Forse l’esperienza di questi mesi ha insegnato qualcosa in fatto di confini e alterità: ci siamo accorti, ad esempio, che l’altro siamo noi; che l’architettura delle relazioni internazionali ha istituzionalizzato un sistema sperequato di cittadinanze dal valore diverso, fonte di disuguaglianze in tutto il mondo; che tra i lavoratori definiti “essenziali”, perché impegnati ad assicurare servizi di vitale importanza per la società, la componente di origine migrante è enorme. Di certo abbiamo bisogno di ripensare concetti come cittadinanza e immigrazione che hanno caratteri dinamici e compositi e non sono per forza alternativi e separati. La prefazione di Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza (Vita e pensiero) di Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni a Milano
Ho scritto questo libro durante il blocco forzato delle attività a causa del coronavirus Covid-19, lavorando al testo con lo spirito con cui si pianta un seme: con la fiducia che un giorno potrà germogliare, crescere, diventare un albero. Scrivere un libro in questo tempo di prova ha voluto esprimere fiducia nell’avvento di una nuova normalità, e anche la speranza che usciti dal congelamento della vita sociale saremo più disposti a vedere gli altri con occhi nuovi.
Penso infatti che l’esperienza di questi mesi ci abbia insegnato qualcosa in fatto di confini, alterità, cittadinanza. In primo luogo, abbiamo scoperto che l’apertura verso il mondo esterno comporta dei rischi, ma la chiusura provoca danni di gran lunga peggiori. Stiamo provando che cosa significa assecondare le spinte isolazioniste, rimpiangere un passato (in realtà mai esistito) di comunità asserragliate e autosufficienti. Il nostro benessere e la nostra capacità di progredire dipendono da un’apertura, certo giudiziosa e governata, verso gli scambi e i rapporti con il mondo esterno. Una cittadinanza intesa come chiusura e arroccamento, come separazione e contrapposizione verso gli stranieri, distrugge la comunità che si vorrebbe difendere.
Il secondo insegnamento riguarda la bilateralità, delle chiusure come delle aperture. Come ha scritto «Avvenire», a un certo momento ci siamo accorti che l’Altro siamo noi. Se noi sigilliamo le frontiere o sospendiamo i voli, anche altri saranno spinti a farlo nei nostri confronti. Molti hanno avvertito come una sorta di sopruso i blocchi degli ingressi attuati da tanti governi del Sud e dell’Est del mondo verso i cittadini italiani, abituati da anni a circolare senza impedimenti (in 186 paesi del mondo potevamo accedere senza obbligo di visto), quando invece noi richiediamo visti e permessi ai cittadini di quegli stessi paesi quando vogliono entrare in Italia. Questi nodi alla fine sono venuti al pettine, stimolandoci a ripensare questi squilibri. Nell’ultimo decennio i nostri governi hanno tolto l’obbligo del visto per ingressi turistici ai cittadini di tutti i paesi dell’area balcanica (2010), al Brasile (2010), più di recente all’Ucraina e alla Moldova (2017). Dovremmo domandarci come proseguire su questa strada.
Questo punto innesca una terza riflessione. La tendenza a dividere il mondo in amici ed estranei, se non nemici, si è scontrata con la dura lezione del Covid-19. L’idea che i viaggi internazionali dei cittadini di alcuni paesi siano innocui e gli spostamenti di altri siano perniciosi contiene qualcosa di irrazionale, da pensiero magico. Anche se per una sorta di riflesso condizionato di scuola pavloviana continuiamo a guardare con sospetto i migranti poveri, a partire dai cinesi, a evitarli o a metterli in quarantena se arrivano dal mare, il temibile contagio sta diffondendosi in Europa e attraverso l’Atlantico mediante ogni sorta di contatto interpersonale. Viaggi d’affari, turismo, visite ai familiari all’estero comportano una circolazione di persone molto maggiore delle migrazioni. In tempi normali nessuno ci fa caso, ma neppure in questo tempo, prima sospeso, poi incerto e guardingo, ce ne rendiamo conto davvero. Istintivamente, associamo il pericolo alla mobilità dei poveri. Avere una buona cittadinanza in tasca si sta mostrando discriminante anche all’epoca della pandemia. L’architettura delle relazioni internazionali ha istituzionalizzato un sistema sperequato di cittadinanze dal valore diverso: è questa oggi la maggiore fonte di disuguaglianze attraverso il mondo.
Ma nel mondo che si chiude spunta anche la globalizzazione della solidarietà. La pandemia sta facendo scoprire una volta di più che i nostri destini di abitanti del mondo sono strettamente intrecciati. Nessuno si salverà da solo. L’arrivo a metà marzo di dieci tonnellate di materiale sanitario dalla Cina, con medici e infermieri al seguito, ha giustamente destato impressione. Così pure i soccorsi da piccoli paesi bistrattati, come Albania e Cuba. Chi è stato ostracizzato e discriminato è venuto in nostro soccorso, al di là di confini e visioni anguste della cittadinanza. È un piccolo germoglio di un mondo migliore.
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Anche gli immigrati residenti in Italia si sono resi protagonisti di generose collette a favore degli ospedali o della protezione civile, e in parecchi si sono uniti ai gruppi di volontari che a livello locale hanno prestato aiuto a persone anziane o con difficoltà a muoversi, e in altri servizi di pubblica utilità. Per esempio, le associazioni mussulmane hanno dichiarato di aver raccolto e distribuito 800.000 euro a favore di istituzioni italiane. Spiace notare che terminata la fase acuta dell’emergenza questo slancio – interpretabile come vedremo in termini di “cittadinanza vissuta” – sia stato rapidamente dimenticato, e siano tornate alla ribalta le pulsioni alla chiusura dei confini verso gli stranieri poveri o in cerca di asilo, motivate ora da alcuni casi di contagi tra le persone arrivate dal mare o da paesi attualmente più colpiti del nostro.
Un’altra scoperta innescata dalla pandemia riguarda i lavoratori giustamente definiti “essenziali”, perché impegnati ad assicurare servizi di vitale importanza per la sopravvivenza del resto della società. Lavoratori spesso umili, malpagati, dall’occupazione precaria se non addirittura irregolare. I riflettori però non si sono accesi compiutamente sulle origini di questi lavoratori: su quanto cioè tra i lavoratori essenziali incida la componente di origine immigrata. Se complessivamente gli immigrati rappresentano il 10,6% dell’occupazione regolare del nostro paese (in cifre, 2,45 milioni), proprio nei settori cruciali per il funzionamento quotidiano della società e nei lavori manuali che li sostengono il loro lavoro è ancora più determinante. L’agricoltura è il caso più noto, tanto da avere innescato l’inserimento nel decreto rilancio (maggio 2020) della norma che consente l’emersione di quanti non dispongono di un regolare permesso di soggiorno: 17,9%, senza contare l’occupazione non dichiarata. Allo stesso livello i servizi alberghieri. Ma il dato s’impenna in quel li che l’Istat definisce “servizi collettivi e personali”: 36,6%. Troviamo qui il fenomeno delle colf e assistenti familiari, dette riduttivamente “badanti” (l’Inps ne registra 859.000, per l’83% donne, in sette casi su dieci straniere, senza contare il vasto sommerso). Anche per loro è scattato il provvedimento di emersione, come stentato riconoscimento del loro contributo al “welfare informale” che puntella la difficile conciliazione dei vari compiti che gravano su tante famiglie.
In questi mesi, sono stati giustamente celebrati i medici in prima linea: tra di loro sono 19.000 quelli di origine straniera, secondo l’associazione che li rappresenta, tra cui purtroppo anche alcune vittime. Vengono poi gli infermieri: in Lombardia, uno su tre è immigrato. Ma se gli ospedali e le Rsa funzionano è anche grazie al lavoro semi-nascosto di molti operatori ausiliari e addetti a servizi di base, che pure si sono esposti al rischio di contagio per attendere ai loro compiti. Pulizie, magazzini, servizi di recapito sono altri settori a elevata incidenza di lavoro immigrato: di tutti abbiamo scoperto la necessità, la scarsa visibilità pubblica, le modeste ricompense. Non sempre l’origine di chi li svolge.
Alla luce di queste premesse, discuterò il rapporto tra cittadinanza e immigrazione mostrando come entrambi i concetti abbiano caratteri dinamici e compositi. Concepiti come alternativi e separati dalle ideologie fondative degli Stati nazionali, con il tempo si sono incontrati e intrecciati.
L’immigrazione durante gli anni si trasforma, mediante ricongiungimenti familiari, matrimoni misti, crescita di nuove generazioni sul territorio. È formata da persone che godono di diritti diversi, a partire dalla cittadinanza che posseggono, dall’anzianità d’insediamento, dalla collocazione socio-economica. È un processo in continuo divenire, giacché le persone cambiano vivendo all’estero, formando una famiglia, generando figli, eventualmente ripartendo per altre destinazioni, o ritornando indietro. Anche attraverso questi mutamenti, interseca varie dimensioni della cittadinanza, politiche, sociali e culturali.
La cittadinanza a sua volta non è una prerogativa immutabile, non è un blocco omogeneo, non si limita alla dimensione legale: non separa in maniera netta e inequivocabile cittadini e non cittadini. Proprio l’immigrazione, insediandosi, mostra che la cittadinanza si articola in diverse dimensioni, di cui alcune possono essere raggiunte prima e più facilmente dai residenti stranieri, mentre altre rimangono più lontane e gelosamente custodite. Alcune possono essere esercitate attraverso i confini, come il voto dall’estero, mentre altre possono combinarsi, come nel caso della doppia cittadinanza.
Per altri aspetti, alcuni attori collettivi, come le associazioni, i sindacati dei lavoratori, le comunità religiose, possono dare voce a chi non gode della cittadinanza politica.
Altre dimensioni della cittadinanza esprimono poi il profilo del cittadino attivo, responsabile, partecipe della vita sociale, e possono essere vissute anche al di fuori della cittadinanza formale.
Soprattutto a chi vive tali significati della cittadinanza in questi giorni difficili, italiano o straniero, questo libro è dedicato.
Nel testo confluiscono, molto rielaborati e aggiornati, vari spunti di riflessione offerti ai lettori del quotidiano «Avvenire»: i lettori più attenti ritroveranno argomenti come i numeri effettivi dell’immigrazione e dell’asilo, le domande di riconoscimento delle seconde generazioni, l’esigenza di una nuova legge sulla cittadinanza, la partecipazione attiva degli immigrati alla vita sociale. Tutti sono stati però ripensati per trovare collocazione in questo percorso.
Maurizio Ambrosini è docente di Sociologia delle migrazioni nell’Università degli studi di Milano
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