Chernobyl, la seconda guerra nel golfo, il terremoto in Emilia Romagna, la stragi di Parigi. Le giornate a scuola durante e dopo eventi di quel tipo possono rendere grandi e piccoli più sensibili e responsabili del solito, racconta Mirco Pieralisi, insegnante. Anche oggi con le giornate del virus si tratta di scatenare curiosità e di costruire nuovi racconti da far conoscere fuori dalla scuola
Nel maggio del 1986, quando ero ancora insegnante nella scuola dell’infanzia, vissi l’esperienza delle conseguenze di un evento che per qualche tempo determinò grandi e piccoli mutamenti nelle nostre abitudini quotidiane, nella percezione del pericolo, nelle modalità di discussione pubblica e di accesso all’informazione. Le conseguenze della catastrofe nucleare di Chernobyl arrivarono anche nella nostra piccola scuola materna, come si chiamava allora, quindi nei nostri piatti come nelle domande dei genitori, portatori di decine di letture diverse, opinioni, giudizi e pregiudizi, paure, angosce ma anche alzate di spalle più o meno tranquillizzanti.
Le bambine e i bambini ci consegnavano, con i loro disegni, con le loro piccole frasi o discorsi già complessi, quello che loro avevano sentito, capito, pensato e rielaborato. Eravamo abituati da sempre, ogni mattina, al rito della “conversazione”, che veniva prima di qualsiasi altra attività pratica e non necessariamente era a quella propedeutica. Riempimmo in quei giorni una quantità incredibile di fogli con i loro racconti, le loro domande, le loro spiegazioni, la particolare rielaborazione di quello che ricevevano dall’universo adulto, familiare e globale. Come un flash, mentre scrivo, mi torna in mente Francesco, che con il piglio dell’esperto spiegava che bisognava bere il latte a lunga… conversazione. E non solo di lapsus si arricchisce il linguaggio! Una volta sentii dire nella mia classe che la parola terrificante deriva da terremoto (che in effetti un po’ di terrore lo provoca…) e io non potei non pensare allora alla mia personalissima traduzione e interpretazione di quella che i giornali sportivi, alle cui fonti mi abbeveravo nei primi anni sessanta, denominavano “invasione pacifica del campo”, che poteva avvenire per fare festa o, come in famoso Juventus Inter, perché non c’era posto sugli spalti. Per me il significato di pacifico era chiarissimo: il termine derivava da Oceano Pacifico, e la gente che invadeva il campo era come il mare che con le onde allagava la terra con le sue gigantesche ondate.
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Ma torniamo alle nostre catastrofi ed emergenze, perché essere a scuola in quelle contingenze ci rende ancora più sensibili e responsabili del solito. Ai bambine e i bambini e a coloro che hanno pochi anni più di loro, la scuola pubblica non offre un mondo avulso dalla realtà quotidiana, ma nemmeno il semplice prolungamento della vita familiare, fatta di esperienze quotidiane e di idee profondamente diverse tra loro. A scuola, fin dalle prime conversazione in cerchio in cui i più grandi hanno compiuto i cinque anni, si scopre e si prepara un altro mondo, fatto di testimonianze, interrogativi anche di natura scientifica e filosofica, si impara il confronto e, perché no, lo scontro con chi la pensa diversamente. Bambine e bambini costruiscono una nuova interpretazione della realtà e la mettono in relazione con le vecchie conoscenze, con quello che già sapevano e quello che hanno scoperto all’improvviso. Si svelano segreti, si inventano, letteralmente, nuove parole e si gioca con tante altre, comprese quelle che ci spaventano, comprese quelle da cui gli adulti li allontanano per “proteggerli” o a cui li sovraespongono pensando che “tanto non capiscono”. Convivere con le preoccupazioni, le ansie, le incertezze, le rigidità degli adulti non è semplice ma a scuola, da piccoli come da adolescenti, loro hanno la possibilità di vivere un’altra storia. In classe non troveranno delle copie dei loro amatissimi genitori ma delle guide che li porteranno ad esplorare altri luoghi del reale e dell’immaginario, luoghi dove convivono informazioni (e cautele) da acquisire e sconfinamenti fantastici con le realtà parallele che l’umanità da tempo immemorabile ha creato per dare voce alle nostre paure come al desiderio di avventura. E se le guide sono brave, state sicuri che impareranno cose nuove anche loro stesse.
Ho vissuto la straordinaria risposta che le scuole dettero al terremoto in Emilia Romagna del 2012. Ricordo il giorno in cui la scossa arrivò in piena mattina. Avevamo fatto a suo tempo le famose prove periodiche di evacuazione, in cui puntualmente c’era sempre qualcosa che non andava. Quel giorno funzionò tutto perfettamente. Riemersero da sotto i banchi come se fossero un unico corpo, scesero le scale in perfetto ordine, perfino il loro maestro si ricordò di prendere registro, verbale e occhiali prima che le Eva, Emma, Chiara o il Michele di turno glieli sbattessero in mano con aria spazientita. Seguirono misure eccezionali come la chiusura delle scuola per due giorni. L’imminente chiusura dell’anno scolastico ci tolse un po’ la possibilità di raccontarci come ci eravamo sentiti, i brividi e l’orgoglio, il piacere dell’avventura, la paura e perfino il fascino che essa, sotto sotto, poteva suscitare. Ma siamo sicuri che loro si sono portati a casa qualcosa di unico, qualcosa su cui nella vita torneranno a parlare con altri, anche quando avranno appreso che altre bambine e bambini di altre scuole, negli anni precedenti e successivi, sono stati tragicamente meno fortunati di loro.
Tornare in classe dopo un evento drammatico, un terremoto o una catastrofe ci è capitato più volte, parlarne è stata la prima medicina, come il giorno dopo la stragi di Parigi, nel novembre del 2013. In quell’occasione l’evento eccezionale non aveva niente di naturale, non era nemmeno solo frutto di errori e trascuratezze, ma era il prodotto diretto e consapevole della volontà umana. La discussione durò a lungo e molti riportarono immagini, cronache e commenti che avevano occupato gli spazi televisivi. “Io poi non capisco – diceva M. scuotendo il capo – quelli dicono che lo fanno per vendetta, poi c’è la vendetta della vendetta e poi la vendetta della vendetta della vendetta… e non si finisce mai!”. Concetti per certi versi piuttosto simili era circolati anche ai tempi della seconda guerra del golfo, nella scuola elementare più multietnica in cui abbia insegnato. Un giorno, dopo intensa preparazione di cartelli e bandiere della pace, con tutte le classi, maestre, bidelli e anche con qualche genitore che aspettava fuori tra l’incredulità e l’orgoglio, sfilammo in corteo e facemmo tutto il giro della zona della nostra scuola. “Questi non si aspettavano una manifestazione di bambini, ma io gliel’ho detto che è per la pace!” aveva sottolineato Jessica, che allora faceva la seconda, per chiarire le cose.
E oggi è arrivato il virus, le scuole sono chiuse e alla loro riapertura io non sarò più a prendere appunti, a fare un po’ di ordine mentre tutte e tutti parlano e poi chiedono, ascoltano, leggono, costruiscono testi individuali o collettivi, fanno disegni, scrivono cronache e interviste, poesie e storie inventate. Allora mi limito a immaginare di avere i bambini e le bambine della mia ultima classe quinta, a immaginare cosa avrebbero detto dopo un periodo lungo senza scuola proprio quando di scuola c’era un bisogno assoluto.
“C’era uno che diceva che i supermercati sono stati saccheggiati! Praticamente come a Troia…” esclamerebbe G., subito bacchettata da T. che preciserebbe: “Veramente Troia è stata anche incendiata, il Conad quando siamo tornati martedì era aperto e c’era proprio tutto”. Penso che mi domanderei come A., che andava quasi ogni fine settimana a trovare la sua bisnonna in Lombardia, avesse vissuto le notizie “tranquillizzanti” sul fatto che le persone in pericolo sono solo gli anziani “già debilitati”, e mi vengono in mente anche i ragazzi e le ragazze della quinta primaria da cui sono andato a parlare della seconda guerra mondiale meno di un mese fa. Mi avevano consegnato le interviste fatte da loro agli anziani ottantenni e novantenni, bisnonni e conoscenti, testimoni dei giorni in cui si poteva morire in ogni momento per una bomba o una raffica di mitra. I loro vecchi, deboli, forse “debilitati”.
Mi immagino discussioni infinite su mille particolari e dovrei perfino affrontare da questioni di bio-chimica su cui non sono preparato. Seguirebbero discussioni infinite e non mancherebbero certo considerazioni improntate al sano senso pratico, come le regole per lavarsi le mani o l’utilità o meno delle mascherine. E non mancherebbe certo la domanda delle domande di M.: “Io vorrei chiedere una cosa anche se forse non c’entra con quello che stiamo dicendo: ma oggi la partita ufficiale la facciamo lo stesso?”. “Certo! – lo rassicurerei, per poi aggiungere – Però giochi nella mia squadra e stai in porta al posto di B che è assente!”.
Le bambine e i bambine abitano ancora non lontano dal confine, come i loro vecchi. Lo sapevano bene gli indiani Navajo e Hopi, i contadini dell’Europa del nord e del sud, i narratori e le narratrici, a volte dal passo incerto, che consegnavano ai piccoli del villaggio doni e racconti provenienti da un altro mondo.
Le bambine e i bambini delle nostre scuole, ma anche i loro compagni appena più grandi, hanno la forza di convivere con la paura, che conoscono più di quanto gli adulti immaginino, si fanno perfino carico di proteggere chi pensa di proteggere loro. E si portano a scuola, consegnandolo ai propri insegnanti, quell’altalenante girovagare tra il bisogno di rassicurazione e il desiderio dell’avventura straordinaria. Bisogna farsi trovare preparati al loro ritorno, bisogna far capire che noi c’eravamo sempre stati anche quando eravamo lontani, non perché abbiamo dato dei compiti da fare ma semplicemente perché vogliamo essere le loro guide e i loro compagni di viaggio. Care colleghe e colleghi, siate felici di essere o di tornare a scuola in momenti come questi, scatenate tutta la vostra curiosità, costruite nuovi racconti, e raccontateli anche a chi non ha la fortuna di girare tra i banchi della vostra classe.
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Mirco Pieralisi, insegnante
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Francesca Boldreghini dice
Parole bellissime Mirco. Sei un grande! Chissà se qualche insegnante avrà un approccio così…
Marina Battistin dice
Caro Mirko, che piacere sentire ancora le tue parole, così intense, intelligenti e sempre attente ai bambini. Lavorare con te è stato un onore e forse, per la tua caparbia volontà di stare dentro le classi a contatto costante con i tuoi bambini, la tua profonda cultura pedagogica è stata troppo poco diffusa e condivisa in tutta la scuola.