I commons sono il modo in cui una comunità, dandosi regole e confini, condivide una risorsa, fuori dal mercato e dallo Stato. Mentre in italiano, l’espressione beni comuni focalizza l’attenzione sui “beni” in sé: e infatti si tendono a interpretarli come “beni che lo Stato deve gestire nell’interesse della collettività”. L’approssimazione più adatta è il termine giuridico italiano, “usi civici”, che indica non tanto il bene, quanto l’uso e le usanze che regolano appunto l’uso. “Il punto è che i commons sono un paradigma pratico per l’autogoverno, la gestione delle risorse e il vivere bene – scrive David Bollier – … Non sono semplicemente cose o risorse. Chi non conosce gli studi sui commons cade facilmente in questo errore…”. Del resto si tratta spesso di economisti che tendono a reificare tutto…
di Miguel Martinez*
David Bollier è un signore statunitense, che qui all’Oltrarno fiorentino (associazione che gestisce un giardino comunitario) abbiamo conosciuto quando al giardino abbiamo ospitato un convegno internazionale (suona grandioso, ma ci stavano tutti sotto un albero dietro l’abside del Carmine) di esperti di commons.
Nel suo libro, Think Like a Commoner, David racconta un episodio che ci aiuta a capire il concetto.
A Boston, quando nevica forte, diventa impossibile parcheggiare le auto. Gli spazzaneve del Comune prima o poi arrivano, ma non sono sempre efficienti e comunque è un lavoro costoso. Allora, i residenti di certi quartieri hanno sviluppato insieme una pratica, che è anche una regola: se tu spazzi via la neve da un punto, finché dura la nevicata, puoi utilizzare quello spazio per te. E quando non ci sei, puoi lasciarci una seggiola pieghevole per indicare che quel posto è prenotato. Chi viene da fuori spesso non conosce le regole, oppure approfitta della fatica altrui e sposta la seggiola.
In questo piccolo esempio, c’è tutto: i commons non sono infatti una cosa, non è un “posto macchina”, anche perché i commons in questo caso si sciolgono assieme alla neve. I Commons sono il modo in cui una comunità, dandosi regole e confini, condivide una risorsa, fuori sia dal mercato (non girano soldi) che dallo Stato (un vigile probabilmente darebbe ragione a chi “ruba” il posto liberato dalla fatica altrui). E occorre vegliare, perché una risorsa limitata deve avere dei confini.
Tutto insieme, i Commons sono una risorsa, una comunità che se ne vuole prendere cura, regole condivise e confini.
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Mentre in italiano, l’espressione beni comuni focalizza l’attenzione sui “beni” in sé: e infatti i politici e i funzionari tendono a interpretarli come “beni che lo Stato deve gestire nell’interesse della collettività”. Infatti, l’approssimazione più adatta è il termine giuridico italiano, “usi civici”, che indica non tanto il bene, quanto l’uso e le usanze che regolano appunto l’uso.
Non a caso, il libro di David si intitola “pensa come un commoner”. Il commoning è in effetti un modo di pensare. Che però non è un’ideologia, è piuttosto un modo di vedere ciò che si fa concretamente. Tutt’attorno, si sente discutere di temi in apparenza fondamentali.
Stato o mercato? Europa o stato-nazione? Occupazione o difesa dell’ambiente? Identità o immigrazione? Progresso o tradizione? Per chi votare? L’uomo è egoista o è altruista? Quando si inizia a pensare come un commoner, questi grandi temi non è che scompaiano; ma non si riesce più a vederli allo stesso modo.
Scrive Davide Bollier in Think Like a Commoner (libro ancora senza traduzione in italiano):
“Non esiste alcuna formula o progetto standard per la creazione di un commons; questo si vede esaminando qualunque commons particolare. I commons poi non sono una panacea o un’utopia. I commoner sono spesso in disaccordo tra di loro. Ci sono scontri di personalità, oltre a discussioni interne su cosa funzioni meglio e cosa sia equo. Ci possono essere problemi strutturali di gestione e interferenze politiche esterne.
Ma i commoner sono impegnati ad affrontare difficili questioni pratiche, come, ‘qual è il modo migliore per irrigare questi quindici ettari, quando scarseggia l’acqua? Qual è il modo equo di assegnare accesso a una pesca in diminuzione in questa baia costiera?
I commones poi non hanno paura di affrontare il problema dei fannulloni, dei vandali e degli scrocconi: individui che cercano benefici senza assumersi le relative responsabilità.
Il punto è che i commons sono un paradigma pratico per l’autogoverno, la gestione delle risorse e il ‘vivere bene’. I commoner spesso riescono a negoziare soluzioni soddisfacenti per ottenere i loro obiettivi condivisi, senza coinvolgere il mercato o le burocrazie statali.
Si impegnano a definire le strutture migliori per gestire una risorsa collettiva, le procedure per stabilire regole e norme operative che funzionano. Capiscono la necessità di stabilire pratiche efficaci per impedire lo sfruttamento eccessivo del loro bosco o lago o terreno agricolo.
Riescono a negoziare un modo equo di assegnare doveri e diritti.
Amano ritualizzare e interiorizzare i loro usi collettivi ed etica di cura, e questo nel tempo diventa una bellissima cultura.
Una sfida costante è la tendenza di alcuni a ‘disertare’ un accordo collettivo e minare quindi progetti potenziali che altrimenti andrebbero a beneficio di tutti. Questo può portare allo sfruttamento privato di una risorsa collettivo oppure, peggio ancora, a una caotica tana liberi tutti che distrugge la risorsa. È quello che si chiama un ‘problema dell’azione collettiva’. Gli studiosi di scienze sociali passano molto tempo a cercare di capire perché i problemi di azione collettiva siano così intrattabili, e come si possono risolvere.
Ci aiuta a capire che i commons non sono semplicemente cose o risorse. Chi non conosce gli studi sui commons cade facilmente in questo errore, o perché sono economisti che tendono a reificare tutto, o perché sono commoner che dichiarano che una certa risorsa dovrebbe essere governata come un commons (…).
I commons possono certamente includere risorse fisiche e intangibili di ogni sorta, ma è più corretto definirli come paradigmi che combinano una comunità distinta con un insieme di pratiche, valori e regole sociali utilizzati per gestire una risorsa. In altri termini, un commons è una risorsa più una comunità più un insieme di protocolli sociali. I tre costituiscono un insieme integrato e interdipendente.
Da questo punto di vista, la domanda non è se il Lago Rosa nel Senegal o i database genoici su Internet sono commons, ma piuttosto se una particolare comunità si sente motivata a gestire tale risorsa come commons; e se riesce a tirare fuori le regole, norme e sanzioni realmente applicabili tali da far funzionare il sistema?”.
Stefano dice
Il paradosso si crea quando per tutelare l’ambiente, si decide di occupare uno spazio comunale. Mi riferisco ai casali che precedentemente avevano una valenza agricola, come quelli della tenuta de ‘ Pazzi, nel parco di Aguzzano, divenuti, col passare degli anni, boriosi presidi radical chic.
Gerardo dice
Sono d’accordo che non è tanto la natura dei beni ad essere importante, quanto la capacità della comunità di auto-organizzare la sua gestione.
Sull’argomento avevo scritto qualche tempo fa una breve nota che faceva riferimento agli avanzamenti del dibattito scientifico sui commons. Un dibattito che è ormai andato ben oltre la “tragedia dei commons” di Hardin e che ha portato Elinor Ostrom (una non economista) a vincere il cosiddetto premio Nobel in economia.
Di questo dibattito in molti continuano a far finta che non esista, in particolare gli economisti mainstream.
Ecco il link alla mia breve nota:
http://www.economiaepolitica.it/primo-piano/beni-comuni-e-auto-organizzazione/
Miguel Martinez dice
Stefano scrive:
“Il paradosso si crea quando per tutelare l’ambiente, si decide di occupare uno spazio comunale.”
Non conosco il caso che citi, però in astratto, qualunque comunità formata da persone che “la pensano allo stesso modo” è a forte rischio di appiattimento.
Si impoverisce innanzi tutto il linguaggio, visto che non c’è da confrontarsi con visioni molto diverse, non c’è da spiegare nulla. Il linguaggio tende quindi a diventare un modo rituale per rinnovare il gruppo.
E ovviamente si diventa molto simili per abbigliamento, gusti e tante altre cose; e ci si isola sempre di più dal resto del mondo.
Sono meccanismi sociali universali, che non guardano in faccia nessuno.