Cosa faccio per ribellarmi? Boicotto se possibile, partecipo a qualche iniziativa che parli di un modo di vita altro, non omologato e mercificato. Ecco, un aricolo per la campagna.
Due recenti pubblicazioni (A. Fumagalli, Lavoro Male comune, G. Viale, Virtù che cambiano il mondo) pongono, ancora una volta, la questione bene comune.
E’ bene comune tutto ciò che riguarda la condizione armonica della società. Di conseguenza, possono essere considerati beni comuni tutti quei beni che sono necessari al benessere di tutti. Individuare i beni, non vuol dire categorizzarli, perché ciò comporta delle derivazioni in senso merceologico, ma piuttosto comprendere, in un processo in divenire, tutti quei beni che sono utili alla piena realizzazione dell’uomo. Possiamo considerare come tali, tutti i beni materiali e immateriali indispensabili alla vita dell’uomo, come singolo o associato e, quindi: l’acqua, l’aria, la terra e le sue risorse, l’accesso all’energia, alla mobilità, ai servizi sanitari, l’educazione, la conoscenza e informazione, la cultura, l’arte..
Per converso, tutti quei procedimenti che, direttamente o attraverso mediazioni, si servono dei beni comuni per fini altri sono da considerare male comune. Il punto fondamentale da cui partire è il netto rifiuto dell’identificazione bene comune=merce. Il bene che diventa merce è un bene scambiabile per trarre profitto, niente di più lontano, appunto, da quella che è, e deve essere la sua naturale funzione. Un discorso del genere non deve apparire come nuovo perché riguarda tutto ciò che esiste in natura e nelle capacità dell’uomo.
Eppure, ci ritroviamo oggi a dover riconquistare ciò che i pochi c’hanno indebitamente sottratto.
Con l’intensificarsi degli scambi generati dalle rivoluzioni industriali si è assistito alla espropriazione dei cittadini dalle loro comunità di appartenenza e all’appropriazione delle risorse e dei prodotti del loro lavoro da parte di alcune èlite.
La logica del profitto l’ha fatta da padrone. L’uomo si è trasformato in un essere accettato solo in quanto facente parte di una catena produttiva, dalla quale risulta difficile staccarsi. Un ingranaggio perverso ha reso il corpo e le facoltà mentali un tutt’uno.
La civiltà (?) dei consumi ha fatto il resto: soggezione, disciplina, controllo e definitivo annichilimento di ogni capacità umana. L’economia del profitto grazie alla collaborazione delle varie istituzioni ha prevalso sulla politica, intesa come vita associata o comune. La politica è morta quando ha abdicato alla sua funzione principe, delegando al mercato.
Il mercato oggi funge da regolatore della vita di ognuno e coinvolge tutti gli aspetti dell’esistenza, anche quelli apparentemente non legati al consumo. Sottomettendosi all’economia gli esecutori politici hanno contribuito alla priva(tizza)zione di tutta l’esistenza.
Tutta la vita è stata messa al lavoro.
Anche nei momenti di riposo o di svago, si lavora, producendo ricchezza per i privati, e questo grazie al fatto che il sistema liberista crea sempre nuovi bisogni e, alla fine, attraverso l’induzione al desiderio, disciplina e gerarchizza tra di loro gli uomini. Pertanto, l’alienazione e la crezione del plusvalore non avvengono soltanto nei momenti tipici del lavoro, ma anche quando si guarda la tv, si sta su internet o si fanno gli acquisti, in quanto si tratta di bisogni indotti dal capitale.
Così il lavoro è oggi il fine stesso dell’esistenza: si lavora per consumare e accaparrare sempre più, e per cercare di arrivare ad assumere un posto di rilievo nella scala sociale. A tal fine, l’affermazione personale conduce alla guerra permanente di tutti contro tutti. Il servilismo verso i potenti porta alla rinuncia della propria dignità.
L’uomo-lavoratore cede il proprio tempo di vita (disponibilità) per ottenere un reddito commisurato alla quantità e qualità (?) del lavoro svolto (prestazione).
All’interno del rapporto che ne scaturisce con il fruitore (pubblico e privato) lo scambio è diseguale. Quindi si può dire che lo sbilanciamento delle posizioni di forza all’interno del rapporto di lavoro è ingiusto, e consiste in un impiego coattivo delle capacità umana, per produrre valore la cui utilità non è quasi mai a disposizione della collettività, ma di quei pochi che da quel valore creato traggono profitto. Il lavoro allora non è un bene comune ma un mezzo per produrre valore.
E’ il mezzo di controllo generalizzato ed indifferenziato di cui il potere continua a servirsi per imbarbarire e creare sudditi. Invece di svolgere un ruolo di utilità sociale, dove ognuno porta il suo necessario contributo al benessere collettivo, è diventato lo strumento principale di asservimento delle masse. L’intensificarsi di questo aspetto avviene sotto il sistema capitalistico, dove il ricatto del bisogno tende facilmente a manipolare ed indirizzare le vite degli uomini.
Nell’era moderna la soggezione da lavoro si amplia e ricomprende tutte le competenze che hanno a che fare con le merci in via indiretta, e cioè il lavoro cognitivo. Il corpo e la mente vengono ad essere gestiti dal capitalismo nella loro dimensione sociale ed affettiva.Scompare la distinzione tra tempo di vita e tempo lavorativo: è la sussunzione totale del tempo di vita ai dettami della produzione (biocapitalismo e biopotere).
Pertanto, la logica della sua difesa, cui tanto assistiamo, soprattutto in questi tempi di “crisi” deve essere completamente ribaltata: se il lavoro non serve allo sviluppo della persona e, tanto meno a migliorare la società in cui viviamo deve essere, in maniera netta e senza indugi, rifiutato.
Il lavoro è il MALE comune.
L’unico modo per tamponare le sperequazioni che esso produce è l’introduzione di un reddito di base, che abbia carattere universale e non sia soggetto a nessun tipo di condizone.
Le risorse per poterlo garantire ci stanno: prelevando dalla fiscalità generale e introducendo un sistema di tassazione proporzionale, separando le spese di previdenza da quelle assistenziali, tassando il giusto i grossi patrimoni e le rendite, combattendo efficacemente l’elusione, rifutando le grandi opere pubbliche e le spese militari, introducendo un tetto agli stipendi dei manager e della classe politica, vietando il cumulo di competenze..,tutte misure che oltre a garantirlo potrebbero ridare senso all’idea di welfare state, ma manca la volontà attuativa da parte dei partiti, imprese e sindacati, timorosi di perdere le loro posizioni privilegiate e il controllo delle masse.
Poiché per vivere gli esseri umani necessitano di un reddito e di servizi (in termini di educazione, salute, trasporti..), questi, in quanto basilari debbono essere riconosciuti a tutti.
Senza un approccio culturale diverso, che metta da parte l’individualismo e la competizione, e che sia trainato da empatia, partecipazione e condivisione, la strada da percorrere è ancora lunga.
La vita associata ha subito un drastico ridimensionamento: lo spazio urbano è stato ridisegnato e modellato attraverso ll trasferimento di strade, abitazioni, strutture e impianti. Separati gli uni dagli altri, agli uomini non rimane altro che riconoscersi nello spazio fisico deputato al consumo, lì dove i diritti tardono a farsi riconoscere.
La resistenza a tali fenomeni può iniziare solo attraverso la riconquista degli spazi che sono stati negati, considerando ad es. il territorio come un bene comune, né privato e nemmeno pubblico, poiché questo non fa altro che riproporre, in termini di gestione, le vecchie logiche economicistiche.
Il controllo pubblico è fatto di gestione dall’alto, cooptata e verticistica, che non conosce minimamente quali possano essere le reali esigenze di una comunità, che è l’unica ad essere titolare di sovranità e che può efficacemente decidere del suo destino.
Pertanto, il controllo e la gestione, o meglio la co-gestione dei beni comuni deve provenire dalla base, attraverso un’effettiva partecipazione: stando insieme e prendendo decisioni ad es. sul cosa, come e quanto produrre, evitando quelle dannose ed inquinanti e privilegiando quelle compatibili con l’ambiente e la sua sostenibilità.Solo così si può garantire la salvaguardia e la tutela di ogni specie vivente, risparmiando nell’utilizzo delle risorse mediante il loro recupero e riutilizzo, evitando gli sprechi.
Un uso consapevole, servendosi magari di una moneta ad hoc per gli scambi, da sotituire od affiancare quella avente corso legale e, convogliando le ricchezze prodotte in una banca etica al servizio della collettività (mutualismo). E, ancora utilizzando pratiche rivolte all’accettazione delle diversità, la valorizzazione delle conoscenze e dei saperi, e la realizzazione delle persone che ne fanno parte, quali il co-housing, il co-working, i Gas.
In sintesi, l’autogoverno delle comunità per creare una cittadinanza attiva.
L’espressione effettiva delle diverse volontà e il loro coinvolgimento danno un riconquistato senso all’animale sociale, non più vittima di barbarie ma protagonista di un ritrovato legame solidaristico e coinvolgente.
L’empatia al posto del conflitto, la negoziazione e integrazione invece della competizione.
Giuseppe Giannini
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