Il 15 maggio è scattato l’Overshoot Day dell’Italia, vale a dire il giorno dell’anno in cui l’umanità, se consumasse come l’Italia, avrebbe utilizzato tutte le risorse naturali che la Terra può rigenerare in un anno ed entrerebbe in “deficit ecologico”. Di pianeti come il nostro, ai livelli di consumo nazionale, ne servirebbero 2.8
Distratti dalle terribili notizie sulla guerra in Ucraina, in un sistema mediatico in cui c’è spazio solo per “ una notizia alla volta”, è passata praticamente inosservata la pubblicazione del nuovo rapporto “Mitigation of Climate Change” scaricabile a questo link. Questo rapporto, presentato il 4 aprile scorso dall’IPCC, il più autorevole organismo mondiale sulla crisi climatica, istituito dall’ONU nel 1988, è un documento molto importante che potrebbe riportare l’attenzione sulla terribile situazione climatica e sulla altrettanto terribile inazione dei governi (“Alcuni leader del governo e degli affari dicono una cosa, ma ne fanno un’altra. Stanno mentendo. È ora di smettere di bruciare il nostro pianeta” ha twittato António Guterres, segretario generale dell’ONU).
Ma probabilmente anch’esso , come gli innumerevoli documenti sul clima varati negli ultimi tre decenni, servirà a poco o niente, perchè resta imprigionato nella logica del sistema che ci sta conducendo al baratro: si concentra solo sui cambiamenti climatici tralasciando gli altri aspetti della crisi climatica, fa grande affidamento sulle tecnologie di cattura e stoccaggio di CO2 e non affronta assolutamente i problemi alla radice – anche se contiene dei (timidi) riferimenti alla decrescita (come anche il rapporto del secondo gruppo di lavoro).
La crisi sistemica
È ormai sempre più chiaro a sempre più persone che la crisi climatica denunciata dall’IPCC, così come la stessa terribile guerra in Ucraina, sono solo le manifestazioni più evidenti e catastrofiche del nostro sistema sociale, culturale ed economico “intrinsecamente” distruttivo e biocida: un sistema malato di avidità, ossessionato dalla crescita dei valori economici e che spinge alla competizione permanente per l’accaparramento delle risorse e dei mercati, provocando, oltre alle guerre, il surriscaldamento globale, la distruzione della biodiversità, l’avvelenamento dei mari, dell’aria e della terra, le pandemie da zoonosi, ecc.
Ma se il riscaldamento globale è solo una parte del problema sistemico in cui ci troviamo, allora il suo contrasto, attraverso la lotta alle emissioni di CO2, è azione necessaria ma non sufficiente ad affrontare la crisi globale. Anzi, come tutte le visioni parziali di un problema, può essere controproducente nella misura in cui può bloccare il nostro intervento sulla parte di problema che non vediamo, impedendo, di fatto, il cambiamento.
Talvolta poi le soluzioni parziali proposte sono perfino deleterie. Una di queste è, ad esempio, la CCS (Carbon capture and storage), cioè la cattura e stoccaggio del carbonio che viene spesso invocata come una soluzione tecnologica semi-miracolosa capace di far sparire, come con un gioco di prestigio, i gas precedentemente immessi in atmosfera, stoccandoli nelle viscere della terra. Ma in realtà si tratta di una falsa soluzione, controproducente e pure pericolosa: controproducente perché ci culla nell’illusione di poter continuare tranquillamente a emettere, tanto poi – si pensa – ripuliremo l’atmosfera dalle emissioni; pericolosa perchè perchè si tratta di una tecnologia invasiva che potrebbe addirittura creare nuovi rischi ambientali.
Come partigiani della decrescita, noi vogliamo dunque sottolineare che, per risolvere la crisi ecologica ed assicurare a tutti gli esseri (umani e non, presenti e futuri) “una vita giusta nei limiti biofisici del pianeta”, oltre ad azzerare le emissioni di CO2 (e di tutti i gas a effetto serra), occorre ridurre “il peso” complessivo delle nostre società e dunque il sovra-sfruttamento della natura (in inglese “overshoot”) per ritornare in equilibrio con i sistemi biofisici, che permettono e sostengono la vita sulla Terra.
L’Overshoot Day
Ecco perché l’Overshoot Day deve essere per tutti noi un campanello d’allarme importante che oltre a darci la percezione molto intuitiva e concreta della pressione umana sulla terra ci permette anche di ricavare la misura esatta di quanto dovremmo ridurre il peso delle nostre economie. La data in cui cade ogni anno è indicata dal Global Footprint Network, il centro di ricerca internazionale che calcola l’impronta ecologica dell’umanità e la capacità della Terra, sia a livello globale che delle singole nazioni, di rigenerare le risorse consumate ogni anno, anche in termini di capacità di assorbimento delle emissioni rilasciate in atmosfera.
Aggiungiamo che l’Overshoot Day continua ad anticiparsi, anno dopo anno, salvo rare eccezioni come il 2020 per il covid-19. Infatti, nel 2021 l’Earth Overshoot Day è stato il 29 luglio, nel 2011 il 3 agosto, nel 2001 il 21 settembre e così via a scalare (vedi fig. 1). Ma, come detto, questo dato è molto differenziato tra i diversi Paesi (vedi fig. 2).
Per capire meglio tutto questo vediamo alcuni dati. La terra – dicono gli scienziati – è dotata di una certa biocapacitá, cioè della capacità di sostenere la vita e questa biocapacitá è in qualche modo misurabile in ettari globali medi (gha)[1]. Ora, il problema è che l’umanità ha una impronta di 2,7 gha procapite mentre la biocapacitá del nostro pianeta è di soli 1,6 gha. Questo significa che oggi l’umanità sta usando la natura 1,7 volte più velocemente di quanto la biocapacità del nostro pianeta le permetterebbe, che equivale a utilizzare le risorse di 1,7 Terre (colonna D). In altre parole, stiamo vivendo come se avessimo a disposizione 1,7 terre! Se poi invertiamo l’equazione, possiamo ricavare il dato che l’umanità ha bisogno di una riduzione del 41% del proprio impatto per ritornare in equilibrio con la Terra (colonna F).
Se prendiamo in considerazione solo gli italiani, anziché l’intera umanità, possiamo dire che essi hanno un’impronta ecologica di ben 4,5 gha (pro capite): questo vuol dire che, se tutta l’umanità consumasse come gli italiani, avremmo bisogno di 2,8 terre (colonna D). Ma siccome non li abbiamo, ecco che è urgente e vitale rientrare entro i limiti del pianeta riducendo la nostra impronta del 64% (colonna F). Se poi consideriamo che il territorio italiano è altamente popolato e dotato di una scarsa biocapacità (di soli 0,9 gha), perveniamo al dato stupefacente che noi italiani avremmo bisogno di ben 5 Italie per vivere come oggi (colonna E) e che, se volessimo rimanere entro i limiti di biocapacità dell’unica Italia che abbiamo, dovremmo ridurre il nostro impatto dell’80% (colonna G).
Facendo la media tra questi due valori, quindi, possiamo calcolare che come italiani dovremmo ridurre la nostra impronta ecologica del 72%. Per fare un confronto, gli abitanti degli USA consumano 8,1 gha ma vivono in un territorio molto più vasto e con un’alta biocapacità (4,5 gha). Totalmente fuori scala è invece il caso del Quatar, i cui abitanti avrebbero bisogno di 15 Stati come il loro per permettersi lo stile di vita altamente impattante che conducono.
Il principio di realtà ci impone insomma di prendere al più presto coscienza collettiva della situazione che abbiamo appena cercato di descrivere. Per muoverci in questa direzione, già nell’ottobre 2021 è stato pubblicato nel sito del Movimento per la Decrescita Felice un documento dal titolo molto esplicito: “Quanta decrescita?”. In questo documento, oltre ai dati dell’Overshoot Day, sono stati analizzati anche quelli dello studio “A Good Life For All Within Planetary Boundaries”, che ha identificato 7 indicatori utili per misurare uno spazio di sviluppo “sicuro ed equo”, ha quantificato le risorse utilizzate da ogni paese e le ha confrontate con i sette più importanti limiti planetari. Da questa analisi è emerso che l’Italia supera ben 5 limiti biofisici su 7 e che dunque dovrebbe ridurre il proprio impatto del 78%, per poter rientrare nei propri limiti – un dato quindi molto in linea con quello dell’Overshoot Day.
La riduzione differenziata
Per rispondere a questo genere di problemi dobbiamo considerare che, il fatto che nazioni come l’Italia debbano ridurre il proprio impatto biofisico[2] di una misura tra i ⅔ ed i ¾ dei livelli attuali, non vuol dire assolutamente che questa riduzione debba riguardare tutte le persone allo stesso modo, perché non tutti consumano ed inquinano allo stesso modo. Infatti, essendo le emissioni e l’impatto ambientale estremamente correlati al reddito, la riduzione dovrà essere anche molto differenziata tra le diverse classi sociali.
La riduzione di energia e risorse dovrà essere anche molto differenziata fra i diversi settori economici e produttivi, con un obiettivo duplice: da un lato, proteggere e potenziare quei settori che mirano al benessere umano e alla rigenerazione ecologica; dall’altro lato, ridurre la produzione ecologicamente distruttiva e socialmente meno utile. Quindi, i settori produttivi che concorrono al benessere ed alla sostenibilità (come le attività di cura per le persone e l’ambiente, la mobilità condivisa e non-fossile, l’agroecologia, ecc.) potranno e dovranno crescere, sia pur in modo ecologicamente sostenibile mentre i settori che rappresentano una minaccia ecologica e/o sociale dovranno essere drasticamente ridotti.
La questione del benessere
Guardare a questa situazione con un’ottica di tipo sociale pare molto preoccupante e ci porta a porci questa domanda: come potremo mai effettuare una riduzione dei consumi così drastica in un contesto sociale già degradato come quello italiano, dove più di due milioni di famiglie e oltre 5,6 milioni di individui si trovano in condizione di povertà assoluta (fonte ISTAT)? Non rischiamo un “massacro sociale”?
Secondo noi, contrariamente a quanto si legge spesso, confondendola con la recessione, una decrescita pianificata e democratica dei consumi non solo non diminuirà il benessere sociale, ma potrebbe anche aumentarlo.
Infatti, come abbiamo appena visto, la decrescita dei consumi e dell’impatto ambientale dovrà riguardare in primis le classi più agiate che sono le più impattanti ed inquinatrici, mentre le risorse liberate dovranno servire ad una rigenerazione della vita sociale in senso qualitativo e a una riorganizzazione dei servizi mirante ad a costruire una convivenza non solo sostenibile ma anche dignitosa per tutti. Ecco perché, se ben progettata ed eseguita, lungi dal portare ad un peggioramento della vita delle persone, la decrescita può, al contrario, determinare un aumento del benessere sociale, garantendo a tutti un accesso alle risorse (necessarie alla soddisfazione dei bisogni) socialmente ed ecologicamente equo, indirizzando tutta l’economia direttamente verso la cura delle persone, delle comunità e della natura e tagliando le attività economiche in eccesso e quelle inutili e dannose. Questo è possibile facendo della cura il centro stesso e il focus dell’economia e non solo un suo settore specifico, a differenza di quanto fa l’attuale economia della crescita che, anziché soddisfare i bisogni, mira a perpetuarli ed amplificarli per permettere la crescita del PIL (salvo poi riservare una parte residuale delle risorse prodotte a “curare” le ferite che il sistema per sua natura produce).
Verso la trasformazione
Per affrontare una sfida simile, non serve niente di meno che un piano davvero radicale, cioè capace di identificare e recidere la radice dei problemi attraverso una trasformazione profonda dei principi dell’attuale paradigma culturale, politico ed economico che ci stanno conducendo al disastro e una sostituzione dell’attuale patto sociale (basato sul lavoro retribuito) con un nuovo patto sociale “comunitario”.
A tal fine, il nostro gruppo di attivisti, soci delle principali associazioni italiane che si occupano di decrescita, ha predisposto il documento “Uscita di Emergenza”, riassunto in questo abstract, che avanza una serie di proposte politiche, intorno a tre obiettivi cardine della decrescita:
- ridurre l’impatto ambientale delle attività umane per ritornare in equilibrio con la natura,
- migliorare il benessere di tutti gli esseri, trasformando e rilocalizzando la “struttura” economica della società
- modificare la “sovrastruttura” della società, in senso conviviale e partecipativo.
Ricordare l’Overshoot day del 15 maggio è importante! Riteniamo che possa agevolare quel risveglio e quella presa di coscienza personale e collettiva che soli possono aprire la strada al cambiamento auspicato e necessario.
Tutti i dati contenuti in questo articolo provengono dal documento “Quanta decrescita”? scaricabile a questo link.
[1] L’unità di misura dell’impronta ecologica è l’ettaro globale medio (global hectar average, gha) che corrisponde a un ettaro di spazio produttivo con produttività pari a quella media mondiale calcolata per le terre e le acque biologicamente produttive.
[2] e di conseguenza il PIL, che può essere disaccoppiato dalle emissioni di CO2 ma non dall’uso di energia e materia
Guido dice
Sono completamente d’accordo. Tutta la civiltà industriale è una patologia della Terra. Deve finire. Ma in che modo? E’ troppo tardi perchè questo possa avvenire “dolcemente”, ma deve comunque finire al più presto. Gli anni 70 del secolo scorso sono stati “L’ultima chiamata”. Nessuno ha risposto.