“Qui tutto è distrutto, non c’è niente da mangiare, non ci sono le condizioni minime per sopravvivere”, dice Hani Al Ramlawi direttore delle operazioni dell’associazione palestinese per lo sviluppo agricolo. Abdullah, agronomo specializzato in coltura acquaponica, è tornato nella sua azienda quando le bombe hanno smesso di cadere e ha visto il suo sogno distrutto ancora una volta. “Non mi è rimasto nulla. Viviamo grazie al raccolto e adesso non ho più un reddito, e nemmeno i miei lavoratori. Nel 2000 siamo stati distrutti. Nel 2006 siamo stati spazzati via. Lo stesso è successo poi nel 2008, nel 2012 e nel 2014. Cosa dovrei fare? Dopo la laurea non riuscivo a trovare lavoro, poi il progetto che avevo costruito è andato distrutto”.
Oxfam, una delle poche associazioni umanitarie rimaste a Gaza ha prodotto un ebook da scaricare dopo aver firmato per un cessate il fuoco permanente, che comincia con la storia sintetica di 57 anni di occupazione israeliana dei territori palestinesi, tanto per ricordare ai soloni della geopolitica come stanno le cose.
Ora l’emergenza umanitaria è terrificante. Già prima dell’escalation delle violenze dell’ottobre 2023 a Gaza 1,3 milioni di persone avevano bisogno di aiuti umanitari e 2,1 milioni di persone erano intrappolate “in casa”, senza poter accedere agli altri territori occupati e al mondo esterno. Ad oggi il massacro compiuto dall’esercito israeliano anche con armi europee consta più di 45.000 vittime, il 70 per cento donne e bambini, mentre si discetta ancora se è il caso di usare la parola genocidio. L’anno scorso oltre 250 organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno firmato una lettera in cui si chiedeva a tutti gli stati di interrompere il trasferimento di armi, componenti e munizioni a Israele in caso di grave rischio che vengano utilizzate per commettere violazioni del diritto internazionale umanitario.
Nei primi anni Novanta il governo di Israele ha precluso la possibilità di un reale sviluppo economico e ha introdotto misure sempre più restrittive per limitare la circolazione di persone e beni tra Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est e nel resto del mondo. Il blocco israeliano che va avanti da più di diciassette anni ha causato enormi conseguenze ed enormi bisogni umanitari. Il blocco ha devastato l’economia di Gaza, ha impedito alla maggior parte delle persone di lasciare la Striscia, di avere accesso al cibo, all’acqua, ai servizi essenziali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione, e ha isolato i palestinesi gli uni dagli altri. Il blocco ha impedito il commercio con il mondo esterno e con i mercati della Cisgiordania (là i residenti palestinesi sono oggetto di tiro al bersaglio con scommesse dei coloni cecchini) e limita l’ingresso di materiale vitale per la ricostruzione. La massiccia carenza di carburante ha portato a interruzioni di corrente fino a venti ore, lasciando gli ospedali, quelli ancora in piedi, le scuole e le piccole imprese in difficoltà. Israele detiene il controllo sullo spazio aereo, sulle acque territoriali, sui passaggi al confine e sulle infrastrutture civili, incluse quelle idriche, elettriche e per i servizi di banda larga.
Dall’inizio del blocco nel 2007, più di due milioni di residenti della Striscia non possono esercitare il diritto alla libertà di movimento e sono confinati in un’area di 365 chilometri quadrati con una densità di oltre 5.400 abitanti per chilometro quadrato.
É bene ricordare che dopo il 7 ottobre il blocco impedisce l’ingresso a Gaza di aiuti fondamentali inviati da organizzazioni umanitarie per soccorrere milioni di sfollati allo stremo. Negando l’ingresso di medicine, cibo e acqua, Israele sta deliberatamente e sistematicamente minacciando la vita della popolazione già a rischio di carestia.
Dal 2007 al 2010, Israele ha negato l’importazione di beni di consumo comune come marmellata, alimenti secchi, frutta, succhi di frutta, cioccolato, candele, libri, strumenti musicali, shampoo, sedie a rotelle, pastelli, cancelleria, carta A4, palloni da calcio, oltre a bestiame come polli, asini e mucche. A Gaza potevano entrare solo prodotti umanitari vitali. Nel 2012, a seguito di una battaglia legale dell’Ong israeliana Gisha, partner di Oxfam, il Cogat (Coordinamento delle attività di governo) ha pubblicato un documento che calcolava il numero minimo di calorie necessarie per evitare la malnutrizione della popolazione di Gaza ed evitare una crisi umanitaria. Questo numero è stato convertito in una quantità giornaliera di camion di cibo autorizzati a entrare. La quantità di camion così ottenuta è stata ridotta tenendo conto del cibo prodotto direttamente a Gaza, e poi ulteriormente ribassata in base alla “cultura e all’esperienza” dei residenti della Striscia. In sostanza, il cibo autorizzato a entrare nella Striscia è di molto inferiore al fabbisogno della popolazione residente.
La fame viene usata come arma. Dall’inizio dell’invasione a Rafah da parte di Israele, l’ingresso degli aiuti si è ridotto di altri due terzi e con la chiusura del valico oltre 2 mila camion di aiuti sono rimasti bloccati. Nei mesi scorsi ai palestinesi che uscivano dal valico di Erez era vietato portare con sé valigie con le ruote, articoli da toeletta, computer portatili o qualsiasi tipo di caricabatterie o batterie portatili e cibo (anche per il viaggio). Queste restrizioni non si applicavano ai viaggiatori internazionali, a chi possiede una carta d’identità di Gerusalemme o ai cittadini israeliani.
Dal 7 ottobre la situazione sanitaria è al collasso, con ospedali e strutture mediche fuori uso. Senza cure continue, la vita dei malati cronici è in pericolo. Negli ultimi mesi molti sono stati costretti a sfollare molte volte per sfuggire ai bombardamenti. Ogni volta è stato sempre più difficile avere accesso ai trattamenti salvavita che garantiscono la sopravvivenza. Vi sono oltre 10 mila malati cronici gravi che hanno bisogno di ricevere cure fuori da Gaza.
Il crollo delle scorte di beni essenziali e l’intensificarsi del conflitto hanno costretto le organizzazioni umanitarie a sospendere la distribuzione di aiuti nel sud della Striscia. Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia, a marzo 2024 dichiarava che la strategia di Israele è rendere invivibile la vita per i palestinesi, annettendo di fatto, un pezzo alla volta i territori palestinesi.
In questo momento molti palestinesi sopravvivono con meno del 3 per cento del fabbisogno giornaliero di acqua, con il conseguente aumento di casi di diarrea ed epatite. Secondo uno studio delle Nazioni Unite del 2013 Israele estraeva il 66 per cento dell’acqua della falda costiera, mentre la Striscia di Gaza il 23 per cento e l’Egitto l’11 per cento. Nel 2020 gli abitanti di Gaza ricevevano ancora oltre il 95 per cento dell’acqua dalla falda acquifera inquinata ed estraevano tre volte il suo rendimento sostenibile, con più di un terzo perso a causa delle infrastrutture decrepite. Circa il 97 per cento delle acque sotterranee non era potabile a causa degli elevati livelli di acque reflue e salinità. Il restante approvvigionamento di Gaza è stato prodotto da piccoli impianti di desalinizzazione non regolamentati (2,6 per cento) e il 2 per cento è stato acquistato dalla compagnia idrica nazionale israeliana Mekorot che la vendeva a un prezzo doppio rispetto ad altri rivenditori (e che prelevava l’acqua proprio dai depositi sotterranei al confine tra i due paesi). Israele ha estratto circa l’80 per cento delle risorse d’acqua “condivise” nella West Bank ma ha allocato solo il 20 per cento di questa acqua ai palestinesi.
Fino a prima dell’invasione Gaza estraeva 81 litri d’acqua al giorno pro capite (sotto il limite di 100 litri raccomandato dal WHO). A causa della scarsa qualità, l’acqua estratta veniva usata a scopo domestico, ma non per cucinare o bere. Per questi scopi, la maggior parte delle persone si è affidata all’acqua desalinizzata acquistata da venditori non regolari. Piscine, prati ben irrigati e campi con impianti di irrigazione tecnologici dei territori israeliani stridevano fortemente con i villaggi palestinesi dove le persone non riuscivano neanche a soddisfare il fabbisogno ordinario di acqua. La carenza di acqua pulita è solo una parte del problema. Il costo per l’acquisto di acqua trasportata e spesso inquinata era proibitivo per molti abitanti di Gaza. Ai palestinesi inoltre era proibito l’accesso a una delle due fonti di acqua superficiale: il fiume Giordano. É stato stimato che il mancato accesso a questa fonte d’acqua è costato ai palestinesi in termini di mancati introiti agricoli 3 miliardi di dollari nel periodo 1967-2013.
Oggi a Gaza il 98 per cento dell’acqua non è potabile e 2 milioni di sfollati sono allo stremo, costretti a berne di contaminata o salata. L’intero sistema di approvvigionamento idrico e di gestione delle acque reflue è prossimo al collasso, non c’è energia per far funzionare i pozzi e gli impianti di desalinizzazione e di trattamento.
Nella conferenza stampa alla camera dei deputati, insieme ad Emergency e a Medici senza Frontiere, Oxfam ha chiesto al governo italiano un impegno per il cessate il fuoco immediato. L’appello da condividere è qui.
Paolo Vernaglione Berardi ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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