di Paolo Moscogiuri
Quando si parla di utenza debole, si pensa immediatamente ed esclusivamente al disabile motorio; forse perché ci porta fuori strada quel simbolo della carrozzella che troviamo un po’ dappertutto. Mentre dovremmo sforzarci a pensare che fa parte dell’utenza più debole chiunque si trovi, per varie ragioni, in uno stato temporaneo o permanente di fragilità: il bambino innanzi tutto, l’anziano, la donna incinta o il genitore con il passeggino, l’ipovedente, il non vedente, ma anche il cardiopatico, chi ha un disturbo neurologico, e così via… e comunque riflettiamo che almeno due volte nella vita ci troviamo tutti nello stato di fragilità: quando siamo bambini e quando anziani.
Anche per il concetto di barriera architettonica, siamo portati fuori strada da uno specifico elemento. Infatti la maggior parte di noi, alla parola “barriera” associa la cosiddetta “rampa” o “scivolo”. Ma qui per fortuna, ci viene incontro la legge 503/96, dove nell’articolo 1, si dà una definizione senza equivoci. L’ho riassunto brevemente:
Per barriere architettoniche si intendono: tutti gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per chiunque e che impediscono la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature e componenti, compresa la mancanza di accorgimenti e segnalazioni per l’orientamento e la riconoscibilità dei luoghi. (es.: attraversamento poco visibile, un’auto parcheggiata sulle strisce pedonali, bancone troppo alto, palina bus con caratteri troppo piccoli, panchina senza schienale, ascensore con tasti senza numeri o rilievo Braille, una spiaggia senza passerella fino alla battigia, ecc.) Poi nella vita quotidiana dobbiamo anche affrontare le cosiddette “barriere cognitive”: il linguaggio web, uso di acronimi, le parole inglesi usate dalla politica e dai media, indicazioni stradali non chiare, modulistica burocratica e libretti di istruzione troppo complessi, ecc. Per l’appunto fonti di disagio per un anziano, una persona meno istruita o con problemi neurologici.
Tipologie, etica e cultura
La convinzione perciò che le barriere siano solo le rampe per le persone in carrozzella, non ci permette nemmeno di risolvere queste, perché le persone in stato di fragilità appartengono a decine di categorie diverse e le barriere sono di altrettante tipologie, e spesso la risoluzione di una diventa barriera per l’altra. Per questo la “barriera” non può essere efficacemente risolta considerandola solo un problema tecnico, perché è invece prima di tutto un problema etico, culturale e sociale.
Sono passati infatti ben ventidue anni dall’ultima legge per l’eliminazione delle barriere architettoniche, e nel frattempo è stato abbattuto anche il muro di Berlino, ma le barriere invece stanno sempre lì, al loro posto.
Terzo settore
Sembrerebbe allora di aver individuato gli impedimenti alla risoluzione e all’applicazione delle leggi: la poca sensibilità e cultura sull’argomento da parte degli amministratori della città, o la mancata formazione dei tecnici e delle forze dell’ordine, e il disinteresse dei cittadini convinti che a loro quest’argomento non riguarderà mai. Sicuramente sì, questi fattori ci sono, ma a mio avviso, non basta eliminarli per risolvere il problema: perché c’è un terzo fattore, il più importante, che rende inefficace anche il poco che viene fatto.
Questo fattore sta nella tipologia del processo amministrativo con cui si opera sulla città, lavorando per parti invece che per sistemi.
Percorsi e sistemi
Prendiamo il classico esempio dell’attraversamento pedonale, dove, come succede spesso troviamo una rampa da una parte e non dall’altra. Questo succede perché per esigenze di capitolato vengono eseguiti, per esempio, lavori sul lato sinistro della strada e non su quello destro. Questa procedura, apparentemente corretta, è proprio ciò che crea il problema, perché non tiene in considerazione che l’attraversamento è ciò che “interconnette” due parti di un sistema e che non può essere considerato a metà, creando una nuova barriera ben più pericolosa della prima, perché mette in pericolo la persona con problemi motori che rimarrà in mezzo alla carreggiata non potendo risalire.
Quando si affrontano i problemi di questa categoria, bisogna lavorare allora sui percorsi e non solo sulle singole barriere. Perché una persona con disabilità, esce da casa, come tutti, per andare a scuola, in ufficio, in banca, alla posta, al bar, in piazza.. .e pertanto si sposta su un percorso e non solo su una rampa. E soprattutto una visione sistemica ci porterebbe a considerare anche tutte le interconnessioni con gli altri sistemi infrastrutturali: trasporti, parcheggi, servizi, sicurezza, sanità, ecc.
Città per tutti e tutte
Di esempi se ne possono fare ancora e ancora, ma spero a questo punto che sia chiaro che la città è un organismo vivo e complesso, dove non c’è un solo elemento che non sia interconnesso a un altro e non ci sia un elemento degradato che non influisca negativamente su altre parti, compresa la criminalità.
La città infatti, è un sistema di sistemi e non una somma di parti, e come diceva il buon Aristotele: “Il tutto è sempre maggiore della somma delle parti”, motto poi ripreso dalla psicologia della Gestalt nei primi decenni del 1900. E questo è maggiormente vero quando parliamo di città. Ogni elemento di questa: una fontana, una piazza, un edificio, una panchina, ecc. non sono mai elementi neutri, ma carichi di emozioni, di affetti, di dolori, di positività o negatività. Pensiamo solo al “muretto” dei giovani o alla “panchina” dell’anziano, come potremmo affermare che sono semplicemente un agglomerato di mattoni o dei pezzi di legno, quando quel muretto diventa “proprietà” di un gruppo e l’anziano può anche chiederti di spostarti perché quel posto è suo da tanto tempo? Governare una città, allora, vuol dire anche entrare nella vita intima ed emozionale dei cittadini.
La “città per tutti” non può essere però realizzata solo attraverso l’uso tecnologico, tanto in auge in questi anni, che la trasforma in “intelligente” o peggio in “smart city”, perché così, al contrario di quanto abbiamo fin qui affermato, si parcellizzano i problemi, suddividendoli in: “trasporti intelligenti”, “edifici intelligenti”, “aeroporti intelligenti”, ecc., e perché non possiamo pensare di aver risolto, per esempio, il problema dei trasporti solo perché facciamo il biglietto dal telefonino. Questo è solo un sistema di facilitazione ad una determinata utenza, ma il trasporto pubblico è ben altra cosa.
La vera “città per tutti” sarà allora quella dove si attuano politiche per:
- migliorare il trasporto pubblico e disincentivare quello privato
- privilegiare gli spazi relazionali rispetto quelli di “non luogo”
- garantire l’accessibilità dei luoghi, in sintonia con l’autonomia e la dignità di ogni cittadino
- favorire la cultura che inizia dall’identità del luogo e dal senso di comunità
- trasformare le caratteristiche e i prodotti del luogo in occasioni di lavoro e di scambio
- difendere il patrimonio archeologico e ambientale facendolo diventare parte di quella stratificazione storica e culturale che identifica ogni borgo, paese, città italiana
- eliminare ogni discriminazione che crea cittadini di serie A e di serie B.
Annamaria Pagliusano dice
Se non esploriamo con cura lo spazio delle fragilità interiori in cui abitiamo tutti, eppure ciascuno a suo modo, non potremo mai attrezzare gli spazi comuni di affidabili attraversamenti per andarsi incontro…
Emilia De Rienzo dice
Pensare una città, qualsiasi cosa a favore dei più deboli, significa migliorare per tutti, invertire la rotta e vivere in un mondo più umano.
Paolo Moscogiuri dice
Infatti, nella progettazione urbanistica, ma anche per tutti gli edifici pubblici, consiglio di prendere come cartina al tornasole, il bambino, l’anziano e il disabile in carrozzella, perché se la città è sicura per loro, allora lo è per tutti. Il bambino è il disabile in carrozzella hanno in comune il punto di vista, a circa 1 metro e dieci, e quindi vengono nascosti da auto e cassonetti nell’attravetsamento, ma il bambino può non sapere leggere eventuali cartelli e non sa calcolare ancora bene la distanza in rapporto alla velocità. Da parte sua il disabile in carrozzella trova ostacoli insormontabili, e l’anziano lo prendo come misura dell’affaticamento. Oggi c’è un metodo di progettazione chiamato Universal Design che ci guida con i suoi 7 punti alla progettazione per tutti, ma negli uffici tecnici è pressoché sconosciuto.