Come possiamo elaborare percorsi nuovi di decostruzione del racconto dominante? Aldo Morrone, medico da sempre dalla parte dei più deboli, lo fa, ad esempio, cercando di trovare aiuto nell’ultimo libro di Carlo Rovelli, ma soprattutto guardando quello che è accaduto a Cutro da un angolo di mondo molto particolare: un campo rifugiati del Kurdistan, raggiunto dopo aver trascorso diverse settimane nella regione del Tigray, in Etiopia, dove è in corso la crisi umanitaria più orribile e dimenticata del mondo
«A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle»
(Dante Alighieri, Paradiso, XXXIII, vv. 142-145)
Carlo Rovelli ha appena pubblicato uno splendido libro per aiutarci a capire una grande avventura in corso: l’universo e i buchi bianchi. È possibile che un buco nero diventi un buco bianco? È possibile che da un buco bianco si possa essere catapultati in un futuro lontano perché il percorso interno potrebbe durare pochi secondi, mentre fuori sarebbero trascorsi miliardi di anni? Cosa accadrebbe se il tempo tornasse indietro? Se esistesse un tunnel quantistico spazio-temporale, e provassimo ad attraversarlo, ci sarebbe una nuova vita? Ho pensato a queste straordinarie ipotesi di Rovelli e mi sono chiesto: ci sarà un’altra opportunità per coloro che abbiamo abbandonato al loro destino? Non mi riferisco solo a Cutro. Penso alla Siria, all’Etiopia, allo Yemen, e ad altri mille luoghi dimenticati dove guerre, fame, malattie e oppressioni rendono la vita un inferno e uccidono la speranza.
Faccio queste riflessioni nei campi rifugiati in Kurdistan e il pensiero va alle polemiche sul naufragio di Cutro, con i suoi sessantotto morti, gli oltre trenta dispersi e ottantadue salvati (anche se nessuno conoscerà mai i veri numeri). Qui tutto è drammaticamente reale e nessuno ha voglia di discutere stando comodamente seduto in poltrona in un salotto. Da troppi anni, se non da sempre, si vive o meglio si sopravvive in condizioni impensabili in Europa. Eppure siamo tra il Tigri e l’Eufrate dove è nata la nostra civiltà… Ma chi lo ricorda?
In questi giorni ho letto che qualcuno ha messo in discussione la professionalità e l’impegno delle donne e degli uomini della Guardia costiera. Personalmente ho vissuto il privilegio e la fatica di lavorare con loro molti mesi a Lampedusa. Sono testimone delle lacrime e del dolore quando non riuscivano a salvare una vita in mare ma anche della gioia e dell’entusiasmo quando le missioni finivano con “tutti salvi”. Era ed è la loro più grande ricompensa. In una di queste missioni, su uno dei tanti, tantissimi barconi stracolmi di umanità disperata, insieme alla mia collega Lia riuscimmo a strappare alla morte, con un lungo massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca, un ragazzo tunisino. Ancora ricordo la gioia di tutti i marinai.
Stando qui in Kurdistan si comprende meglio perché si arriva a sfidare la morte per fuggire. Si respira ogni giorno il vento della disperazione, della perdita di senso: perché proprio a me? Perché proprio a noi? È quello che ascolto ogni giorno. Vivere in Iraq, durante la guerra dell’Isis o in Afghanistan dopo che per vent’anni abbiamo promesso il paradiso e invece abbiamo lasciato l’inferno, rende così disperati da spingere le persone a partire anche se ci fosse solo una benché minima probabilità di farcela.
Sono da poco tornato da un altro inferno della guerra: la regione del Tigray, in Etiopia. Lì infatti si sta svolgendo la crisi umanitaria più orribile e dimenticata del mondo. E non bastano gli oltre ottocentomila morti e gli oltre tre milioni di sfollati a farcela ricordare. Il “cessate il fuoco” d’inizio novembre è ancora solo sulla carta. Non ci sono medicine, cibo, acqua e futuro.
Da oltre quarant’anni cerchiamo di andare nei Paesi impoveriti per restituire dignità e salute a tutti, impedendo che donne e bambini muoiano nel Mediterraneo, o alle porte di Ceuta e Melilla, o nei territori dove non riusciamo a far cessare guerre, persecuzioni religiose, politiche o addirittura etniche. Credo che sia l’unica vera scelta per fermare la morte di innocenti.
Mi chiedo ancora, se avesse ragione Carlo Rovelli ed esistessero i buchi bianchi, potremmo attraversare il tempo e lo spazio come Alice lo specchio? Avremmo la possibilità di intraprendere un viaggio verso un nuovo avvenire? E potremmo far rivivere coloro che abbiamo condannato a morire? Spero che i “buchi bianchi” esistano davvero e spero anche di poter scorgere nella loro esile esistenza la tenerezza di un abbraccio e di un sorriso tra chi non c’è più e noi. Sono convinto che, se accadesse, le stelle sorriderebbero, come promesso dal Piccolo principe.
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