La pandemia dilagata in questi mesi accelera tendenze preesistenti: l’interruzione dell’integrazione economica; l’indebolimento politico che provoca la crisi delle classi dominanti e le profonde trasformazioni psicologiche e culturali. Tutte e tre le tendenze stanno aumentando di velocità e possono sfociare nella disarticolazione del sistema-mondo capitalista a cui è ancorata la nostra civilizzazione. Le pandemie, tuttavia, non si scatenano in periodi qualunque, secondo diversi analisti, esse segnano la conclusione di periodi della storia. Quella generata dal Covid-19 potrebbe dunque indicare la fine della civilizzazione moderna, quella occidentale e capitalista, che ha esercito egemonia in tutto il pianeta. Non si tratta di una civilizzazione democratica, caratterizzata com’è da una stretta relazione tra guerra, violenza, Stato e giustizia-diritto. Solamente quando le comunità raggiungono la capacità di decidere e agire sulle questioni che le riguardano, allora si può parlare di società democratica, aveva scritto nella difesa presentata alla Corte Europea dei Diritti Umani, Abdullah Öcalan. Da 21 anni il leader kurdo è stato sepolto vivo nel carcere di massima sicurezza di İmralı, un’isola turca del Mar di Marmara, le istituzioni politiche “democratiche” occidentali non hanno mai alzato un dito per protestare

Negli effetti e nelle conseguenze, la pandemia è la grande guerra dei nostri giorni. Come accadde per le due conflagrazioni del ventesimo secolo o per la peste nera del quattordicesimo, la pandemia è la fine di un periodo della nostra storia. Possiamo chiamarlo, per riassumere, quello della civilizzazione moderna, occidentale e capitalista, che include tutto il pianeta.
La globalizzazione neoliberista ha incarnato lo zenith e l’inizio della decadenza di quella civilizzazione. Le pandemie, come le guerre, non si verificano in qualsiasi periodo, bensì nella fase finale di quello che il professor Stephen Davies* dell’Università Metropolitana di Manchester definisce come ecumene. In quella parte del mondo, vale a dire, che possiede “un’economia integrata e una divisione del lavoro, unite e prodotte dal commercio e dallo scambio”.
Le pandemie si scatenano, secondo l’analisi di Davies, quando un periodo di “crescente integrazione economica e commerciale nella gran parte della superficie del pianeta” giunge alla fine. Sono possibili grazie a due fenomeni complementari: un elevato movimento umano e un incremento dell’urbanizzazione, entrambi potenziati da un modo di vivere che chiamiamo globalizzazione e “dall’allevamento intensivo di bestiame”.
A voler essere precisi, la pandemia accelera tendenze preesistenti, fondamentalmente tre: l’interruzione dell’integrazione economica; l’indebolimento politico che provoca la crisi delle classi dominanti e le profonde trasformazioni psicologiche e culturali. Tutte e tre le tendenze stanno aumentando di velocità fino a sboccare nella disarticolazione del sistema-mondo capitalista a cui è ancorata la nostra civilizzazione.
La prima tendenza si manifesta con l’interruzione delle catene di distribuzione di lunga distanza, che conduce alla de-globalizzazione e alla moltiplicazione di imprenditorialità locali e regionali.
L’ América Latina si trova in pessime condizioni per affrontare questa sfida, le sue economie sono completamente rivolte verso il mercato globale. I Paesi sono in competizione tra loro per collocare i medesimi prodotti sugli stessi mercati, il contrario di quanto accade in Europa, per esempio. La ristrettezza dei mercati interni gioca a sfavore, mentre il potere dell’1 per cento della popolazione tende a ostacolare l’uscita da questo modello estrattivo neoliberista.
In secondo luogo, dice Davies, le pandemie sono solite “debilitare la legittimità degli Stati e dei governi”, mentre si moltiplicano le ribellioni popolari. Esse colpiscono soprattutto le grandi città, che costituiscono il nucleo del sistema, come nel caso di New York e Milano. Le classi dominanti abitano le metropoli e sono di età superiore alla media, perciò saranno colpite anch’esse dalle epidemie, come si può osservare anche oggi.
Però le pandemie, generalmente, danneggiano anche buona parte della ricchezza delle élite. Così come le guerre, le grandi catastrofi “producono una grande riduzione della disuguaglianza”. È accaduto con la peste nera e anche con le guerre del XX secolo.
Il terzo punto messo in luce da Davies, le trasformazioni culturali e psicologiche, è talmente evidente che nessuno dovrebbe ignorarlo: l’attivismo delle donne e dei popoli originari, con la tremenda crisi che hanno prodotto il patriarcato e il colonialismo, è l’aspetto centrale del collasso della nostra civilizzazione statocentrica.
Il leader kurdo Abdullah Öcalan, nel secondo volume della monumentale opera della sua difesa davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani, contrappone la “civilizzazione statale” a quella “democratica” e conclude che esse non possono coesistere.
Per Öcalan, lo Stato s’è formato in base a un sistema gerarchico fondato sulla sottomissione delle donne. Con il tempo, poi, si è trasformato nel nucleo della civilizzazione statale, essendoci una “stretta relazione tra guerra, violenza, civilizzazione, Stato e giustizia-diritto”.
Al contrario, la civilizzazione democratica si distingue da quella statale, cercando di soddisfare l’insieme della società attraverso la gestione comune delle questioni comuni. La sua base materiale e la sua genealogia vanno cercate nelle forme sociali precedenti allo Stato e in quelle che, dopo la sua apparizione, ne sono rimaste ai margini.
“Quando le comunità raggiungono la capacità di decidere e agire sulle questioni che le riguardano, allora si potrà parlare di società democratica“, scrive Öcalan.
Quel tipo di società sono già esistenti. Danno forma ai modi di vivere a cui possiamo ispirarci per costruire le arche che ci possono permettere di sopravvivere nella tormenta sistemica. Quella tormenta adesso si presenta in forma di pandemia, ma in futuro si combinerà con il caos climatico e le guerre tra le potenze e contro i popoli.
Ho avuto la possibilità di conoscere alcune di quelle società democratiche, soprattutto in America Latina. La maggiore e la più sviluppata oggi può già contare con 12 caracoles di resistenza e ribellione dove si costruiscono mondi nuovi.
- Stephen Davies è responsabile educativo presso l’Institute for Economic Affairs di Londra, Senior Fellow all’American Institute for Economic Research e insegna storia e storia dell’economia a Manchester.
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Il problema difficile da sormontare per la civilizzazione industriale, è l’esaurimento dei metalli e del petrolio con il quale si crea l’80% del concime per la terra. Il suo collasso è inevitabile e provocherà miliardi di morti per mancanza di cibo. Senza metalli dovremo ritornare a lavorare la terra con gli uomini e gli animali, ma si produrrà molto meno cibo. Un trattore fa il lavoro di 200 persone.