Possiamo smettere di creare il capitalismo in tanti modi, per quanto limitati e contraddittori. Ad esempio, per dirla con Razmig Keucheyan (autore per Ombre Corte de I bisogni artificiali, di cui pubblichiamo un capitolo) dovremmo “estendere l’anticapitalismo agli oggetti”. Se il capitale progetta gli oggetti in funzione delle esigenze dell’accumulazione allora è tempo di creare, utilizzare, condividere ed esigere “beni emancipati”, cioè caratterizzati da robustezza, smontabilità, interoperabilità ed evoluzione. “Queste quattro caratteristiche tendono allo stesso obiettivo: che gli oggetti ci appaiano meno imperscrutabili. Allora, l’equilibrio di potere tra il valore d’uso e il valore di scambio avrà la possibilità di volgersi a favore del primo…”
Occorre estendere l’anticapitalismo agli oggetti. È una condizione per la disalienazione. Il capitale progetta gli oggetti in funzione delle esigenze dell’accumulazione. È perfettamente in grado di immettere sul mercato pianoforti e aerei, vale a dire merci che hanno una vita lunga. Ma, in sostanza, la rapida rotazione è il suo credo. Al contrario, dobbiamo immaginare ontologie che non diano – o diano meno – il fianco a questa logica. Più che beni durevoli: beni emancipati. Queste ontologie avranno un impatto sui bisogni. Devono impedire di entrate in “the Zone”.
Un bene emancipato ha quattro caratteristiche. In primo luogo, è robusto. Per valutare la robustezza di un prodotto si devono considerare due variabili. Innanzitutto, i danni che crea derivano dalla sua produzione e dalla fine del ciclo di vita, o anche dal suo uso[1]? La produzione di un bicchiere di plastica è ecologicamente costosa e il bicchiere, una volta usato, si trasforma in rifiuto inquinante. Ma il suo uso da solo non causa alcun danno (almeno se si prescinde dai perturbatori endocrini che contiene…). Un’auto, invece, ha un costo ecologico quando la si produce, quando la si rottama, ma anche quando la si usa, poiché il carburante è un emettitore di gas serra.
In secondo luogo, occorre determinare se la tecnologia contenuta nella merce è immutabile. Sono possibili innovazioni che riducano il suo impatto ecologico in un prossimo futuro? Nel caso dei frigoriferi, ad esempio, la tecnologia sembra non evolvere più. Si possono dunque esigere frigoriferi che durino diversi decenni. Per quanto riguarda le auto o gli smartphone, invece, il ritmo dell’innovazione è ancora elevato, in particolare perché lo è l’investimento in R&S. Le auto elettriche e i fairphone sono lontani dall’essere perfetti, ma sono meno nocivi dei veicoli a benzina e dei normali smartphone. Quando i progressi tecnologici consentono di ridurre l’impronta ecologica di una merce, non è auspicabile prolungarne la durata a tutti i costi. In genere, è preferibile sostituire una vecchia auto che consuma molto carburante con un veicolo elettrico. In realtà: è auspicabile non sostituirla affatto e immaginare forme di mobilità alternative[2].
Per i prodotti ancora soggetti a innovazione tecnologica dal punto di vista ecologico, un tempo di vita troppo lungo potrebbe incoraggiare i loro proprietari a non sostituirli[3]. In tal senso sarebbe controproducente. Lo stesso vale per alcuni beni la cui produzione e la fine di vita hanno un costo ecologico. Un quotidiano in carta patinata ha poco senso perché la sua durata è breve: ventiquattro ore, il tempo che appaia l’edizione del giorno dopo. Per i mobili, il cui uso non inquina, l’estensione della garanzia ha invece un senso. La robustezza, in ogni caso, consiste nell’adattare i materiali all’uso. Il più delle volte, la durata è la strategia che si impone. E, per questo, non c’è nulla di meglio che allungare il periodo di garanzia.
In materia ambientale, ci sono le scorte e i flussi. L’estrazione di materiali (scorte) per produrre beni durevoli a volte provoca un maggiore danno ambientale. Ma d’altra parte può consentire di ridurre l’inquinamento o il consumo di energia (flusso) durante l’uso. Rallenta anche il ritmo del rinnovamento delle merci, nella misura in cui il bene è durevole. La robustezza di un prodotto deve essere valutata caso per caso. Le analisi del “ciclo di vita” dei prodotti devono essere elaborate da organismi competenti, come l’Ademe [Agence de l’environnement et de la maîtrise de l’énergie]. Consentiranno di valutare i danni nei diversi “momenti” della vita della merce e di decidere così cosa dovrebbe essere prodotto o non prodotto.
Un bene emancipato è smontabile. Quando una delle sue parti è danneggiata, può essere facilmente sostituita dal suo proprietario o da un riparatore. Una particolare attenzione deve essere rivolta al modo di assemblaggio: avvitare e incastrare è preferibile a incollare e alle strutture “monoblocco”. Deve essere evitata la “super-qualità”, in altre parole i componenti devono avere approssimativamente la stessa durata di vita – altrimenti uno di essi rischia di finire in discarica quando è ancora funzionante; oppure questo componente deve poter essere riutilizzato.
I pezzi di ricambio devono essere sempre disponibili. Nell’era digitale, coordinare la domanda e l’offerta è facile. Il gigante della distribuzione Walmart dispone di un software chiamato “Retail Link”[4]. Esso consente di informare in tempo reale i fornitori dei suoi negozi – quasi 12.000 in tutto il mondo – dello stato delle vendite, e quindi di adeguare la produzione in tempi brevi. Il tempo di reazione tra vendite e produzione è ridotto al minimo. Questo tipo di software deve essere espropriato e democratizzato. Può essere utilizzato per pianificare la produzione e la circolazione dei pezzi di ricambio in tutti i settori dell’economia ma controcorrente, nel senso di una generalizzazione della riparazione e di un generale rallentamento nel rinnovamento delle merci. Un corollario della smontabilità è la modularità. Quando un bene è composto da più entità e non solo da più componenti, ognuna deve essere utilizzabile e sostituibile separatamente. Un computer come quello con il quale è stato scritto questo libro è composto da uno schermo, una tastiera e un disco rigido. Questi moduli devono rimanere combinabili con altri.
Un bene emancipato è caratterizzato dalla sua interoperabilità. Componenti e software devono essere tecnologicamente compatibili con quelli di altri marchi. Un classico esempio è il caricabatterie del cellulare. Un caricabatterie “universale” – escluso gli iPhone – è stato imposto ai produttori nel 2017, dopo dieci anni di dibattiti al Parlamento europeo, da una coalizione di associazioni di consumatori e deputati ecologisti e di sinistra. Questa sola misura consente di evitare fino a 50.000 tonnellate di rifiuti elettronici ogni anno[5]. Come la penuria di pezzi di ricambio, gli ostacoli all’interoperabilità sono una strategia dei produttori che mira a mantenere i propri clienti in uno stato di schiavitù tecnica.
La standardizzazione è spesso connotata negativamente, ma può anche avere degli aspetti virtuosi. Non sono tanto gli standard in sé a presentare un problema quanto il tipo di pratiche che vi sono associate, il livello in cui sono vincolanti, per chi e per quale scopo. Ivan Illich parla di tecnologie “conviviali” per quelle che non predeterminano i loro usi[6]. Non importa se un bene è standardizzato o meno, il vero problema è se aumenta o diminuisce l’autonomia e la creatività della persona. L’uso quotidiano della mia auto nel traffico è alienante ed ecologicamente dannoso. Ma mi permette anche, durante le mie vacanze, di scoprire nuovi orizzonti. Si dice che André Gorz adorasse la sua auto[7].
Infine, un bene emancipato è evolutivo. Incorpora nella sua progettazione le future evoluzioni tecnologiche, che possono riguardare uno dei componenti – la batteria di un’auto elettrica, per esempio – o il suo insieme. Le vere rivoluzioni tecnologiche sono rare. I servizi marketing delle aziende hanno il compito di farvi credere che ogni microinnovazione è un passaggio a un nuovo mondo. Le conferenze stampa – le keynotes – di Steve Jobs e poi di Tim Cook, che precedono la messa in vendita dell’ultimo iPhone, sono esemplari di questa strategia. Ma sono ingannevoli. In questo settore, il progresso tecnico è più graduale o addizionale che rivoluzionario.
Gli anglosassoni parlano di retroffiting: l’aggiunta di nuove funzionalità ai vecchi sistemi. Il capitalismo lo fa per alcuni beni. Consapevole della rapida evoluzione dei biocarburanti e della preannunciata scarsità di petrolio, l’esercito americano sta ora progettando veicoli in grado di funzionare con carburanti che non sono ancora pienamente operativi[8]. L’innovazione – nel nostro caso in materia di energia – è integrata a pezzi, il che permette di allungare la durata di vita dell’insieme. Ma, per questo, deve essere anticipata. Questa anticipazione rende l’innovazione path dependent, “dipendente dal percorso”, come dicono gli economisti: si innova nel quadro imposto dall’anticipazione, questo rende l’innovazione meno casuale. Contrariamente a quanto suggeriscono gli industriali che gli sono ostili, l’allungamento del periodo di garanzia – come tutte le altre iniziative volte a rendere le merci durevoli – non è affatto incompatibile con l’innovazione.
Robustezza, smontabilità, interoperabilità ed evoluzione. Queste quattro caratteristiche dei beni emancipati tendono allo stesso obiettivo: che gli oggetti ci appaiano meno imperscrutabili. Allora, l’equilibrio di potere tra il valore d’uso e il valore di scambio avrà la possibilità di volgersi a favore del primo. La proprietà privata e le disuguaglianze che la accompagnano non saranno ancora abolite, ma si sarà fatto un primo passo verso un mondo post-capitalista.
Note
1 Cfr. Chauvin e Fangeat, Allongement de la durée de vie des produits, cit., pp. 9-10.
2 Anche se è probabile che l’auto continuerà ad avere un ruolo nei futuri scenari della mobilità, persino nei più ecologicamente esigenti. Cfr. Association Négawatt, Manifeste négaWatt. En route pour la transition énergétique!, Actes Sud, Arles 2015, pp. 151-152.
3 Chauvin e Fangeat, Allongement de la durée de vie des produits, cit., p.
4 Si veda il tutorial di Retail Link: https://retaillink.tv/
5 Vos téléphones auront un chargeur unique en 2017, in “Le Parisien”, 14 marzo 2014.
6 Ivan Illich, La Convivialità (1973), trad. it. di M. Cucchi, Red!, Milano 2014.
7 Cfr. Willy Gianinazzi, André Gorz, cit., pp. 181-182.
8 hristine Parthemore e John A. Nagl, Fueling the future force: preparing the Department of Defense for a Christine Parthemore e John A. Nagl, Fueling the future force: preparing the Department of Defense for a postpetroleum era, Center for a New American Security, 27 settembre 2010, https://www.cnas.org/.
Razmig Keucheyan è docente di sociologia all’Università di Bordeaux.
PIERA dice
Si dovrebbero inaugurare in ogni città e, relativa provincia, centri di interscambio per ogni tipo di oggettistica e/o attrezzatura, finalizzati al riuso e riciclaggio di prodotti interscambiabili che, forniscano al consumatore, meglio definito utente, la possibilità di un riutilizzo immediato e ambivalente dell’oggetto richiesto.
Le industrie potrebbero trarne guadagno e profitto, rispetto al numero delle transazioni operative alle quali verrebbe applicato un tiket per ogni operazione commerciale giunta a buon fine .