati alleati. Questo è risibile: non ci sono ragioni di real politik che tengano di fronte a evidenze inconfutabili dei crimini commessi.
Il contesto anche a Gaza è quello di apartheid che non è soltanto una violazione del diritto internazionale ma è un crimine contro l’umanità. Ovviamente, non sono io a sostenerlo: esistono numerosi rapporti delle varie commissioni d’inchiesta Onu che mettono in evidenza come le autorità israeliane siano responsabili di crimini di guerra durante le operazioni contro Gaza.
Si accennava prima anche all’accertamento di responsabilità individuali nei crimini commessi. Chi si occupa di tali indagini?
Le autorità israeliane hanno l’obbligo non politico ma giuridico di indagare e punire presunti responsabili. Di questo aspetto si parla pochissimo: il diritto umanitario internazionale impone a tutti gli Stati l’obbligo di indagare in modo indipendente e imparziale su presunti crimini internazionali. Cosa che puntualmente non avviene in Israele. In seguito, ad esempio, al clamoroso assassinio della giornalista palestino-statunitense Shireen Abu Akleh, si è assistito e ancora assistiamo alla classica retorica degli Stati occidentali che fa leva su un Israele dotato di un sistema giudiziario indipendente, efficiente che può fare indagini in autonomia. È una cosa del tutto falsa: tale sistema, infatti, in particolar modo quello militare, è tutto tranne che indipendente e imparziale come acclarato da numerose inchieste delle Nazioni Unite che evidenziano come il sistema di giustizia militare israeliano sia concentrato a proteggere i presunti responsabili dei crimini commessi. L’esempio eclatante è proprio quello di indagini sugli atti compiuti a Gaza con indagini focalizzate su singoli soldati small fish, pesci piccoli, riguardo alla violazione di un codice d’onore disciplinare interno. E così, nel 2014, dopo Margine Protettivo, una delle peggiori operazioni in assoluto condotte a Gaza, risulta che solo due soldati sono risultati destinatari di provvedimento penale per essere stati autori del furto di carte di credito a danno di civili palestinesi.
Insomma, i veri protagonisti del crimine restano impuniti e scalfiti nemmeno dall’ombra di un procedimento a loro carico.
È evidente che i crimini di cui stiamo parlando nella gran parte dei casi avvengono col coinvolgimento di persone in posizioni apicali che significa leader politici o militari. Il problema non è rappresentato soltanto dal singolo cecchino che ammazza civili a Gaza ma è strutturale. Riguarda politiche militari adottate e regole d’ingaggio che offrono margini di discrezionalità e arbitrarietà tali per cui è poi impossibile accertare violazioni oggettive. Faccio l’esempio della Grande Marcia del Ritorno iniziata a Gaza nel marzo del 2018 e dove ogni venerdì, al confine di sicurezza con Israele, manifestanti pacifici gazawi si riunivano per reclamare il proprio diritto al ritorno nelle terre originarie. Ebbene, oltre 200 civili (giornalisti, personale paramedico in soccorso di manifestanti feriti, donne, bambini, disabili) sono stati uccisi da cecchini. Non si tratta, è evidente, del casuale operato di singoli cecchini: addirittura tra essi erano praticate macabre competizioni di tiro al bersaglio mirando alle ginocchia dei malcapitati. È chiaro che ci troviamo di fronte alla deumanizzazione del palestinese, in questo caso del cittadino di Gaza, con un problema a monte rappresentato da regole di ingaggio israeliane previamente stabilite con la possibilità per il militare persino di divertirsi a colpire chiunque venisse ritenuto instigator, istigatore non si capisce di cosa e in che modo. Sono insomma evidenti le responsabilità apicali e quando si svolge un’operazione contro Gaza i vertici politici e militari ne sono certamente coinvolti.
Di fronte a simili e omertosi insabbiamenti, chi si occupa della raccolta di prove che obbligano a istruire indagini?
Le prove di crimini di guerra e contro l’umanità compiuti in Palestina sono abbondanti. Probabilmente, non c’è altra situazione al mondo in cui sussistano così tante prove. Nel corso delle operazioni militari, durante i bombardamenti, gli staff delle ONG che operano a Gaza sono operativi sul campo proprio per raccogliere in tempo reale l’evidenza dei misfatti. È un lavoro fondamentale per documentare la verità con prove immediatamente disponibili alla valutazione della Corte penale internazionale.
Già, un tribunale internazionale: unica possibilità per i palestinesi di ottenere, almeno in parte, giustizia.
Non ci sarà mai giustizia per queste vittime a livello interno. La Palestina non può processare un israeliano per questioni storiche, giuridiche e politiche in base agli accordi di Oslo. Israele, dal canto suo, è più che ritroso ad aprire fascicoli a riguardo e non resta altro che raccogliere quelle prove, quegli estremi che possano a livello internazionale stimolare l’attività della Corte penale internazionale con l’apertura di apposite indagini.
Come è composto e di cosa si occupa il team legale internazionale a supporto delle vittime di Gaza?
Oltre al sottoscritto, del team legale fanno parte Raji Sourani, direttore del Palestinian Center for Human Rights di Gaza e la collega Chantal Meloni della Università Statale di Milano. Rappresentiamo davanti alla Corte penale internazionale quelle vittime che rientrano nelle indagini in corso all’Aja ossia per i crimini di guerra commessi durante l’Operazione Margine Protettivo nel 2014 e nel corso delle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno.
Quali sono le condizioni in cui lavorate e che frutti sta fornendo il difficile compito che svolgete?
A onor del vero, il problema principale è che le indagini in precedenza avviate hanno subito un’importante battuta d’arresto con l’elezione, a giugno 2021, del Procuratore Capo l’avvocato britannico Kharim Khan. Proprio il nuovo Procuratore ha correttamente promosso e portato a termine le indagini a carico dei crimini russi in Ucraina in tempi record, giungendo persino all’emissione di mandati d’arresto. Ciò dimostra che se la Corte vuole, può agire assai rapidamente.
I dossier in Corte riguardanti la Palestina vanno invece avanti dal 2009. In particolare, l’indagine preliminare sulle vittime di Gaza iniziata dopo l’operazione militare Margine Protettivo è stata avviata nel 2015 e si è conclusa nel 2019. Dopodiché, nel marzo 2021 la precedente Procuratrice ha aperto l’indagine formale vera e propria. Il passo successivo dovrebbe essere quello dell’identificazione dei responsabili. Purtroppo, il nuovo Procuratore Capo, velocissimo nell’attribuire una corsia preferenziale al dossier Ucraina, ha avuto ritrosia a procedere con le indagini sui fatti di Palestina che sembrano non rappresentare una priorità per l’Ufficio che dirige. È evidente l’adozione di un doppio standard di approccio che è immaginabile dipendente da forti pressioni esterne.
Inutile a dirsi, il livello di frustrazione professionale e umano è accresciuto, dopo tanto lavoro, dal rischio che possano vanificarsi gli sforzi per restituire giustizia alle vittime palestinesi di Gaza.
Oltre un certo grado di frustrazione professionale, bisogna soprattutto sottolineare la frustrazione delle vittime alle quali è già inibita una risposta di giustizia da parte di organi e sistemi giudiziari territoriali e che vedono sfiorire un’indagine a livello internazionale aperta in precedenza. Le vittime palestinesi non sono così ingenue da aspettarsi di vedere un giorno il Netanyahu di turno messo alla sbarra dal tribunale dell’Aia. Per essi, il solo messaggio lanciato alla comunità internazionale che veda un israeliano responsabile di crimini di guerra rappresenta una grande vittoria.
Ogni piccolo progresso sulle indagini riguardanti la Palestina è veramente difficile, ci vogliono anni e, in tutta sincerità, è merito non del tribunale di turno ma della società civile palestinese. Se non ci fossero i corposi dossier di raccolta prove a cura di organizzazioni a tutela e difesa dei diritti umani come Addameer, Al-Haq, Defense for Children International in Cisgiordania e il Palestine Center for Human Rights o Al Mezan a Gaza, nessuna indagine sarebbe possibile. Eppure, sino ad adesso, anche a fronte delle molte evidenze raccolte, nessun inquirente della Corte penale internazionale si è mai recato in Israele o in Palestina.
Nel contesto del diritto internazionale, quali sono le possibilità di intervento da parte di altri Paesi?
Gli approcci politici nei principali paesi occidentali tendono a costruire un eccezionalismo di Israele, intoccabile dal diritto internazionale. Dal punto di vista giuridico, invece, ciò non ha alcun fondamento. Ai sensi del diritto internazionale, i paesi terzi, inclusa l’Italia, hanno l’obbligo giuridico di supportare tutti quegli strumenti che possano in modo pacifico porre fine agli illeciti internazionali commessi in un dato contesto. Non è opzionale per l’Italia decidere, nel caso di un paese alleato, di supportare o meno la Corte penale internazionale o le commissioni d’inchiesta Onu. L’Italia, come la gran parte dei paesi dell’Unione Europea, adotta invece nei riguardi delle procedure riguardanti Israele un atteggiamento estremamente ambiguo. Da anni, infatti, si astiene dal voto su iniziative promosse dalle commissioni d’inchiesta Onu e riguardanti Israele. Cosa che non fa in altri casi aventi per oggetto altre realtà nazionali.
Siamo in un campo d’intervento giuridico, non di scelta od opportunità politica ma, nel caso di Israele, i nostri esponenti obiettano che un’apertura a simili inchieste ostacolerebbe il cosiddetto “processo di pace” che è invece, ormai, un costrutto residente nell’immaginario dei leader occidentali. Non ottemperando a quanto prevede il diritto internazionale, il cosiddetto processo di pace si traduce nel dare carta bianca a Israele nel perpetuare un regime di insediamento coloniale e di apartheid in violazione del diritto internazionale.
Intervista pubblicata anche su Dinamopress
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