Sulla facciata della società capitalista crescono ogni giorno nuove crepe. In modi differenti persone e movimenti dicono: «Cominciamo adesso a costruire un mondo diverso». Del resto, la storia dei movimenti sociali di qualsiasi angolo del mondo (dalla Corea del sud degli anni ’80 alle recenti rivoluzioni arabe), dimostra che il cambiamento a volte prende forma improvvisamente e sempre in modo imperfetto. In quei momenti appare più chiaro che l’obiettivo non è tanto distruggere il capitalismo, ma smettere di farlo. E fare, qui e ora, qualcos’altro, qualcosa di bello e gradevole. Un racconto/analisi di Chris Carlsson, scrittore e artista statunitense, dopo un incontro con Jonh Holloway, l’autore di Cambiare il mondo senza prendere il potere e Crack capitalism.
di Chris Carlsson
Ho avuto il piacere di incontrare nelle scorse settimane John Holloway insieme alla sua compagna Eloina, un personaggio altrettanto importante. Era a San Francisco grazie a Andrej Grubacic del Ciis che lo ha invitato per presentare il suo lavoro in tre lezioni serali. Ho potuto partecipare solo all’ultima, dove aveva deciso di dimostrare quanto siamo noi la crisi del capitale. Il giorno dopo è stato a pranzo con noi, abbiamo avuto un fantastico e tranquillo pomeriggio con un buon pasto, spendendo circa tre ore a parlare, ridere e a goderci il sole di una bella giornata, nella nostra sala da pranzo. Eloina è un informatica che è diventata un’etnobotanica e gestisce un asilo nido a Puebla, in Messico, dove vivono. Il suo impegno si intreccia con quello di altri studiosi incontrati qualche anno fa, che hanno portato avanti un grande lavoro sulla storia idrologica (l’idrologia è la scienza che studia la distribuzione, il movimento, la biologia e la chimica delle masse d’acqua della terra, ndt) e sul futuro della Valle del Messico, così abbiamo felicemente condiviso i loro libri.
Ho letto Crack Capitalism (in Italia edito da Derive Approdi, ndt) di Holloway la settimana prima del suo arrivo e mi è piaciuto molto. Ci sono diversi luoghi del libro in cui sentivo una risonanza molto forte con l’analisi che ho fatto in Nowtopia (edito in Italia da Shake, ndt), e ho avuto l’onore di scoprire che mi ha citato nel suo libro. Come nel suo precedente saggio, Cambiare il mondo senza prendere il potere (Carta/Intra Moenia, 2004), Holloway ha preso un concetto marxiano molto profondo e di base, in questo caso la duplice natura del lavoro, e lo ha approfondito con un linguaggio fresco, rielaborandolo per confrontare e rivoltare la disperazione che spesso troviamo in noi stessi di fronte al capitalismo globale. Parte della sua missione è ripudiare il cul-de-sac del marxismo tradizionale, con il suo annullamento della duplice natura del lavoro in favore di un particolare accento della lotta tra capitale e lavoro. Holloway sottolinea più e più volte durante i suoi libri che il capitale e il lavoro astratto sono due parti della stessa cosa. Se la tua politica radicale comincia da quello che fai come lavoro salariato, come lavoro astratto, sei già intrappolato nella logica del capitale. Il punto è lottare contro il lavoro astratto, contro la subordinazione del nostro «fare» (qualunque cosa noi possiamo scegliere di fare) alla logica del denaro e dei mercati.
Critica all’identità
L’ambizione di Crack capitalism è impressionante. Holloway colloca la maggior parte delle divisioni e degli scismi che affrontano i gruppi radicali contemporanei nella subordinazione della soggettività al lavoro astratto. Può sembrare un po’ denso e complicato in certi momenti, ma nel complesso voglio congratularmi con lui per uno sforzo ben fatto nel portare questi concetti alla luce del giorno e nel renderli abbastanza accessibili e chiari. Ecco una citazione in cui si riassume la sua critica della politica di identità:
► «L’identificazione o la reificazione sono un’enorme forza distruttrice nella lotta quotidiana. Diamo un nome, un’etichetta, un limite alla nostra protesta. La nostra lotta è la lotta della donna, dei gay, dei lavoratori, dei disoccupati, è la lotta per i diritti indigeni, per il cibo non inquinato, per la pace. Può darsi che siamo almeno vagamente consapevoli che le nostre lotte sono parte di una lotta più grande, forse anche che sono il prodotto del modo in cui è organizzato l’agire umano nel mondo, ma proprio perché questa forma di organizzazione sembra permanente («è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo») con una identità recintiamo le nostre lotte dentro dei limiti. Abbiamo quindi un mondo pieno di proteste, un mondo di persone in qualche modo consapevoli che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel modo in cui la società è organizzata, e tuttavia ci sono così tanti muri che separano queste lotte, così tante dighe che impediscono loro di scorrere l’una nell’altra. Tutti questi muri sono delle identificazioni, il grande quadro di identificazione del capitalismo-che-è-e-che-sempre-sarà e sempre meno le identificazioni di «noi siamo gay, siamo donne, siamo indigeni, siamo Baschi, siamo Zapatisti, siamo anarchici, siamo comunisti». E tutte queste identità diventano così facilmente la base per il settarismo, per la forma perenne di autodistruzione della sinistra che rende la vita facile alla polizia. Molto più efficace di qualsiasi sistema di polizia segreta, l’identità è la riproduzione del capitale all’interno della lotta anti-capitalista».
Il titolo del suo libro indica il frame di inchiesta che Holloway sta seguendo. Egli vede crepe nella facciata della società capitalistica che crescono da ogni sorta di non subordinazione (al lavoro astratto), e di tanto in tanto da insubordinazioni. Alla fine del libro Holloway riconosce che nessuna delle innumerevoli attività e iniziative sono perfette, e che nessuna è garanzia di successo. La nostra ossessione di essere puri o compromessi è uno dei modi per paralizzare le nostre capacità:
► «Non c’è mai nessuna purezza in questi esperimenti. Tutti siamo contraddittori. Il rivoluzionario impegnato che abbandona i suoi figli per andare a lottare per una grande causa, l’organizzazione indigena che accetta i fondi da una chiesa dedicata alla subordinazione ed alla misoginia, il professore radicale che partecipa alla misurazione quantitativa del lavoro degli studenti, la cooperativa che vende i suoi prodotti sul mercato, l’operaio automobilistico che passa la maggior parte del suo tempo a produrre degli oggetti che inquinano ed uccidono e poi organizza un orto comunitario nelle serate e nei fine settimana, la studentessa che organizza delle manifestazioni ma che non mette in discussione le categorie della materia che sta studiando: tutti sono auto-contraddittori, tutti noi siamo coinvolti nella ri-creazione delle relazioni sociali che stiamo cercando di superare. Non può essere altrimenti in una società capitalista. Il movimento del fare non è un movimento puro, ma un movimento nel-contro-e-oltre il lavoro. Non c’è purezza: proviamo a superare le contraddizioni, ci ribelliamo contro la nostra complicità, proviamo in ogni modo a smettere di fare il capitalismo, proviamo a dirigere il flusso delle nostre vite nel modo più efficace possibile verso la creazione di una società basata sulla dignità. Siamo parte del flusso sociale della ribellione1, e in questo flusso non c’è spazio per rigidità ed estremismi. I concetti di correttezza e di tradimento, ed i loro corollari tanto radicati nella cultura della sinistra, sono degli ostacoli al flusso della ribellione. Creare delle rigidità e dei dogmi e ‘non parliamo con loro perché sono dei riformisti’ e ‘non avremo a che fare con loro perché bevono coca-cola’ e ‘non collaboreremo con loro perché sono settari’ significa prendere parte al congelamento del flusso della ribellione, riprodurre le definizioni, le classificazioni ed i feticci del pensiero capitalista».
Iniziamo adesso a costruire un mondo diverso
Ammetto che ero davvero felice di leggere questa parte sulla pazienza. Ho parlato molte volte pubblicamente di «pazienza radicale», caratterizzandolo in modo molto simile a come lo fa qui:
► «Creare un’altra società non può essere solamente una questione di eventi e intensità. Oltre alla distruzione della durata, oltre la discontinuità dell’eccesso, c’è anche la questione di creare altre relazioni sociali, di fare le cose in modo diverso, ad un ritmo a nostra scelta. Probabilmente abbiamo bisogno di pensare alla rivoluzione in termini diversi da entrambe le temporalità: la temporalità del rave-and-rage , della performance e della danza, ed il tempo della creazione paziente, del giardinaggio e della tessitura. Questa non è la vecchia virtù della pazienza rivoluzionaria, basata sull’idea che si dovesse aspettare fino a che le condizioni oggettive fossero mature. Questo è un tipo di pazienza diverso che dice “basta aspettare, iniziamo adesso a costruire un mondo diverso” ma non è qualcosa che può essere creato in una esplosione di furia, che ha bisogno comunque di un processo più lento, ma non è certamente il tempo della durata».
Effetto eros
Prima di aver letto Crack Capitalism stavo sfogliando Rivolte di uno sconosciuto di George Katsiaficas, una magistrale storia dell’Asia, in preparazione della sua partecipazione alla nostra serie di colloqui. Sono andato dritto al capitolo nel volume 1 (Corea del Sud. Movimenti sociali nel XX° secolo), sulla rivolta di Gwangju del maggio 1980. Mi ricordo bene di aver corso in quei giorni a comprare un New York Times di fine maggio di quell’anno, cercando notizie sulla rivolta in corso a Gwangju, in Corea del sud. Praticamente tutta la popolazione della città di 700.000 abitanti fu buttata fuori dai militari, poi la nascita di un nuovo stato, sostenuto pienamente dagli Stati uniti, con la brutale dittatura di Chun Doo-hwan. Nel racconto di Katisiaficas, l’incredibile coraggio degli autisti degli autobus, dei tassisti, e di innumerevoli studenti, casalinghe, operai e altri nell’affrontare quella brutalità estrema e gli assalti furiosi e criminali dei paracadutisti con i veicoli blindati, era tutto semplicemente incredibile. Poi, durante la settimana del 21-27 maggio hanno difeso la loro città contro uno sforzo incessante dal dittatore di sopprimerli militarmente, mentre la rivolta si diffondeva nel resto della regione circostante, nella parte più meridionale della Corea. All’interno di Gwangju si svolgevano assemblee quotidiane, nelle quali anche 100.000 persone prendevano decisioni democratiche e organizzavano la loro resistenza armata. Uno dei motivi per cui quella resistenza funzionava è che in quanto popolazione emarginata e oppressa nella società della Corea del Sud, la gente della zona aveva ancora una società civile intatta e radicata in una generazione di vita condivisa. Ecco la sua analisi di ciò che stava accadendo:
► «Soprannominata la comunità assoluta, la solidarietà organica dei partecipanti alla Comune di Gwangju incarna quello che io ritengo essere il bisogno istintuale degli umani della libertà percepita intuitivamente, un bisogno inconscio che è stato sublimato in espressione collettiva durante la rivolta. L’improvvisa comparsa di centinaia di migliaia di persone che occupano lo spazio pubblico, la diffusione della rivolta da un quartiere all’altro nel Sud, a Jeolla, l’identificazione intuitiva di centinaia di migliaia di persone l’una con l’altra e la consapevolezza improvvisa del potere delle loro azioni; l’auto-organizzazione dell’esercito dei cittadini e la sospensione dei valori normali (come le pratiche di concorrenza aziendali, i comportamenti criminali e l’avidità) sono tutte dimensioni di quello che io chiamo “effetto-eros”» (George Katsiaficas, Asia’s Unknown Uprisings Vol. 1: South Korean Social Movements in the 20th Century (PM Press: 2012)».
Amo questa descrizione e le definizioni «comunità assoluta» e «effetto-eros». Ho sentito l’effetto-eros qui a San Francisco il 21 maggio 1979 («White Riot Night», quel giorno San Francisco fu teatro di una rivolta scoppiata dopo la sentenza che condannò a solo cinque anni un politico, Dan White, che aveva ucciso il sindaco George Moscone e il consigliere Harvey Bernard Milk, primo componente delle istituzioni statunitensi apertamente gay, per aver approvato una legge sui diritti delle persone omosessuali, ndt), e molte volte da quando partecipo alla Critical mass e il 2 novembre 2012, il giorno dello sciopero generale durante Occupy Oakland, e così via. È qualcosa che desideriamo, qualcosa che cerchiamo ovunque pur di trovarlo. Non importa cosa, non è qualcosa che possiamo solo evocare attraverso la forza della volontà o di un pio desiderio. Appare quando appare, e richiede molte cure e pazienza per tenerlo vivo e farlo crescere. Ma la parte migliore di questo effetto è ciò che lascia dietro di sé nell’immaginario comune delle persone che l’hanno sperimentato. È la base dalla quale ulteriori iniziative possono crescere.
La gente scambia biscotti, datteri, acqua
Piazza Tahrir in Egitto è un altro caso recente di questo (effetto). Durante la lettura Crack Capitalism stavo anche leggendo «Cairo: La mia città, la nostra Rivoluzione» (Bloomsbury Publishing, London: 2012) di Ahdaf Soueif, un bel resoconto letterario di prima mano dei giorni inebrianti della rivolta contro Mubarak e lo Stato egiziano. Ora sappiamo che non ha ancora raggiunto i suoi obiettivi (in realtà la rivoluzione egiziana si trova ad affrontare gravi ostacoli, mentre scrivo, anche se le manifestazioni costanti e le proteste continuano a Cairo e in altre città). Soueif lo riconosce molte (quell’effetto eros) volte nel suo bel libro (…). Ma lei è lì in piazza Tahrir e ci porta con lei per gustare questo senso di eros in piena fioritura durante quelle settimane speciali:
► «Tutti i mali che affliggevano la nostra società negli ultimi decenni sono scomparsi durante la notte. Giovani, che un mese fa, erano considerati una minaccia per qualsiasi donna in strada, sono diventati cavalieri. La gente scambia vicendevolmente biscotti, datteri, acqua. Le persone discutono, raccolgono la spazzatura. Si dilettano nella inclusività, nella generosità, nell’umorismo che vengono così facilmente a noi. Studenti, uomini d’affari, camerieri, accademici, contadini, dipendenti pubblici, disoccupati, siamo tutti qui insieme, tutti facendo quello che non siamo stati in grado di fare per decenni: ognuno parla, agisce, si esprime e insiste per essere considerato».
Un centinaio di pagine più avanti, dopo alcune battute d’arresto, quando Mubarak sta finalmente cedendo il passo e lasciare (…) è nella piazza (o il Midan come la chiamano gli egiziani).
► «Una volta che sei dentro, il Midan è sorprendente. Anche la luce qui è diversa, la sensazione dell’aria. È un mondo più pulito. Tutto è più nitido, è possibile vedere le foglie su alberi potati male, che cercano di germogliare. Ognuno è se stesso improvvisamente, miracolosamente, completamente. Tutti capiscono. Siamo tutti molto gentili con gli altri. Come se fossimo in uno stato di convalescenza (…) Il Midan è perfettamente pulito. La spazzatura è accumulata ordinatamente ai lati con avvisi in cui è scritto “Sede Ndp” (il Partito democratico nazionale, ndt). (…) I lampioni hanno messo fuori i fili in modo che i computer portatili e i cellulari possono essere ricaricati. Gli ospedali da campo forniscono cure mediche e consigli per tutti. Il cartello con la scritta “Barbiere della rivoluzione” ti propone un taglio libero di barba e capelli. (…) Le persone raccontano le loro barzellette, disegnano o scrivono e mettono tutto nelle loro tasche, una marea crescente di barzellette e di vignette. Un teatrino dei burattini è circondato dalle risate di alcune famiglie. Un uomo mangia il fuoco. Ci sono gli artisti di strada e musica e teatro di strada, e lo stand di poesia».
Smettere di fare il capitalismo
Non mi sono sentito molto ispirato ultimamente. L’assurdità di vivere attraverso un secondo boom tecnologico con la sua ignavia concomitante e autorizzata, la sua pulizia etnica e sociale, che minaccia tutti allo stesso modo per la marea di soldi che sposta, sono motivi per scoraggiarsi ogni giorno. Ma ero felice di trovare conforto in questi libri notevoli, di eliminare per alcune ore quelle preoccupazioni per ricordare che il flusso della storia è molto più grande del nostro piccolo dramma qui nella «Missione». Abbiamo le nostre lotte, per essere sicuri, ma lo sforzo più grande per cambiare il modo in cui viviamo è in corso, e si svolge a singhiozzo attraverso il tempo e lo spazio. I nostri alleati sono ovunque ed è facile dimenticare quanto è successo in questi ultimi anni e disperare su quanto sta accadendo proprio in questo momento nelle mie immediate vicinanze. Quindi, prendere il cuore! Ho intenzione di dare l’ultima parola a John Holloway:
► «La nostra lotta è per aprire ogni momento e riempirlo con una attività che non contribuisca alla riproduzione del capitale. Smettere di fare il capitalismo e fare qualcos’altro, qualcosa di sensibile, qualcosa di bello e gradevole. Smettere di creare il sistema che ci distrugge. Viviamo solo una volta: perché usare il nostro tempo per distruggere la nostra esistenza? Sicuramente possiamo fare qualcosa di meglio con le nostre vite. La rivoluzione non è distruggere il capitalismo ma rifiutarsi di crearlo. Figurarsi la rivoluzione come la distruzione del capitalismo significa riprodurre l’astrazione del tempo che è così centrale nella riproduzione del capitalismo: significa sconfiggersi da soli. Pensare di distruggere il capitalismo significa innalzare davanti a noi un grande mostro, così terrificante che o ci arrendiamo alla disperazione oppure concludiamo che il solo modo in cui possiamo uccidere il mostro è costruendo un grande partito con dei leader eroici che sacrificano se stessi (e tutti quelli attorno a loro) per il bene della rivoluzione. La questione della rivoluzione non è la questione del futuro. È qui ed ora: come smettiamo di produrre il sistema con il quale stiamo distruggendo l’umanità? Parafrasando la questione della rivoluzione con smettere di fare il capitalismo non ci da le risposte».
Fonte: nowtopians.com (traduzione JLC per Comune-info).
Chris Carlsson, scrittore e artista da sempre impegnato con i movimenti sociali statunitensi, è stato tra i promotori della prima storica Critical mass a San Francisco e autore, tra le altre cose, dell’ottimo «Nowutopia» (Shake edizioni) e, più recentemente, di «Critical mass. Noi siamo il traffico» (Memori).
John Holloway è nato a Dublino ed è docente di sociologia all’Istituto di Scienze umane e sociali dell’Università Autonoma di Puebla, in Messico. Ha pubblicato numerosi saggi. Il più importante, Cambiare il mondo senza prendere il potere (Carta/Intra Moenia, 2004, traduzione di Marco Calabria) è stato un successo mondiale; Crack capitalism è il seguito (che Holloway definisce «la figlia»).
Letture consigliate:
Cambiamo grammatica. Intervista a John Holloway
L’ultima grande crisi del capitale si risolse con la Seconda guerra mondiale e con il massacro di 50 miilioni di persone. John Holloway pensa che il rischio di una nuova ecatombe sia reale ma che la crisi è anche un’espressione dell’incapacità da parte del capitale di sottomettere il nostro fare alla sua logica. Possiamo aprire crepe nel tessuto della sua dominazione.
Dobbiamo lavorare più velocemente, dobbiamo fare tutto più velocemente. Soltanto così riusciremo a produrre più profitto per il capitale. Oppure possiamo dire che ci sono cose più importanti nella nostra vita, possiamo mettere una barriera alla velocità che ci impone. È questa la crisi del capitale. Il nostro rifiuto si esprime in molte forme. Non solo nelle grandi proteste ma anche nelle piccole crepe in cui cerchiamo di vivere in un altro modo. Possiamo ribellarci ma fino a quando accetteremo il dominio del denaro, il capitale proverà a riappropriarsi della nostra ribellione. Come possiamo rompere quel dominio? È questa la vera sfida della crisi del mondo contemporaneo. Non abbiamo risposte ma dobbiamo continuare a cercare (traduzione e montaggio di Paola Mele & InsOrto Rimini).
Le rivoluzioni non sono momenti epici come quelli dell’assalto alla Bastiglia ma processi sorprendenti e non lineari. Non le fanno i mitici leader che poi passano alla storia ma le persone comuni, cioè i ribelli, i sognatori, gli irregolari. Come gli indigeni zapatisti del Chiapas. Dobbiamo imparare a guardare e ad ascoltare la gente comune, che è sempre potenzialmente pronta a ribellarsi. Anzi, lo sta già facendo ma non per sostituire i governanti con altri governanti migliori, non attraverso lo Stato. Quello è un cambiamento che sappiamo essere illusorio e temporaneo. Il cambiamento vero è in basso, apre nuove strade e rompe i recinti culturali, costruisce relazioni diverse e nuove realtà sociali. Per questo infastidisce tanto
La rivoluzione comincia in strada
Critical Mass nasce grazie a decine di abitanti di San Francisco e si è diffusa in oltre 350 città in tutto il mondo. Dopo vent’anni, forse un po’ di euforia collettiva è venuta meno e ha preso altre forme, ma non per questo si è trasformata in qualcosa di meno potente nell’interazione delle persone comuni con la vita delle città. La Critical mass, spiega Chris Carlsson, scrittore e artista, uno dei promotori del movimento Cm, resta un modo unico, allegro e contagioso di resistere, un rifiuto creativo del dominio capitalistico perché non è un’organizzazione, non inoltra petizioni a politici delegati, non segue percorsi né tantomeno leader. «Rotoliamo ovunque, non ci fermiamo mai. Siamo uno spazio pubblico in movimento».
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