Se è vero che il cambiamento profondo passa sempre meno per le istituzioni e per le diverse macchine da guerra elettorali messe in campo per occuparle, è anche vero che le trasformazioni sociali si nutrono tanto di pratiche solidali quanto di analisi di ciò che accade intorno alle istituzioni. Per questo, aldilà degli esiti elettorali, siamo convinti che il fenomeno di Beppe Grillo, il suo passare da personaggio dello spettacolo a punto di riferimento politico, meriti attenzioni: siamo infatti di fronte a un fenomeno complesso, poco analizzato anche da chi critica Grillo, magari per il suo personalismo narcisista e antidemocratico oppure per le sue idee sui migranti. «Un grillo qualunque» (Castelvecchi), di Giuliano Santoro, è un libro che colma in modo brillante questo vuoto perché ragiona sul fenomeno Grillo come cartina di tornasole di molte delle cose che sono successe nel paese. Il testo indaga il «grillismo» attraverso tre strade: la televisione (a cominciare dalla relazione tra Grillo e Antonio Ricci degli anni’80), la Rete (Grillo e Gianroberto Casaleggio) e il rapporto di queste con la politica. In particolare vengono osservati i nessi tra comunicazione, consenso e potere, «fino a scoprire che il campo dei media non è caratterizzato da cesure e confini, come sostiene Grillo quando esalta la Rete a scapito degli altri mezzi di comunicazione, ma che questo è uno spazio unico che risponde a logiche convergenti». Pubblichiamo qui di seguito ampi stralci tratti del paragrafo intitolato «Un governo contro la casta?» (in coda l’indice completo, altre informazioni sul libro sono qui).
Possiamo attribuire al leader dei 5 Stelle quello che Lakoff diceva a proposito della rivoluzione vittoriosa dei conservatori americani da Reagan in poi: Grillo «ripete all’infinito frasi che evocano i suoi framee definiscono i problemi nei suoi termini. Questa ripetizione fa sì che il linguaggio appaia normale, consueto e i suoi frame costituiscano il modo più normale e consueto di vedere i problemi». Grillo cambia il linguaggio e fa in modo che le sue «cornici» siano le uniche che consentano di vedere i problemi. La costruzione di framee l’abuso di parole d’ordine ci rimanda da un lato allostrumento dei tormentonie delle risate pre-registrate che Grillo ha imparato frequentando la televisione di Antonio Ricci. Dall’altro, ci impone di far interagire il ruolo «rassicurante» del politico-attore (…). L’ipotesi di Lakoff diventa ancora più produttiva se viene intrecciata alle teorie del filologo Furio Jesi a proposito del ruolo liberatorio che assumono le «idee senza parole» e riguardo alle «parole d’ordine» utilizzate sia dalla «cultura di Destra» che dalla comunicazione di massa e dagli spot commerciali. Vediamo.
Gli spettacoli sono momenti in cui Grillo svela l’essenza delle cose, cancellando i filtri dei media e dei «poteri forti» che mascherano la realtà. Questo significa che il comico trova anche altri modi di nominare le cose. Nuove parole, nuovi concetti, nuove metafore che introducono lo spettatore dentro al frameliberatorio dell’attore. Il mondo dei grillini utilizza un gergo tutto suo, in codice, quasi per iniziati, che saccheggia icone dell’immaginario di massa per ridefinire l’universo circostante, riproduce le metafore e le iperboli dei testi dei comizi-spettacoli di Grillo e le utilizza nella quotidianità del dibattito politico, quasi ad addomesticare e rendere più familiare, anche divertente, l’attivismo politico. Fare politica nel Movimento 5 Stelle vuol dire muoversi nella sceneggiatura disegnata da Grillo, provare il brivido di fare parte di quella storia, avere l’impressione di interagire con un personaggio dello spettacolo. Il tour elettorale dei 5 Stelle diventa così «la carica dei 101», i partiti sono «zombie» e quelli del governo tecnico «vampiri», gli evasori fiscali «asini volanti», il Parlamento una «larva vuota», quelli di Equitalia sono i «piranha», i Buoni del tesoro appaiono come le «figurine Panini», l’Italia è una «balena spiaggiata», le agenzie di rating sono «le parche della mitologia greca», i talk-show vengono raffigurati con l’immagine del «trespolo». (…)
Il gergo di Grillo e dei grillini comprende un lungo elenco di soprannomi degli avversari politici. È una scuola, quella dei nomi storpiati, che vanta molti antenati, un albero genealogico tutto schierato a Destra che coinvolge anche il fondatore dell’Uomo Qualunque Guglielmo Giannini, che chiamava il padre costituente Pietro Calamandrei «Caccamandrei» o l’azionista Luigi Salvatorelli, additato in quanto sostenitore delle epurazioni dei fascisti dalle istituzioni, «Servitorelli». Dopo di lui, ci fu Emilio Fede, che infastidito dal consenso dilagante alla contestazione al G8 di Genova, nel 2001, decise di storpiare i nomi di due dei portavoce di quel movimento, Luca Casarini e Vittorio Agnoletto, chiamandoli «Casarotto» e «Agnolini». In quel caso, sbagliare i nomi deliberatamente equivaleva a dire: «Non pensiate di essere diventati noti al grande pubblico, io ad esempio non ricordo mai i vostri cognomi». (…) Si è esercitato per anni coi nomi storpiati un altro giornalista che a più riprese ha rivendicato la sua formazione di Destra, alla corte di Indro Montanelli: Marco Travaglio. Il vicedirettore e corsivista de «il Fatto Quotidiano» chiama l’ex grande capo della Protezione civile Guido Bertolaso «Disguido Bertolaso» o anche (dopo le indagini che lo hanno riguardato su certi massaggi a luci rosse) «Bertolaido». Il grande nemico della Destra «per bene» di Travaglio è Silvio Berlusconi, che nei commenti diventa «Cavalier Zelig», «il Banana» o anche «Kim Il Silvio». (…) Nell’universo grillino, invece, Giorgio Napolitano è «Morfeo», Mario Monti viene presentato come «Rigor Montis» o come «Hal 9000», il computer impazzito di 2001 Odissea nello Spazio, Berlusconi è «lo Psiconano», Walter Veltroni «Topo Gigio», Roberto Formigoni è ribattezzato (invero senza troppa fantasia) «Forminchioni», la ministra facile alla lacrima Elsa Fornero è «Frignero», Umberto Veronesi «Cancronesi», il segretario del Pd Pierluigi Bersani «Gargamella». (…)
Quando Furio Jesi ha coniato l’espressione «idee senza parole», voleva descrivere quei concetti che presumono di «poter dire veramente, dunque dire e al tempo stesso celare nella sfera segreta del simbolo, facendo a meno delle parole, o meglio trascurando di preoccuparsi troppo di simboli modesti come le parole che non siano parole d’ordine». Da questa necessità di parole d’ordine, prosegue Jesi, deriva un fenomeno tipico della «cultura di Destra»: «La disinvoltura nell’uso di stereotipi, frasi fatte, locuzioni ricorrenti». (…) «Non si tratta soltanto di povertà culturale, di vocabolario oggettivamente limitato per ragioni di ignoranza», spiega Jesi, «il linguaggio usato è innanzitutto di idee senza parole e può accontentarsi di pochi vocaboli o sintagmi: ciò che conta è la circolazione chiusa del “segreto” – miti e riti – che il parlante ha in comune con gli ascoltatori, che tutti i partecipanti all’assemblea o al collettivo hanno in comune».
Se ai miti del passato della cultura di Destra, sostituiamo i simboli e gli slogan della cultura di massa, della televisione e della pubblicità, allora (…) capiamo quanto questa possa trovare fortuna anche ai giorni nostri, riproponendo i suoi ragionamenti. Lo stesso Jesi, più avanti, utilizza un prodotto della letteratura popolare per spiegare il suo ragionamento. In un’intervista del 1974, un giornalista fa notare a Liala, scrittrice di successo di romanzi romantici, come ella sia capace di utilizzare un «linguaggio che capiscono tutti». Addirittura, sostiene il medesimo giornalista, quel linguaggio tutti «lo assimilano al punto che – quando scrivono a Liala – usano il medesimo vocabolario imparato così, pagina dopo pagina, magari compitata o seguita col dito». Da queste osservazioni parte Jesi per sostenere che l’imitazione del linguaggio del proprio beniamino (in questo caso uno scrittore) da parte dei suoi fan (in questo caso lettori) è «la prova dell’esatto contrario di quanto si vuole dimostrare per Liala. Il lettore adotta vocabolario e stile dello scrittore prediletto poiché vi trova qualcosa che non possedeva ancora, che in fondo non capisce e che crede di non capire proprio perché quella qualcosa di non comprensibile è, in quanto tale, efficace: agisce, serve, suscita infallibilmente stimoli sentimentali, “crea un’atmosfera”, soddisfa, cioè elimina difficoltà che vanno dalle conseguenze del cattivo umore o della frustrazione a quelle della fatica di pensare». «Il linguaggio di Liala», conclude Jesi, «non vuole essere “capito” per goderlo basta rimanere nel meno faticoso degli stati di torpore della ragione».
Nel mondo di Beppe Grillo il passato non esiste. Esiste solamente il futuro della «nuova era», della Rete, della mutazione antropologica. Le idee senza parolesono costituite prevalentemente da una costruzione mitologica che non ha certo inventato Grillo ma di cui il comico genovese si nutre a piene mani. I politici (riuniti nella «Casta») sono vecchi, la scuola che frequentano i vostri figli è vecchia, le ideologie sono vecchie. Nuova è la Rete, come mondo mitologico, organico, a-conflittuale, nel quale ogni cosa assume il suo ordine naturale. «Nel salotto di casa, collegandosi alla Rete, si potrà creare qualsiasi oggetto da una penna a un fischietto», scrivono Grillo e Casaleggio in Siamo in guerra. «La possibilità di comunicare in Rete attraverso il pensiero da ipotesi di fantascienza è diventata realtà». La tecnologia non viene descritta per quello che è, cioè un complesso campo di forze, uno spazio di tensione tra diversi interessi. Al contrario, la tecnologia diventa una sorta di panacea. Sono concetti che vengono ripetuti continuamente, mai spiegati fino in fondo, fino a rappresentare un elemento identitario, un universo di segni di riconoscimento cui attingere. È quella che Wu Ming 1, in un articolo molto dibattuto sul «feticismo digitale» ha definito «narrazione tossica»: «La tecnologia come forza autonoma, soggetto dotato di un suo spirito, realtà che si evolve da sola, spontaneamente e teleologicamente». L’approccio alla «Rete» dei grillini, dice in un’altra occasione Wu Ming 1, «vede nella tecnologia una forza autonoma, trascendente le relazioni sociali e le strutture che invece la plasmano, determinandone sviluppo e adozione. La Rete diventa una sorta di divinità, protagonista di una narrazione escatologica in cui scompaiono i partiti (nel senso originario di fazioni, differenze organizzate) per lasciare il posto a una società mondiale armonica, organicista. L’utopia di un uomo è la distopia di un altro».
In ossequio a una radicata forma mentis liberista, nel mondo nuovo della Rete descritto chi ci mette la faccia si afferma e non ha nulla da temere, perché la verità in Rete trionfa sempre: «In Rete la trasparenza è d’obbligo, non si può mentire», scrivono Casaleggio e Grillo in Siamo in guerra. «Un articolo con dati non corretti è immediatamente confutato e il suo autore perde credibilità». Altrove ci soffermiamo su come la Rete non sia affatto il luogo dove si realizzi l’utopia liberale della concorrenza perfetta, su come anche in Internet possano esistere disuguaglianze, rapporti di forza, concentrazioni monopolistiche, sfruttamento, menzogne e su come non sia la «verità» a trionfare nella comunicazione politica odierna bensì il modo con il quale vengono concatenati i fatti. Qui ci interessa ragionare di come il messaggio anfibio (in parte legato alle logiche televisive e in parte destinato a quelle della Rete) utilizzi un linguaggio che ricorda molto quello analizzato da Jesi. Se il successo di Grillo è come quello di Liala, ciò è dovuto al fatto che il suo linguaggio non chiede di essere capito, tanto che una lettrice le scrive definendolo «parole come acqua sorgiva che lavano tutto», in relazione alla loro capacità di costruire un mondo e di rappresentare «generalmente valori sostitutivi: compensazioni di valori assenti o non percepiti». Utilizzando la cassetta degli attrezzi sapientemente costruita da Jesi, ad esempio, possiamo dire che la storiella ripetuta a più riprese dell’uomo che si presenta dal Capo in camerino e lo convince di qualcosa, e che addirittura pone le basi per una nuova svolta «ideologica», costruisce il mito del leader aperto alle istanze del pubblico, disposto a incontrare il prossimo e a cambiare idea grazie al suo apporto.
Tratto da «Un grillo qualunque» di Giuliano Santoro
Castelvecchi Editore – © 2012 Lit Edizioni srl
Indice
Prologo. La piazza e il piccolo schermo
L’uomo venuto dalla televisione
La scoperta della Rete
Piovono voti nella tempesta della crisi
Un governo contro la Casta?
Epurazione emiliana
Identikit del grillino
Conclusioni. La morale della favola
Piccola bibliografia ragionata
Ringraziamenti
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