La crisi che viviamo in queste settimane si abbatte, o rischia di abbattersi, in primo luogo sui nostri stessi corpi. Non possiamo affidare le nostre speranze di difenderci solo alla scienza e ai “tecnici” che vengono chiamati in causa per informare le scelte della politica. Certo, c’è l‘urgenza di proteggere anzitutto i più deboli e vulnerabili, cercando di contenere l’allargamento dell’infezione che andrebbe a mettere a dura prova un sistema sanitario fiaccato da anni di tagli e privatizzazioni. Dobbiamo assumere, in questo senso, una presa di responsabilità collettiva. Ma ci sono altre cose che in questi giorni attraversano la mente e i pensieri, persi come siamo in una quotidianità anfibia, nella quale cerchiamo di mantenere il nostro essere esseri sociali, che si occupano e preoccupano dell’esistente, mentre quel che ci viene chiesto è di rinunciarci, di chiuderci in noi stessi. Senza abbracci, senza gesti di affetto e simpatia. Aggiungendo così un’ulteriore frontiera tra i nostri corpi e gli altri, tra noi e gli ecosistemi fisici, culturali, immateriali che danno senso a quel che siamo. In tempi di crisi, in ogni crisi, si produce invece anche la possibilità del cambiamento: ci si organizza, si creano nuove solidarietà e mutualismi, si sperimentano formule fino ad allora impensabili

Un sottile velo di carta o garza sul naso e la bocca come ultima frontiera. Questo viene da pensare oggi, dopo giorni di martellante informazione, di interessanti analisi ed elaborazioni sulla crisi del momento, quella del Coronavirus.
Una crisi che ci sta mettendo in crisi come null’altro, poiché si abbatte o rischia di abbattersi sui nostri stessi corpi. Accantoniamo definitivamente le narrative della catastrofe, visto che da tempo – come ci dicono spesso inascoltati gli studiosi ed intellettuali decoloniali – gran parte dell’umanità vive in stato di apocalisse spesso anche a causa delle ricadute del nostro modello di vita. Su questo filo di carta o garza si gioca il destino, si snodano le questioni e le contraddizioni della biopolitica.
Non c’è riuscito il climate change, che in fondo in fondo i nostri corpi non ne hanno ancora sofferto le ricadute. O meglio, qualcuno certo che le ha sofferte. Eccome. Dagli anziani che muoiono per il caldo, ai popoli impoveriti che muoiono senz’ acqua, o cibo, le loro terre sommerse dall’innalzamento dei mari, o nei territori abbandonati e marginali, ecosistemi che si sgretolano sotto il peso del fango o delle piogge inusuali.
E’ un tema di giustizia e biopolitica quello del climate change come anche questo COVID. Non a caso oggi i più vulnerabili sono proprio gli anziani, i malati. Guarda caso non nel Sud del mondo, ma comunque egualmente gli esclusi che la logica del mercato e della competizione dimentica giacché non “sani” o “produttivi”.

Disposed o disposable lives direbbe Judith Butler, che devono fare i conti con un altro effetto nefasto del modello liberista, proprio come quegli anziani o esseri umani che muoiono di caldo o quei territori saccheggiati dalla legge dell’estrazione di profitto e della speculazione. Territori fisici, ecosistemi da una parte, zone di protezione, cura e rifugio dall’altra.
Quelle della sanità pubblica che sconta il passaggio nefasto della logica dell’efficienza e del pareggio dei conti. Quel sottile velo di carta vorrebbe proteggerci, difendere il nostro corpo, ed invece è lì a dimostrare la nostra impotenza. Su questo aspetto sarà opportuno riflettere.
Quando c’è una crisi di questa entità nei fatti si crea uno stato di eccezione dovuto all’eccezionalità della situazione. Non forse quello annunciato da Giorgio Agamben, in un suo articolo che – dato forse positivo in questo momento complicato e complesso – ha innescato un dibattito filosofico, politico e culturale di alto livello e del quale – secondo il principio orientale del fare della crisi una opportunità – si dovrebbe far tesoro. Non uno stato di eccezione à la Agamben però certo una situazione nella quale entrano in gioco vari livelli,
C’è quello della scienza e dei “tecnici” che vengono chiamati in causa per informare le scelte della politica. C’è la questione dell’affidamento a quei protocolli, che forse nel nostro caso, quello di un virus sconosciuto e insidioso, lasciano un po’ il tempo che trovano. C’è l‘urgenza di proteggere anzitutto i più deboli e vulnerabili, cercando di contenere l’allargamento dell’infezione che andrebbe a mettere a dura prova un sistema sanitario fiaccato da anni di tagli e privatizzazioni.
C’è la questione di una presa di responsabilità collettiva. Ma ci sono altre cose che in questi giorni attraversano la mente ed i pensieri, persi come siamo in una quotidianità anfibia, nella quale cerchiamo di mantenere il nostro essere esseri sociali, che si occupano e preoccupano dell’esistente, mentre quel che ci viene chiesto è di rinunciarci, di chiuderci in noi stessi. Senza abbracci, senza gesti di affetto e simpatia. Aggiungendo un’ulteriore frontiera tra i nostri corpi e gli altri, tra noi e gli ecosistemi fisici, culturali, immateriali che danno senso a quel che siamo.

Come far tesoro di questa nostra quotidianità allora e di una situazione che rischia di protrarsi per mesi? Continuiamo solo ad affidarci agli esperti? Andrebbe forse letto o riletto uno splendido saggio di Ivan Illich , dal titolo “Medical nemesis” sulla medicina e su come provare a restare pazienti emancipati, nonostante i protocolli e le terapie.
Allora se volessimo adattare l’intuizione di Illich al nostro corpo o ai nostri corpi ora, lo scarto tra ciò che va doverosamente fatto e ciò che può essere comunque fatto risulta evidente. Va contenuta certo la diffusione del virus anzitutto per proteggere i più vulnerabili, ma questo presuppone esclusivamente l’ordine calato dall’alto di NON fare determinate cose? Di rinunciare al nostro essere persone che si relazionano con l’altro?
Per salvare l’altro ci dobbiamo rinchiudere in noi stessi, nell’angustia delle nostre case, delle nostre paure? Questo mi pare il bivio che potrebbe fare di questa crisi un’ opportunità inedita, o di trasformarla nel colpo definitivo assestato dall’individualismo, ed alla perdita del senso dell’altro.
Per far si che il secondo aspetto prevalga sul primo però c’è bisogno di un netto cambio di passo. Andrebbe recuperato, o per lo meno riconosciuto il contributo in “positivo” che ognuno di noi può dare soprattutto verso i più vulnerabili.
Andrebbe, se non incentivato direttamente, per lo meno agevolato il lavoro di “cura”, il recupero del senso politico della “cura”, la riappropriazione della cura non come protezione calata dall’alto, ma come pratica che dia senso all’essere umani. E’ quello che Donna Haraway, grande filosofa femminista chiama “making kin”, ricostruire nessi di familiarità allargata.

Non è questo lo spirito che riflettono gli atti d’urgenza del governo. Nessuna possibilità viene contemplata se non quella di non fare determinate cose, di accettare la dissoluzione di spazi di socialità e di relazionalità, piuttosto che offrire anche la possibilità di essere soggetti agenti e non recettori passivi di ricette e soluzioni calate d’alto. La crisi non dovrebbe tradursi in cancellazione della nostra “agency”, sia nel preoccuparci e occuparci dell’altro, che nella possibilità di occupare con i nostri corpi spazi pubblici come atto politico e di rivendicazione.
Ed allora o questo verrà agevolato o dovremo riprendercelo, appropriarcene con intelligenza e responsabilità. Toglie l’aria dai polmoni la sequela di eventi, iniziative, manifestazioni cancellate d’un colpo, mobilitazioni per cause giuste vengono di fatto annullate dall’imperativo della sicurezza.
Che sia l’orrore dell’uso di altri corpi, migranti come arma di guerra sulla frontiera greco-turca, o la detenzione di un corpo dissidente, in Egitto, di Patrick Zaky che lotta per il riconoscimento del diritto alla diversità. Ed è paradossale che proprio l’atto politico più importante per riaffermare la centralità della cura, lo sciopero transfemminista di Non Una di Meno, venga proibito proprio per prevenire rischi a chi dovrebbe essere “curato”.
Però un punto resta, sul quale è necessario essere vigilanti, proprio per non consegnarci come sudditi nelle mani di chi governa. La tensione tra diritto alla salute e diritti civili non ci permetterà – a noi “sani” – certo di scegliere tra uno e l’altro giacché il primo imprescindibile da rispettare riguarda i più vulnerabili (e non solo) però autorizza a non accettare supinamente il tentativo, più o meno consapevole, di toglierci non solo spazio fisico, ma anche politico e sociale. Giacché la storia insegna quanto sia facile per il potere rosicchiare spazi e quanto sia difficile poi tornare indietro. I militari che ancora presidiano mitra alla mano obiettivi critici e stazioni della metro, per vigilare contro nemici immaginari sono là a dimostrarlo in maniera forse paradossale se non grottesca.
Ovviamente toccherà essere creativi ed intelligenti per contribuire a contenere il diffondersi del virus come quegli spagnoli che per aggirare la ley Mordaza ed il divieto di manifestare fecero una manifestazione virtuale proiettandola per strada con una sorta di ologramma. O come hanno fatto i Fridays for the Future e Non Una di Meno venerdì scorso a Roma, connettendosi materialmente e simbolicamente con un filo fucsia a rigorosa distanza di sicurezza.

Questa tensione va coltivata, orizzontalmente e verticalmente, nel rapporto non acritico e non passivo verso lo stato, elaborando anche pratiche responsabili di attivismo e mobilitazione, ed orizzontalmente, provando a costruire opportunità di “cura”, di attivazione di relazioni, di produzione del “comune”. E poi apriamo la mente all’inimmaginabile.
Immaginiamo cosa potrà essere il dopo, Nulla sarà come prima si dice, Allora pensiamo che sia un destino ineluttabile, o il nulla come prima ci porterà – se sapremo cogliere questa occasione attraverso la scelta di essere soggetti agenti ed allo stesso tempo responsabili – ad una possibile uscita da quello che il pianeta pareva dovesse essere prima? Il fatto che le città si svuotino di turisti va visto solo come una maledizione o anche come la prova che rallentando o interrompendo cicli di estrazione di valore, possa riaffiorare un’altra città, a misura d’uomo?
Il fatto che si rallenti la capacità produttiva, o la velocità nella quale siamo abituati a vivere, o anche gli stessi consumi, e si riducano le emissioni di gas-serra non potrebbe essere occasione per rimettere in discussione il paradigma dominante? In tempi di crisi ci si organizza, si crea solidarietà, mutualismo si sperimentano formule fino ad allora impensabili. Che questa crisi, che sta rallentando il sistema produttivo, economico e finanziario porti con sé l’opportunità per un futuro migliore?
Può darsi che questo possa essere o non sarà, ma l’atto di maggior responsabilità oggi è senz’altro quello di non lasciare spazio alla rassegnazione o al pessimismo. Iniziando a strapparci dal viso quell’ inutile maschera immateriale che ci nasconde e divide da noi stessi e dagli altri.
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