Zone 30, piste ciclabili, attraversamenti rialzati, abbattimento delle barriere architettoniche, semafori intelligenti, giardini autogestiti… possono migliorare la vita nelle città delle persone comuni, a cominciare dai più fragili e piccoli. Di sicuro città e scuola sono estremamente interdipendenti. Secondo Paolo Moscogiuri, architetto, se è vero che la pericolosità della prima non permette la realizzazione dei progetti di educazione diffusa, “è pur vero che senza che la scuola esca dal suo ambito, non ci sarà mai la motivazione per affrontare il problema…”. Anche di questo si ragiona il 7 ottobre, a Roma, alla tavola rotonda La scuola senza mura
di Paolo Moscogiuri*
Nella mia professione di architetto sono ormai trent’anni che mi occupo del diritto alla mobilità di tutti, e quindi dell’importanza di rendere le città accessibili e relazionali, prive di pericoli e discriminazioni. Ho iniziato con l’occuparmi dell’eliminazione delle barriere architettoniche per rendermi poi conto che le eccellenti leggi che le hanno messe definitivamente al bando dal lontano 1996, vengono di prassi disattese. Ho compreso quindi che se non c’è motivazione da parte della maggioranza dei cittadini, le minoranze, o apparenti tali, non vedranno mai soddisfatti i loro diritti, perlomeno in Italia, dove l’applicazione delle leggi e normative urbanistiche, appartengono più al capriccio del sindaco che le applicherà secondo le convenienze di consenso.
Prendendo il traffico automobilistico, come esempio immediato, è addirittura imbarazzante con quanta facilità si possa dimostrare la mia tesi. L’Italia si sa è una nazione composta più da paesi e borghi che da metropoli, e qui il codice della strada è ad personam: si parcheggia su marciapiedi, sulle strisce pedonali, nelle piazze, ci si ferma nel centro della strada per una commissione o per chiacchierare con l’amico, perché qui ci si sente un po’ proprietari anche della strada, è questo sarebbe un bene se il sentimento fosse utilizzato per accogliere e rispettare gli altri, ma ahimé non è così. Nelle strette strade dei nostri millenari centri abitati, i lati adiacenti le case non vengono adibiti a camminamento sicuro, ma a parcheggio, perché questo chiedono i cittadini, e bambini e anziani camminano sulla carreggiata. Gli investimenti di pedoni nei piccoli centri è molto più alto che in città, ma qui vige la regola della fatalità. D’altronde con la maggior parte dei cittadini, in questi piccoli paesi, c’è sempre un legame di sangue, e con i parenti e gli amici le leggi non valgono.
Nelle grandi città, la situazione non è migliore, ma la discriminazione e il pericolo sono di diversa natura. Mentre nei piccoli centri la conoscenza allargata fra gli abitanti crea aiuto reciproco che in parte sopperisce alle carenze urbanistiche, nei grandi centri l’anonimato aggiunge conflittualità alla discriminazione e al pericolo diffuso. Naturalmente le discriminazioni verso i più fragili non sono solo di natura stradale, ma di ogni tipologia; cito le più evidenti: difficile acceso agli autobus, mancanza di pensiline, cartellonistica illeggibile per gli anziani e troppo alta e poco intuitiva per i più piccoli, carenza di parchi, ma soprattutto di camminamenti sicuri per raggiungerli in autonomia, divieti nei cortili condominiali, mancanza di punti di riferimento per chiedere supporto, carenza di panchine e fontanelle, scarsa illuminazione dei marciapiedi, mancanza di un corpo di polizia municipale adibito al supporto dei più fragili.
https://comune-info.net/2018/07/disegnare-citta-educanti/
Questo breve quadro vuole essere da premessa a un mio contributo alla realizzazione della “Scuola diffusa”, per dimostrare che città e scuola sono estremamente interdipendenti, e se è vero che la pericolosità della prima non permette la realizzazione del progetto, è pur vero che senza che la scuola esca dal suo ambito, non ci sarà mai la motivazione per affrontare il problema (leggi Manifesto dell’educazione diffusa).
Roma, 7 ottobre La scuola senza mura. Tavola rotonda
Come e perché sperimentare piazze, parchi, botteghe, mercati, biblioteche, musei, librerie, qualsiasi spazio sociale e culturale come luoghi di apprendimento? Come e perché abitare in modo diverso gli edifici scolastici?
Bisogna allora che mentre si mettono a punto le metodologie di un insegnamento “extra moenia”, gli architetti, i tecnici e i politici studino quelle urbanistiche per rendere le città meno discriminanti. E se di begli esempi di risoluzione ne troviamo a iosa, soprattutto nelle città del nord Europa, e comunque non è difficile intuirle e progettarle, come le zone 30, le piste ciclabili, le strade a chicana, i marciapiedi avanzati, gli attraversamenti rialzati, i negozi adibiti all’aiuto dei più piccoli, l’abbattimento delle barriere architettoniche, i semafori intelligenti, le torrette di soccorso, i giardini autogestiti, ecc; ben più difficile in Italia è la loro realizzazione, fintanto che non si procede a cambiare i processi amministrativi nel verso di una gestione intelligente e non come ora burocratica ed inefficiente. Faccio un esempio per tutti. Le nostre strade sono piene di attraversamenti dove da un lato c’è la cosiddetta rampa di accesso e dall’altro lato no. In pratica una persona in carrozzina che scende per attraversare la strada, arrivata al lato opposto, non risale, rimanendo pericolosamente nella carreggiata. Questo avviene perché il processo amministrativo che ha individuato il rifacimento di un lato della strada, non considera l’attraversamento complementare al lavoro anche se appartenente a due lati diversi.
Oggi si parla molto a sproposito si “smart city”, ma nessuno parla di “smart administration”, senza la quale la città non solo rimarrà “stupida”, ma anche discriminante.
*Architetto, autore di La città fragile (ed. ilmiolibro)
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