Quando si parla di decreti sicurezza c’è sempre il rischio di pensare a una questione astratta che riguarda il piano normativo. Si tratta invece della vita di ogni giorno di migliaia di donne, uomini, bambini che sono state risucchiate in una tragica realtà di marginalità, vulnerabilità e sfruttamento. Come dimostra quanto accade a Joy, Esther e Alì
Joy è rifugiata. Vive con la sua bambina e il marito in un piccolo centro urbano all’interno di un progetto di quello che una volta ero lo Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e che ora si chiama Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati). Il marito è ancora richiedente asilo e ora è finito sulla lista di coloro che dovrebbero essere spostati in un Cas (Centro di accoglienza straordinaria). Pazienza se è quasi certo che tra pochi mesi prenderà lo status di rifugiato e potrà ritornare nel progetto da cui oggi viene cacciato. Pazienza se il principio dell’unità familiare viene in questo modo calpestato e il papà avrà un domicilio diverso dalla moglie e la loro bambina, perdendo allo stesso tempo tutti gli strumenti per favorire l’integrazione offerti dallo Sprar. Pazienza se in questo modo Joy faticherà a reggere da sola il carico di una famiglia e perderà quel lavoro che ha faticosamente conquistato dopo un positivo percorso di inserimento.
Esther invece è più fortunata. Lei e suo figlio di sette anni partecipano da qualche mese a un progetto di accoglienza in famiglia nell’ambito dello Sprar. E anche se ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari, l’anziano signore che li ospita insieme alla sua compagna ha già fatto capire che non li metterà mai in strada. Anche se da oggi per Esther, con il suo permesso “in via di estinzione”, la permanenza nel progetto Sprar ha i giorni contati e non potrà più essere sostenuta in quel tanto agognato tirocinio. Che non rappresenta solo un possibile trampolino per l’autonomia economica, ma anche la strettoia da passare per poter convertire il suo permesso umanitario in motivi di lavoro e non cadere in un’irreparabile irregolarità.
Alì credeva di avercela fatta. Ha percorso la rotta balcanica sfuggendo alla polizia, ai gruppi autorganizzati di giustizieri che respingono i migranti sempre più giù, ricacciandoli là da dove sono venuti, di frontiera in frontiera. È persino sopravvissuto al gelo che ha fatto perdere i piedi a tanti suoi compagni (leggi anche La lavanda dei piedi di Gian Andrea Franchi). E non credeva che ad aspettarlo in Italia ci fosse un’attesa di più di cinque mesi nella completa invisibilità, nell’irregolarità di chi ancora attende un appuntamento in Questura per poter formalizzare la sua domanda di asilo. E nel rimpallo di competenze tra Comune e Prefettura non si aprono per lui nemmeno le porte di un dormitorio.
L’elenco delle storie può continuare. Andando a tracciare una mappa degli esclusi a causa dei decreti sicurezza e di un’applicazione arbitraria e spietata di norme che ledono tanti di quei diritti su cui si fonda la nostra democrazia e la nostra Repubblica. Quello che associazioni ed enti di tutela un anno fa, all’indomani dell’entrata in vigore dei decreti, denunciavano come un rischio pericoloso, oggi è una tragica realtà di marginalità, vulnerabilità e potenziale sfruttamento, potenziato dalla ricattabilità a cui è sottoposto un numero crescente di migranti nel nostro Paese. Effetti che rendono non più rimandabile una riforma radicale per rifondare il sistema di asilo e di accoglienza.
I segnali che arrivano sono contraddittori. Si pensi all’annunciata decisione di rinnovare senza modifiche lo scellerato memorandum di intesa con la Libia. Ma i tempi per discutere la riforma dei decreti sembrano ormai maturi perché senza un cambiamento urgente si profilano rischi sociali e anche occupazionali serissimi e un profondo impoverimento dei territori tutti, privati degli strumenti efficaci per la coesione sociale, il contrasto alla marginalità, la promozione della legalità.
Tra le tante posizioni e proposte, il coordinamento EuropAsilo – che raggruppa una ventina di enti di tutela impegnati da anni nello Sprar – si sta facendo portavoce della necessità di un cambiamento radicale e urgente, sintetizzato in sei punti.
- Ripristinare un sistema unico di accoglienza integrata e diffusa, rivolto sia ai richiedenti che ai titolari di protezione. L’esperienza dello Sprar ha dimostrato che accogliere sui territori sin da subito migliora di molto l’integrazione e ha costi inferiori: più del 40% degli accolti esce dai progetti in completa autonomia socio-economica e oltre l’80% dei finanziamenti ritorna ai territori nella forma di affitti, servizi per tutti, indotto.
- Superare il modello emergenziale dei Cas. I bandi sono andati deserti quasi ovunque e i servizi previsti non rispettano la normativa europea. I centri di grandi dimensioni, unici possibili secondo questo modello, hanno un impatto negativo anche per la popolazione.
- Prevedere una programmazione nazionale che consenta un piano di ripartizione che coinvolga tutti i Comuni in proporzione alla popolazione residente e ad altri indicatori socio-economici attraverso un Piano di ripartizione di durata almeno triennale.
- Aprire canali legali per l’ingresso dei richiedenti/titolari di protezione e contrastare il traffico degli esseri umani. Ciò comporta stabilire quote per il resettlement, consolidare i corridoi umanitari (anche quelli universitari), introdurre meccanismi di sponsorship.
- Incardinare il sistema di accoglienza nel welfare ordinario, potenziando il ruolo delle Regioni e dei distretti socio-sanitari. È una garanzia di professionalità, trasparenza amministrativa, controllo gestionale, fusione con le politiche sociali e sociosanitarie, in un’ottica di governance multilivello. E può permettere di superare l’attuale incardinamento nel ministero degli interni in favore di ministeri quali quello del welfare, della salute e il Miur.
- Reintrodurre la protezione umanitaria. La tipizzazione dei nuovi permessi non ha garantito la protezione alla casistica precedentemente coperta dalla protezione umanitaria. Il crollo dei riconoscimenti dal 40% (2017) al 19% (2019) sta creando una ampia fascia di irregolarità.
È bene ricordare che nel marzo 2018 il manuale operativo del ministero degli interni per lo Sprar riconosceva in tale sistema di accoglienza un «valore aggiunto sul territorio, capace di apportare cambiamenti e rafforzare la rete dei servizi, di cui possa avvalersi tutta la comunità dei cittadini, autoctoni o migranti che siano». Oggi occorre avere il coraggio e la lucidità per rilanciare l’accoglienza integrata, un sistema di accoglienza unico, diffuso su scala nazionale, basato sulla sussidiarietà pubblico-terzo settore, capace di incidere sui processi di inclusione, così come sul benessere dei territori.
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Pubblicato su Cittanuova.it e qui con l’autorizzazione dell’autrice.
Chiara Marchetti, docente di Sociologia delle relazioni interculturali presso l’Università degli Studi di Milano e di Sociologia della globalizzazione presso l’Università degli Studi di Parma, lavora nell’ambito della progettazione e della ricerca sui temi dell’asilo con l’Associazione CIAC Onlus di Parma.
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