Le forme della proprietà si arricchiscono di una nuova fattispecie, non sono più due, ma tre: privata, pubblica e collettiva. Una vera rivoluzione nella cultura giuridica e anche politica, spiega Paolo Cacciari. La proposta che dieci anni fa la Commissione Rodotà fece di considerare “comuni” alcune categorie di “beni” da inserire nel Codice Civile, trova oggi una parziale, ma significativa attuazione di fatto. Nei commenti in coda, un intervento anche di Paolo Maddalena, già Vicepresidente della Corte costituzionale, che, tra l’altro, scrive: ““Plaudo a questa legge che conferma la funzione di conservazione dell’ambiente delle proprietà collettive. Non condivido invece la facoltà data alle regioni del cambio di destinazione… Auspicherei una legge che ampliasse l’elenco delle proprietà pubbliche… e abrogasse il decreto legislativo del 2010 che rende alienabili anche i beni demaniali…”
di Paolo Cacciari*
Udite, udite! Aggiornate i manuali di diritto, le forme della proprietà si arricchiscono di una nuova fattispecie, non sono più due, ma tre: privata, pubblica e collettiva. Una vera rivoluzione nella cultura giuridica e anche politica. «In attuazione degli articoli 2, 9, 42 e 43 della Costituzione, la Repubblica riconosce i domini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie». Così recita l’articolo 1 della nuova legge Norme in materia di domini collettivi, approvata definitivamente il 26 ottobre alla Camera dei deputati (A.C. n. 4522) e ancora in attesa di essere pubblicata in Gazzetta Ufficiale.
La proposta che dieci anni fa la Commissione Rodotà fece di considerare “comuni” alcune categorie di “beni” da inserire nel Codice Civile, trova oggi una parziale, ma significativa attuazione di fatto.
Certo, gli Assetti fondiari collettivi sono una fattispecie giuridica ben determinata e delimitata dal lavoro svolto in novant’anni dai Commissari speciali creati in epoca fascista allo scopo di liquidarli, ma ora, per una buffa eterogenesi dei fini, la nuova legge ne sancisce l’esistenza come titolari di beni collettivi indisponibili, inalienabili, indivisibili, inusucupibili, persino inespropriabili e di perpetua destinazione d’uso agro-silvo-pastorale, soggetti a vincolo paesaggistico nazionale (secondo il disposto del Codice dei beni paesaggistici e culturali). Costituiscono i “domini collettivi” quei boschi, pascoli, terreni seminativi, malghe, corsi d’acqua e relative pertinenze e diritti d’uso che siano amministrati da istituzioni comunitarie consuetudinarie, spesso plurisecolari, sicuramente pre-capitaliste, pre Codici napoleonici, pre-unitarie. Nelle regioni italiane prendono nomi diversi: Consorterie (Val d’Aosta), Società di Antichi Originari (Lombardia), Regole (Veneto), Comunelle, Viciníe, Interessenze (Friuli), Comunanze (Umbria), Comunioni familiari montane (Toscana), Università agrarie (Emilia e Lazio), Partecipanze ed altro ancora. In Svizzera si chiamano Patriziati; Baldios in Portogallo; Montes Viciñais in Spagna.
Secondo il censimento Istat del 2010, gli ettari di “terre di collettivo godimento” appartenenti alle proprietà collettive sono più di un milione e mezzo, quasi il 10 per cento della Superficie Agraria Utile in Italia. Il 3 per cento dell’intero territorio nazionale. La loro gestione è affidata agli enti esponenziali storici della collettività-comunità locale che assumono personalità giuridica di diritto privato con autonomia statutaria. Il patrimonio è fondativo dei sistemi territoriali eco-paesaggistici e deve essere utilizzato a favore della collettività degli aventi “diritto reale”, cioè delle persone residenti discendenti dalle famiglie originarie del luogo e – secondo le norme dei vari statuti – dei proprietari di immobili residenti. Una sorta di ius soli civico, con obbligo di custodia del bene. La legge prevede che le Regioni debbano controllare gli statuti degli enti per garantire la partecipazione alla gestione comune dei rappresentanti liberamente scelti dalle famiglie originarie stabilmente stanziate sul territorio. È accaduto, infatti, che alcune “regole chiuse” del Cadore discriminassero le discendenze femminili.
La nuova legge supera un regime provvisorio che si prolungava dal 1927, quando lo stato tentò di sciogliere gli usi civici e di sfaldare i loro patrimoni. La lunga resistenza è ora risultata vincente per merito della testardaggine di alcune popolazioni direttamente interessate (specie dei territori montani) e dell’opera della Consulta nazionale della proprietà collettiva. Decisivo anche il contributo di insigni giuristi, tra cui Pietro Nervi del Centro studi sui demani civici e le proprietà collettive dell’Università di Trento (www.usicivici.unitn.it) e Paolo Grossi, ora presidente della Corte Costituzionale, che quarant’anni fa scrisse un fondamentale tomo: Un altro modo di possedere (ora ristampato e ampliato da Giuffré). Ma la nuova legge di iniziativa parlamentare, proposta dal senatore del Partito democratico Giorgio Pagliari, docente di diritto amministrativo di Parma, è stata possibile anche grazie alla riscoperta dei commons avvenuta tramite i lavori della premio Nobel Elinor Ostrom e la nascita di un vasto movimento sociale che rivendica la gestione comunitaria e partecipata dei beni indispensabili al benessere “di tutti e di ciascuno”.
Come afferma Grossi, la proprietà privata non è solo quella individuale, venerata e mitizzata dalla civiltà borghese, tassello fondamentale dell’antropologia individualista e fondamento del sistema di mercato liberale, ma esiste un altro modo di intendere il “possesso” in forma collettiva, condivisa, solidale, partecipata. Più in radice ancora, nel caso dei “domini collettivi” viene superata la sovranità antropocentrica sul bene naturale (il diritto divino di disporne a piacimento dei beni del creato), ma, al contrario, si delinea un primato del bene sui soggetti che lo usano. Il possesso, quindi, non solo è collettivo, ma è anche finalizzato e vincolato alla custodia e alla preservazione del bene. Il diritto di proprietà si allarga anche al “popolo dei non proprietari”, ma ne viene limitato. Le terre d’uso comune smettono così di essere “cose”, oggetti di scambio, strumenti per fini ad esse estranee, e diventano realtà viventi portatrici di un sistema di valori intrinseco. Metavalori ambientali, storici, culturali, identitari, ecologici oltre che economici in senso pieno. I territori sono considerati nel loro potenziale di sostentamento e produzione permanente, nel rispetto delle capacità di carico antropico e nel rispetto dei tempi di rigenerazione delle risorse rinnovabili. Vi è qui l’idea che non vi possa essere discrepanza di interesse tra le «formazioni sociali» ove si realizza la personalità di ogni essere umano (ecco il rimando all’art.2 della Costituzione) e la buona qualità dell’ambiente naturale (rimando all’art. 9 reinterpretato dalla Corte costituzionale) in cui le popolazioni sono insediate. Da qui la necessità di vincolare la proprietà dei beni territoriali ad una «funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (articoli 42 e 43 che riconosce le «comunità di lavoratori e di utenti» quali soggetti abilitati a realizzare un «preminente interesse generale»).
Nella nota dei Servizi studi legislativi della Camera si legge che: «Le difficoltà di inquadramento sistematico dei domini collettivi, appartenenti originariamente ad una comunità, derivano anche dall’irriducibilità dell’istituto all’attuale concezione privatistica, di derivazione romanistica, basata sulla proprietà privata. Si consideri, a tal proposito, anche il contenuto dell’art. 42, primo comma, Cost. secondo il quale “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”». Con questa nuova legge si viene quindi a prefigurare un terzo tipo di proprietà ricco di possibili sviluppi nella prospettiva dell’autogoverno delle comunità che rompe un antico recinto giuridico dottrinale; una vera eresia rispetto al dogma proprietario del paradigma classico pubblico/privato, dicotomico nella teoria, concorrente nei fatti. Ambedue, infatti, nei comportamenti pratici dello stato liberale sono funzionali al buon funzionamento del mercato, all’appropriazione privata delle risorse, all’accumulazione dei profitti.
Non nascondiamoci comunque i pericoli nascosti tra le pieghe della legge. Si tratta pur sempre di proprietà collettive inserite in un regime di diritto privato e bisogna dare molta fiducia agli “aventi diritto”, alle popolazioni locali insediate, affinché facciano buon uso di questo antico/nuovo potere e non si facciano catturare dalle logiche della “valorizzazione” dei loro meravigliosi beni. Ad esempio, la legge prevede che le Regioni possano autorizzare cambi di destinazione d’uso dei terreni. Le esperienze in atto in tante parti d’Italia sono di straordinario interesse e positività. Vi sono Regole che hanno fermato impianti sciistici distruttivi e cave; Comunalie che hanno realizzato filiere integrate del legno e dei cereali; Partecipanze che hanno fermano la captazione di acque minerali; Viciníe che ripopolano paesi abbandonati (leggi anche Un antico mulino rivive con la Regola). Molti altri buoni esempi che possono diventare modelli economici e sociali. Si è quindi aperto un varco ed è interessante notare che le delibere (l’ultima è la n.446 del 2016) attraverso cui il Comune di Napoli hanno avviato la «ricognizione degli spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero dei beni pubblici (…) percepiti dalla comunità come “beni comuni” e suscettibili di fruizione collettiva», si ispirano proprio all’idea degli usi civici collettivi.
Paolo Maddalena dice
Carissimo Paolo, plaudo a questa legge che conferma la funzione di conservazione dell’ambiente delle proprietà collettive. Non condivido la facoltà data alle regioni del cambio di destinazione.
Desidero sottolineare che il diritto romano ha affermato la “proprietà privata” solo agli albori del 1° secolo a. C. parlando di dominium ex iure Quiritium, mentre ha sempre considerato il territorio “proprietà collettiva” del Popolo. Tanto è vero che, per dare in uso ai veterani parte delle terre conquistate, occorreva una specifica legge (lex centuriata o plebiscitum) e una cerimonia detta della “divisio et adsignatio agrorum”. L’idea che la proprietà romana coincidesse con la proprietà privata è un falso dottrinario che si trascina da tempo ed è effetto della cultura giuridica borghese.
Inoltre, desidero sottolineare che “proprietà pubblica”, in Costituzione, come rilevò il Giannini, significa “proprietà collettiva demaniale”, cioè proprietà del Popolo, e come tale inalienabile, inusucapibile e in espropriabile, a titolo di sovranità, mentre lo Stato persona, cioè la pubblica amministrazione, può essere proprietaria anche di beni che sono in commercio. Infatti il primo comma dell’articolo 42 della Costituzione recita: “La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato a enti o a privati”. In sostanza ci sono beni demaniali, che offrono utilità godibili nello stesso tempo da tutti, in proprietà del Popolo e “gestiti” dalla pubblica amministrazione (si tratta di beni “fuori commercio), mentre ci sono beni che offrono utilità individuali o familiari, che possono essere in proprietà privata di tutti, Stato compreso, e che costituiscono i “beni in commercio”. L’errore di non concepire lo Stato previsto dalla Costituzione come Stato comunità (quello che attribuisce la sovranità al Popolo), e il prolungarsi dell’idea borghese dello Stato persona, ha confuso le idee anche a proposito della proprietà pubblica.
Auspicherei una legge che ampliasse l’elenco delle proprietà pubbliche (la giurisprudenza della Corte di cassazione – sentenza sulle Valli di pesca della Laguna Veneta del 2011 – ha inserito nei beni demaniali anche il “paesaggio”) e abrogasse il decreto legislativo n. 85 del 2010 (il cosiddetto “Federalismo demaniale”), che rende alienabili anche i beni demaniali.
Se poi, invece di parlare di “proprietà pubblica”, nel senso di “proprietà collettiva del Popolo”, si volesse parlare di “domini collettivi” del Popolo, si faccia pure. Un caro abbraccio.
rosetta dice
Molto interessante la disamina di questi “commons” che possono dare vita a nuovi “commons” se si punta a riconoscerne appieno la loro multifunzionalità. Si pensi, ad esempio alla loro funzione di presidio del paesaggio e prevenzione del dissesto idrogeologico